
La moda è sempre più in crisi dal 2022, anno che ha dettato il rallentamento degli incassi post Covid. A ciò si aggiunge un’informazione più recente, ossia l’aprile nero per i consumi di abbigliamento e accessori in Italia che ha segnato un drastico calo del 9,3%. Lo ribadiscono i dati dell’osservatorio Confimprese-Jakala: ”Aumentano le incertezze sul futuro, i consumatori stringono il cordone della borsa e si orientano su tempo libero e svaghi a discapito dell’acquisto dei beni durevoli”.
La crisi della moda nel 2025
Uno scenario non roseo, che conferma nazionalmente ciò che sta accadendo internazionalmente. Sia LVMH sia Kering, i più importanti gruppi del lusso mondiali, hanno rispettivamente registrato una flessione del 2% e del 14% nel primo trimestre del 2025. Per non parlare del Made in Italy, che nell’ultimo anno ha visto chiudere centinaia di imprese nei maggiori centri di produzione, complici gli scenari globali che incidono sulle relazioni col mercato e il dimagrimento dei conti del lusso, quindi dei tagli sulla produzione già di per sé critica.
Come sta cambiando la moda nel 2025
La moda, però, vuole provare a cambiare. Camera Nazionale della Moda Italiana e Zalando hanno riunito a Milano, per la terza volta, alcuni dei massimi esponenti del fashion system per chiedersi come cambierà il settore. “Viviamo in un periodo in cui i consumatori stanno risparmiando. La loro fiducia è ai minimi storici. E di certo, i recenti eventi dell’amministrazione statunitense non hanno giovato alla fiducia dei consumatori”, ha detto Claudia d’Arpizio, Global Head Fashion Luxury della società di consulenza strategica Bain & Company, come riporta Vogue Italia.
Soluzione? Carlo Capasa, presidente di CNMI, ha esortato durante il primo Fashion Talk di Style Magazine a Milano a “tornare a mettere il marketing a servizio della creatività e non viceversa”. Il discorso così torna ad una dimensione creativa, artistica piuttosto che economico-finanziaria. Infatti, sono in molti a credere che i problemi della moda siano iniziati quando i marchi sono diventati business a tutti gli effetti, non più produttori indipendenti di sogni. Eppure, di questi non si vive né è possibile crearci un’azienda quotata in borsa, come tanti dei luxury brand odierni.
La crisi creativa del menswear
Ciò non toglie che la crisi della moda si percepisca proprio a partire dal menswear. Non parliamo di conti o denaro, perché l’abbigliamento maschile italiano ha registrato lo scorso anno una crescita dell’export pari al 0,6% e un calo dell’import che si aggira intorno al 7%. E l’attivo commerciale era comunque previsto in miglioramento, con un surplus complessivo da oltre 3,6 miliardi nel 2024 (contro i quasi +3,2 miliardi del 2023).
Rallenta la moda Uomo Made in Italy ma resiste, perlomeno dal fronte degli incassi. Perché creativamente è in una crisi nera. Vero che i confini sono stati abbattuti e che la creatività ha portato nuove interpretazioni del concetto di “maschile”, sempre meno diverso dal “femminile”, ma negli ultimi mesi la sartorialità ha sovrastato tutto il resto. Il ritorno ai completi giacca e pantaloni formali non lascia molto spazio alla sperimentazione e, piuttosto, questo rende evidente il bisogno di massimizzare le vendite. Come? Con prodotti “sicuri” che sembrano tutti uguali nel momento in cui la strategia diventa comune. E alle porte del mese dedicato al menswear, tra Pitti Uomo (17-20 giugno) e Milano Fashion Week (20-24 giugno), viene spontaneo chiedersi se il trend attuale cambierà o tutto resterà invariato.
Giulio Solfrizzi
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