Tra inganni e convulsioni. Ecco come il fast fashion sta mettendo in ginocchio il lusso
Prezzi bassi, sovrapproduzione e inquinamento sfrenato. Il fast fashion e la sua ulteriore degenerazione, l’ultra-fast fashion, propongono un modello di business contro cui i marchi del lusso non possono più competere
La cronaca ha finalmente registrato. Durerà? È accaduto quando il governo francese ha bloccato il sito web di Shein dopo che un’indagine della Procura di Parigi ha scoperto che sulla piattaforma dell’azienda venivano vendute bambole gonfiabili di natura pedopornografica. L’azione ha innalzato l’attenzione intorno alle pratiche del rivenditore cinese capace di proporre i suoi prodotti a prezzi così bassi da sembrare impossibili. Shein è cosa diversa rispetto ai brand protagonisti dal fast fashion. Qui ai primi tre posti si collocano lo svedese H&M che ha iniziato la sua espansine europea nel 1974; Inditex (con Zara, Massimo Dutti, Bershka, Pull&Bear, Oysho, Lefties, Stradivarius) holding fondata in Spagna nel 1985, mentre il giapponese Uniqlo è atterrato in Europa nel 2001. Per tutti il modello di sviluppo contraddice la tradizionale dinamica top-down (dalla passerella al negozio) del prêt-à-porter. Per i brand del fast fashion al primo posto ci sono i punti vendita in seguito i prodotti per riempirli. Per questo il ricambio dell’offerta deve essere il più veloce possibile, non importa quanto fotocopiata o semplificata rispetto alle proposte presentate in passerella nelle fashion week istituzionali. Tradotto: meno costi di ricerca, produzioni appaltate ovunque sia stato possibile spuntare prezzi al ribasso, qualità pessima, sovrapproduzione altissima e conseguente scarto dei capi acquistati da convertire in rifiuti.
Un modello industriale di successo
Complice il diminuito potere d’acquisto della classe media occidentale, il fast fashion ha via via scalato posizioni, è divenuto un fenomeno di massa, sino a sostituirsi nel quotidiano alla funzione dei brand tradizionali italiani o francesi. Il prezzo estremamente competitivo, come la velocità di produzione sono divenuti per questi ultimi insostenibili, rendendoli sempre più fragili e in fuga verso l’alto di gamma comunemente identificato come “lusso”. Il successo travolgente del fast fashion è certificato dai suoi numeri. Inditex, secondo il rapporto State of Fashion 2026 di McKinsey ha scalzato LVMH dal trono di brand più profittevole al mondo. H&M fattura quello che non riescono a raggiungere insieme Louis Vuitton e Dior. Uniqlo tramite la sua capogruppo Fast Retailing Co., Ltd., raggiunge i 19 miliardi mentre Kering a stento i 17. Il Gruppo Prada, il più potente tra quelli del tessile italiano, si attesta tra i 5 e i 6. Travolgente il successo economico e altrettanto travolgenti le pratiche industriali. Meglio distinguere: alcune recenti inchieste della Procura di Milano circa pratiche fori norma nel procacciamento e organizzazione del lavoro; sono stati coinvolti nomi noti come Armani, Brunello Cucinelli e Tod’s in un primo tempo, di recente la pesca a strascico ha coinvolto anche Dolce & Gabbana, Prada, Versace, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia e Off-White. È sacrosanto che gli inquirenti facciano il loro mestiere. Ma occorre rimanere lucidi: se irregolarità ci sono state si tratta quantitativamente di una goccia d’acqua nell’oceano di pratiche devastanti costituito dal fast fashion.

