Virus, pandemia e biopolitica. Parola alla net-artist Shu Lea Cheang

Da anni la taiwanese Shu Lea Cheang riflette sul corpo e la sua strumentalizzazione in ottica biopolitica e di genere. L’abbiamo intervistata mentre le sue opere sono protagoniste della mostra online promossa dal Musée des Arts Asiatique di Nizza: una rassegna che ruota attorno all’idea di virus.

Shu Lea Cheang (Taiwan, 1954), artista, filmmaker e networker, è considerata una delle pioniere della NetArt e figura di rilievo nel gruppo cyberfeminism. La pratica della Cheang mira a reinventare i meccanismi sociali e le strutture normative attraverso un’estetica straniante e sovversioni narrative ascrivibili al linguaggio sci-fi. Ha esposto, tra gli altri, al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, al Palais de Tokyo di Parigi, alla Transmediale di Berlino e ha rappresentato il Padiglione Taiwan alla 58. Biennale di Venezia. Ha recentemente ottenuto una menzione speciale al Prix Ars Electronica per il progetto UNBORN 0X9 ed è in mostra al Musée des Arts Asiatique di Nizza con la personale Virus Becoming.

Hai appena ricevuto una menzione d’onore al Prix Ars Electronica con UNBORNO0X9, un progetto che esplora le politiche degli ultrasuoni e le tattiche di riproduzione. Quali sono le urgenze dietro questo lavoro?
Tutto è iniziato nel 2016 con la residenza presso EchOpen, un laboratorio di sviluppo di eco-stetocopi low cost, portatili e open source, all’interno dell’ospedale parigino Hôtel-Dieu. Considerando che la tecnologia degli ultrasuoni è stata sviluppata per i sonar dei sottomarini da guerra, l’intenzione iniziale è stata quella di disattivarla, hackerando il dispositivo per rendere udibili i dati ultrasonici. In origine il lavoro doveva intitolarsi Ultra Love Songs for the Unborn e si focalizzava su tematiche sociali legate alla monogenitorialità.

Poi cosa è successo?
Il titolo è stato successivamente cambiato in UNBORNO0X9 dopo un laboratorio sulla topologia della gravidanza, durante il quale ho deciso, insieme al mio collaboratore Ewen Chardronnet, di rifocalizzare l’attenzione sulle nuove istanze legate alla riproduzione e sui possibili nuovi tipi di legami che potrebbero emergere con gli uteri artificiali. Fra il 2017 e il 2020 ho attivato una serie di workshop, interviste e gruppi di studio sulle politiche degli ultrasuoni, sull’ectogenesi, e sulla maternità surrogata, al termine dei quali è nato il collettivo Future Baby Production.

Quale sarà il passo successivo?
Il prossimo passo (in collaborazione con la piattaforma europea Art4Med che esplora metodologie dell’arte in campo biotecnologico) sarà la creazione di una interfaccia di comunicazione con il non-nato, grazie al quale la gravidanza si integra a una visione high-tech del corpo come componente biologica di un sistema di comunicazione cibernetico. Concepire il feto come se fosse fuori dal corpo della donna, e, attraverso gli ultrasuoni, renderlo visibile, diventa atto politico.

Shu Lea Cheang, UKI viris rising, 3 channel installation. Gwangju Biennale 2018. Image courtesy the artist

Shu Lea Cheang, UKI viris rising, 3 channel installation. Gwangju Biennale 2018. Image courtesy the artist

CORPO E BIOPOLITICA

Sei sempre stata molto coinvolta nelle questioni legate alla biopolitica, al genere e, più in generale, al futuro dei nostri corpi. Cosa ha influenzato questo approccio?
Ho vissuto l’epidemia dell’AIDS negli Anni Ottanta a New York. Il sesso e il genere venivano indicati come cause del diffondersi del virus. Gli Anni Novanta hanno introdotto l’illusione utopica secondo la quale “nel cyberspazio non c’è sesso e non c’è genere”. Questo approccio esprimeva un grandissimo potenziale di libertà, anche grazie alla figura del cyborg delineata da Donna Haraway, e il lavoro di collettivi come VNS Matrix e il loro Manifesto Cyberfemminista. Quel momento così entusiasmante si è però spento in un pacchetto corpo-macchina che presto diventerà un Biobot. Per me è dunque necessario mettere in primo piano una riflessione sul monopolio biotecnologico delle corporazioni, unito a tattiche dal basso di biohacking e strategie biopolitiche.

