Non solo manichini. L’anima muta della moda racconta più di quanto si creda

Il manichino custodisce la storia del desiderio. È insieme specchio e anticipazione della moda. Dalla cera al pixel, dalla vetrina alla realtà aumentata, la sua evoluzione riflette quella del corpo

Non è solo la moda a essere mutevole, ma anche i dispositivi che ne sostengono la diffusione. Tra questi, il manichino: oggetto inanimato ma eloquente, capace di riflettere e talvolta anticipare le trasformazioni del gusto, del corpo e della società. Se l’abito è un potente mezzo di espressione, il manichino ne è l’interprete silenzioso: dà forma, letteralmente, agli ideali estetici del proprio tempo. Non si limita a esporre un capo, ma lo investe di significato e di contesto, incarnando desideri, aspettative, stereotipi e rotture. 

Storia del manichino: dall’Ottocento agli Anni Ottanta 

Nati come strumenti tecnici al servizio della sartoria, i manichini hanno sempre dialogato con il tempo in cui erano immersi. A partire dalla fine dell’Ottocento e nei primi del Novecento, iniziano ad assumere sembianze più umane per rispondere alle esigenze dei primi grandi magazzini: non più semplici supporti, ma corpi da ammirare e idealizzare. Poi, con l’avvento degli Anni Venti e Trenta del secolo scorso, cominciarono a riflettere l’estetica delle dive del cinema, i cui corpi incarnano il canone hollywoodiano: pose teatrali, tratti marcati, forme levigate e quasi irraggiungibili. Nel secondo dopoguerra, invece, si fanno più magri — anche per effetto della crisi economica — ma al tempo stesso più stilizzati e leggeri, grazie all’introduzione della plastica, il materiale della modernità. Negli Anni Ottanta iniziano a esibire addominali scolpiti e muscolature definite: è l’epoca della gym obsession, dell’aerobica, del corpo performante. Poi, con l’avvento del nuovo millennio e l’esplosione del digitale, la fisicità si dissolve: compaiono modelli smaterializzati, ologrammi, avatar tridimensionali. Il manichino, da corpo tangibile e toccabile, si fa icona virtuale. Non più presenza fisica nello spazio, ma proiezione, immagine, simulacro; ancora una volta al passo, o forse un passo avanti, rispetto ai desideri e alle distorsioni della società che lo genera.  

Storia del manichino: dagli Anni Novanta ad oggi 

Parallelamente, l’estetica del reale si spinge verso l’iperrealismo. Negli Anni Novanta e Duemila, grazie ai progressi tecnologici, si assiste a un ritorno di manichini estremamente dettagliati: dotati di occhi di vetro, ciglia vere, incarnati translucidi, talvolta persino di vene o pori visibili. Un effetto perturbante (uncanny), che confonde e affascina, portando il confine tra umano e artificiale a un livello di inquietante ambiguità. Già nel 1992, ad esempio, il Met introduce manichini dal volto familiare, come quello di Christy Turlington, una delle modelle più iconiche dell’epoca. Nel 2018, in occasione della mostra Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination, il museo commissiona invece la realizzazione artigianale di 175 manichini all’azienda londinese Proportion. Il curatore Andrew Bolton chiede espressamente che i volti — completi di parrucche personalizzate — si ispirino alla serenità e al raccoglimento della Pietà di Michelangelo e alla scultura di Giovanna d’Arco di Prosper d’Épinay del 1901. Oggi, superato il primo ventennio del nuovo secolo, il manichino resiste come corpo-simbolo, continuamente ridefinito. Anche quando si trasforma in pixel, continua a porsi come interfaccia tra desiderio e realtà, tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. È un organismo vuoto, eppure carico di senso, che ci interroga sul nostro rapporto con l’immagine, con il corpo e con l’altro. Osservarlo significa, in fondo, osservare noi stessi: le nostre ossessioni, i nostri slittamenti, i nostri sogni. Perché, come la moda, anche il manichino non parla mai solo di vestiti, ma di cultura, di potere e di visioni del mondo. 

Prima dei manichini: le bambole di moda 

Quando, nel 1781, il Tableau de Paris descriveva l’itinerario delle prime bambole-modelle in viaggio per l’Europa, nessuno avrebbe immaginato l’evoluzione che avrebbero avuto nei secoli successivi. “È da Parigi che le profonde invenzioni della moda dettano legge all’universo. La famosa bambola, il prezioso manichino agghindato all’ultima moda, passa ogni mese da qui a Londra e di lì va a diffondere le sue grazie in tutta Europa. Va al Nord e al Sud. Arriva fino a Costantinopoli e a Pietroburgo e la linea data dai francesi si ripete in tutte le nazioni, umili osservatrici del gusto della Rue Saint-Honoré”. Quelle “bambole di moda” — antesignane dei moderni manichini — erano piccoli corpi viaggiatori, ambasciatrici del gusto parigino in un continente che cominciava a riconoscere nella moda un linguaggio universale. Rose Bertin, celebre modista e confidente di Maria Antonietta, le utilizzava nel suo atelier come supporto creativo e strumento di presentazione: graziosi e minuscoli fantocci in legno, cartapesta o tela imbottita che sfilavano silenziosamente davanti alla regina e alle sue dame. Erano dummies, “muti” per definizione, ma sapevano comunicare più di quanto si pensasse: su di loro prendevano forma le silhouette, le stoffe, le acconciature che avrebbero dettato il gusto di un’epoca. 