L’attacco dell’ultra-fast fashion
Tuttavia, persino i modelli industriale e di business del fast fashion sono oggi sotto attacco. L’ultra- fast fashion rappresenta un’evoluzione ancora più estrema del fast fashion tradizionale. I tristi campioni di questa peste sono al momento due: Shein e Temu. Il primo fondato nel 2008 a Nanchino (oggi la sua sede principale è a Singapore). Nel 2024 il fatturato di Shein ha raggiuto quello di Inditex, il primo in graduatoria tra i marchi storici del fast fashion. Qui il modello di business prescinde dal numero e la dislocazione dei punti vendita, sostituiti da compra-vendite domestiche via web (app + sito), senza passare per retailer fisici. Il modello industriale utilizza un sistema che gli permette di creare piccole produzioni, micro-lotti anche di poche decine o centinaia di pezzi collaborando con migliaia di fornitori asiatici. In questo modo riesce a proporre una quantità impressionante di nuovi articoli: anche a migliaia al giorno. Enormi le criticità sociali e ambientali: consumo incontrollato di materie prime, energia e acqua; poliestere e nylon usati per mantenere bassi i prezzi, in quanto derivati del petrolio rilasciano microplastiche nell’ambiente a ogni lavaggio, sono difficili da riciclare e non biodegradabili. ONG e Associazioni per i diritti dei lavoratori hanno denunciato più volte le condizioni dei laboratori che riforniscono Shein: turni fino a 14 ore al giorno, assenza di giorni di riposo, salari bassissimi, ambienti di lavoro insicuri. Non è solo la produzione a sollevare preoccupazioni. Diverse verifiche internazionali hanno rinvenuto in articoli venduti da Shein sostanze chimiche tossiche rischiose soprattutto per bambini e consumatori sensibili: in particolare bigiotteria, borse, scarpe e giocattoli. Ci può essere qualcosa di peggiore? Certo che sì. C’è DD Holdings Inc. (che controlla il brand Temu e la piattaforma cinese Pinduoduo) che nata nel 2015 e nel 2024 ha fatturato 50 miliardi di dollari. La principale differenza rispetto a Shein qui riguarda il modello di business: Temu opera come un marketplace puro, ospitando una moltitudine di venditori indipendenti che propongono articoli a prezzi irrisori ma di cui è impossibile controllare la qualità. Entrambe le piattaforme puntano sulla convenienza, ma Temu si distingue per prezzi ancora più bassi. Entrambe le piattaforme hanno un punto di forza nel velocissimo recapito a domicilio dei prodotti ordinati.
Gli inganni del fast fashion e dell’ultra-fast fashion
Temu e Shein hanno costruito un modello di business che sfrutta una falla del sistema doganale europeo: ogni singolo ordine viene spedito direttamente dalla Cina invece di importare merce in grandi lotti come tali sottoposti a dazi. È stato calcolato che nel 2024 in Europa siano circolati 12 milioni di pacchi al giorno del valore inferiore ai 150 euro: volume raddoppiato rispetto a quello del 2023 e triplicato per quello del 2022. Sotto i 150 euro ogni spedizione però secondo la legislazione europea è esente da dazi e di conseguenza sfugge a qualsiasi tipo di controllo. Il Consiglio europeo ha stimato che fino al 65% dei pacchi in ingresso siano stati deliberatamente sottovalutati nelle dichiarazioni doganali. Finalmente il 13 novembre scorso è arrivata la decisione di abolire l’esenzione doganale su piccoli pacchi provenienti da paesi extra Ue. Il Consiglio europeo sta lavorando a una soluzione semplificata per far entrare in vigore la nuova tassazione già dal 2026, in attesa della piattaforma doganale digitale prevista per il 2028. Il tempo stringe, in gioco c’è solo la competitività delle imprese europee e la sopravvivenza dell’intera filiera produttiva italiana a cui fanno capo 600mila posti di lavoro. Se sull’ultra-fast fashion ora si è di nuovo accesa l’attenzione, il fast fashion è sempre più accettato, da qualche tempo viene addirittura mimetizzato con un eufemismo, un vocabolo più neutro: mid-market. Ma comunque lo si voglia chiamare il prezzo scontato è un inganno: sul singolo capo è conveniente, ma altissimo è il prezzo dell’impatto ambientale che paghiamo tutti. Secondo un rapporto del Boston Consulting Group (BCG), nel 2024 i rifiuti tessili hanno raggiunto 120 milioni di tonnellate. Di questi, oltre l’80% finisce in discarica o viene incenerito, solo 12% viene riutilizzato, meno dell’1% riciclato. Le immagini delle discariche abbandonate nel deserto di Atacama o sulle spiagge dell’Africa non hanno bisogno di commento.

La crisi del lusso
Si affaccia infine un dubbio. I brand moda tradizionali, quelli identificati con il termine “lusso” non se la passano bene ultimamente: qualche recente dichiarazione di super manager arruolati per porre rimedio alla situazione, letta in controluce, insospettisce. Il termine “sospetto” è il contrario di “certezza”: ne sono cosciente. Però: non è che a qualcuno sta frullando in testa l’idea di avvicinarsi a modelli di sviluppo industriali o di business da prendere in prestito proprio dall’ultra-fast fashion? Perché l’adagio “pecunia non olet” si accompagna immancabilmente all’altro: “di notte tutti i gatti sono grigi“. E allora ti saluto tessile europeo…
Aldo Premoli
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