Come pensi che sia cambiata la rappresentazione di queste tematiche nelle tue opere? È possibile tracciare un parallelo fra BRANDON e 3X3X6. Entrambe sono opere che tematizzano la questione del genere e la segregazione sessuale.
Entrambe le opere si basano sulla struttura del Panottico di Bentham.
Per BRANDON (1997-98) – un lavoro sviluppato come reazione all’uccisione durante il capodanno del 1993 dell’uomo trans Brandon Teena ‒ ho creato un’interfaccia a circuito chiuso che ospitava casi di devianti sessuali e detenuti. Questa struttura fungeva sia da reparto ospedaliero che da cella di una prigione; in un’epopea web durata un anno ho esplorato l’avatar come corpo digitale socialmente costruito, in uno spazio di potenziale violenza e controllo, ma anche liberazione.

E per quanto riguarda 3X3X6?
Con 3X3X6 (2019) ho mantenuto la struttura del Panottico gestendola in forma di installazione multimediale con la quale ho sviluppato un racconto trans-punk, queer e anticolonialista con l’obiettivo di hackerare il sistema operativo della storia dell’assoggettamento sessuale. Ho aggiornato i sistemi di controllo utilizzando per esempio la ricognizione facciale in 3D per registrare e integrare nel sistema di controllo la presenza degli spettatori che, nello spazio del Palazzo delle Prigioni di Venezia (dove Giacomo Casanova fu rinchiuso per devianza sessuale in una cella di 3X3 metri), sono costantemente sorvegliati da 6 telecamere a circuito chiuso.
Quello che in BRANDON si formulava come un viaggio in un panottico digitale è divenuto, nel presente, con 3X3X6 una finzione trans punk che esprime un contro-resoconto collettivo della storia della sessualità.

Shu Lea Cheang, Brandon, 1997 98, panopticon interface

Shu Lea Cheang, Brandon, 1997 98, panopticon interface

UMANITÀ E VIRUS

Nella tua più recente mostra Virus Becoming, con l’installazione UKI Virus Rising immagini un mondo in cui gli umani, ormai dismessi dalle industrie di biotecnologiche come bio-spazzatura, riemergono come virus per rivendicare il proprio piacere e la propria autonomia. Il virus sembra essere uno strumento di liberazione, necessario per la sopravvivenza futura.
UKI è stato concepito nel 2009 durante la mia residenza all’Hangar Media Lab di Barcellona. In quel contesto ho dichiarato aperto un nuovo ciclo di lavoro, Viral Love BioHack: la propagazione del virus si mobilita come massa critica per infiltrarsi e occupare i corpi dei quali siamo stati espropriati. La questione del virus è molto legata alla mia esperienza personale. Ho perso molti amici di AIDS. Il mio terzo film, FLUIDO (2017), celebra il libero scambio di liquidi corporei manifestato dal potere di corpi incensurati e grezzi. In questo modo rivendico il virus come mia unica salvezza. Un tentativo di riconciliarmi con il dolore della perdita di intimità. Nel contesto attuale i nostri corpi sono colonizzati e ricostituiti. Ciò che abbiamo è solo il guscio di un corpo che ci è stato espropriato e i cui dati ci sono inaccessibili.

Quanto ha influito la pandemia sulle tue riflessioni?
Ancora una volta, durante la pandemia, è il contatto dei corpi l’agente di trasmissione virale. In UKI rifletto su questa realtà proponendo una storia nella quale le strette di mano divengono mezzo di scambio di dati, poi raccolti e sfruttati dalla corporation biotecnologica chiamata GENOM Co.