Mannequin Museum
Mannequin Museum

Il manichino: indispensabile per la moda? 

In questo senso, il manichino nasce insieme alla modernità della moda stessa, e con essa alla nascita della modernità commerciale. Dalla fine del Settecento in poi, l’abito non è più soltanto un prodotto artigianale, ma diventa merce di seduzione, esposta, replicabile, desiderabile. Il manichino ne è il tramite: ponte tra la creazione e la vendita, tra il laboratorio e la vetrina, tra l’idea e il consumo. La sua presenza coincide con la trasformazione dei negozi in luoghi di esperienza estetica, in cui la merce non si mostra semplicemente per essere acquistata, ma per essere immaginata. Senza di lui, l’abito resterebbe sospeso nell’astrazione del disegno; con lui, invece, prende forma, si misura, si plasma, si racconta. E quando, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, i primi grandi magazzini di Parigi e Londra cominciano a utilizzare vetrine monumentali e scenografie complesse, il manichino diventa protagonista: interprete silenzioso di un nuovo linguaggio visivo che mescola arte, commercio e sogno. 

Il manichino: tra tensione commerciale e museale 

Il manichino vive oggi una doppia dimensione, commerciale e museale. In entrambi i casi il suo compito resta quello di dare corpo all’assenza, ma cambia la grammatica dello sguardo: nella vetrina invita al desiderio e al possesso, nel museo diventa mediatore tra passato e presente. Come nota Valerie Steele, “la moda è nel processo di essere reimmaginata come arte” e il manichino si fa ponte tra sartoria ed estetica. Tuttavia, gli abiti nati per corpi vivi perdono vitalità su figure rigide, problema già discusso nel 1932 dal Metropolitan Museum. Ogni mostra diventa così un esperimento di anatomia e illusione per restituire vita al corpo assente. I musei hanno reagito in modi diversi — ologrammi, piattaforme girevoli, video immersivi, effetti di vento — e in luoghi come il Fashion Museum di Bath i manichini evocano gesti e quotidianità. L’osservatore prova spesso un sentimento ambiguo tra attrazione e inquietudine, effetto perturbante del corpo inanimato. Nel negozio, invece, il manichino resta protagonista del teatro del consumo: da Herno, Rick Owens o Maison Margiela diventa parte del racconto visivo del brand. Simbolo storico di questa storia è Stockman, l’atelier parigino che produce busti per le grandi maison. Con la loro neutralità e forma standardizzata, i manichini Stockman incarnano l’ideale mutevole del corpo femminile e la tensione tra tecnica e desiderio. 

Presente e futuro del manichino nella moda 

Nel XXI Secolo il manichino entra in metamorfosi: riflette nuove istanze di inclusione, genere e diversità. Le vetrine mostrano corpi differenti, ma permane la tensione tra autenticità e strategia commerciale. Oggi il manichino diventa un dispositivo discorsivo, espressione dell’identità del brand: i corpi estremi di Balenciaga o Loewe contrastano con le forme neutre di The Row o COS, trasformando ogni morfologia in dichiarazione estetica e ideologica. Anche il museo di moda evolve, trasformando il manichino in mediatore emotivo e attoriale tra abito e pubblico. Le vetrine, arricchite da LED e ologrammi, restano spazi dove la presenza fisica del manichino è insostituibile per creare connessione e teatralità. Nell’era del post-umano, il manichino riflette la trasformazione del corpo: ibrido, digitale, fluido. Gli avatar dei fashion show ne sono gli eredi, proiettando un corpo possibile più che ideale. L’e-commerce, con camerini virtuali e manichini digitali personalizzati (come sperimenta Zalando), apre a un futuro di individualizzazione e autenticità. Forse, in questo equilibrio tra realtà e simulazione, il manichino tornerà a rappresentare non un canone imposto, ma la misura personale di chi lo osserva — continuando, come sempre, a dare forma al desiderio di incarnare un’idea di sé. 

Marta Melini 

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Marta Melini

Marta Melini

Nata e cresciuta in provincia di Bologna, ma da sempre in viaggio per l’Italia. Dopo gli studi in Design e Ingegneria Industriale al Politecnico di Valencia, è tornata in Italia dove ha conseguito prima la laurea magistrale in Fashion Studies…

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