In mostra sono anche presenti alcuni “oggetti” che offrono uno sguardo sulle modalità di controllo biopolitico attuale. Il risultato, quello che tu chiami Bionet (BioRete), sono degli artefatti nei quali hardware, software e organico collassano l’uno nell’altro. Sono lavori che sembrano richiamare la società farmacopornografica delineata da Paul B. Preciado, ma in una versione schizofrenica. Tu come li descriveresti?
Benvenuti nell’era della BioRete di GENOM Co., una corporation che si appropria, altera e riconfigura i nostri dati biometrici, usando i batteri come agenti infiltranti. Questi batteri, una volta nel corpo umano, riprogrammano gli eritrociti per riconfigurare il DNA con la possibilità di archiviare e riprocessare i nostri dati. Questo processo è esemplificato da Petridish (2021), un video che fornisce una proiezione dei batteri in mutazione. Nell’era post-internet che ho immaginato, GENOM Co. fuoriesce dalla rete e prende il corpo umano in ostaggio e, nella sua ottica di profitto biotecnologico, raccoglie e coltiva i dati orgasmici per rivenderli come prodotto farmaceutico: la scultura in 3D Red Pill (2021), per esempio, è una capsula da prendere per bocca, pronta per il consumo di massa e creata per rispondere alla crescente richiesta di piacere immediato. Questa idea è stata molto influenzata da Testo Junkie di Paul B. Preciado e più in generale dal suo lavoro di rielaborazione e riscrittura della storia della sessualità.

Shu Lea Cheang, Red Pill, 2021, 3D printed sculpture of a capsule, glass and plastique, 3D printed blood cells, Musée des Arts Asiatiques, Nice 2021. Photo © Olivier Anrigo

Shu Lea Cheang, Red Pill, 2021, 3D printed sculpture of a capsule, glass and plastique, 3D printed blood cells, Musée des Arts Asiatiques, Nice 2021. Photo © Olivier Anrigo

VIRUS E FUTURO

Se da una parte gli oggetti del regime di GENOM Co. rivelano i meccanismi egemonici e le relazioni di potere della società in cui viviamo, l’installazione Virus Rising gioca un ruolo sovversivo nel suo immaginare un futuro cyborg di liberazione. Era tua intenzione giocare su queste due tensioni?
Con gli artefatti, che rappresentano la BioRete di GENOM Co. riconosco il sistema di controllo nel quale viviamo, ma è sempre necessario andare oltre e cercare modi per sovvertirlo. Il mio lavoro in fin dei conti è costante e ostinato nel creare un immaginario queer e anticolonialista nel quale la resistenza è esercitata collettivamente in una operazione di hacking continuo del sistema operativo che ci assoggetta.

Quali sono le tue impressioni sul prossimo futuro? Nel regime psico-disciplinare in cui ci troviamo, quali sono le possibilità di liberazione nel divenire virus?
Vorrei citare il testo di Arundhati Roy, The Pandemic is a portal, nel quale afferma che la pandemia è un “portale, da un mondo a un altro”. Dopo più di anno di gestione delle tattiche di lockdown, ci siamo imbattuti nelle politiche vaccinali, e la loro distribuzione problematica nelle varie parti del mondo. Io e te non viviamo la stessa condizione virale. Ognuno di noi è stato lasciato solo a cercare modi per sopravvivere, mentre la depressione e la confusione si sono fatte strada e permangono. È necessario ammettere il virus, vivere con il virus, divenire virus, ma soprattutto mutare nel virus. Il virus è una forza da riprodurre, proliferare e disseminare. Il virus è una atto collettivo che si realizza nella vita pubblica. Non si può sopravvivere e basta, dobbiamo farci attivare, attivarci e risollevarci da questo al “prossimo” mondo.

‒ Arianna Ferrari

mauvaiscontact.info
maa.departement06.fr

Intervista elaborata nell’ambito del corso di Critical Writing I, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2020/2021

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