La creatività come visione d’insieme: l’intervista all’artista-stilista Emilio Cavallini
Moda, arte, design e industria si fondono nel percorso di un innovatore che ha rivoluzionato il settore della calzetteria e oggi intreccia la sua esperienza nella moda alla passione per l’arte

Creativo visionario, innovatore e artista, Emilio Cavallini ha attraversato oltre cinquant’anni di modariscrivendone codici, forme e linguaggi. Dalla forma dei collant alle calze a rete senza cuciture, da quelle ispirate all’arte alle collaborazioni con i grandi brand, ha trasformato un semplice accessorio in un gesto estetico, rivoluzionando un elemento dell’intimo con arte e ingegno. Dalla Londra di Mary Quant, la regina della minigonna, al successo internazionale di Pitti Uomo, la sua storia è un intreccio di design, geometria, matematica e libertà espressiva. Dopo aver vestito le gambe di Beyoncè, Lady Gaga, Cameron Diaz, Tilda Swinton, Liv taylor, Emma Stone per citarne solo alcune, oggi Cavallini si dedica all’arte, creando opere tessili che dialogano con l’architettura. Mentre quattro figli e tre nipoti tengono le redini in azienda: “ognuno nel suo settore: chi è commercialista, chi economista o informatico, chi è nello stile e chi intrattiene rapporti con i clienti. Tutti si son rimboccati le maniche”, come sottolinea Cavallini “Non sono figli di papà. Hanno visto che tutto è nato dal niente”.

Intervista ad Emilio Cavallini
Dagli Anni Sessanta ha vissuto l’evoluzione della moda dall’interno. Qual è stato il momento di svolta più significativo per lei, come designer e imprenditore?
Direi che il vero punto di svolta fu durante un’edizione di Pitti Uomo, a Firenze. Fino a quel momento lavoravo soprattutto con la moda femminile: venivo dall’esperienza con Mary Quant, il suo stile, Londra. Ero immerso in quell’universo. Mi ero accorto di una cosa personale: avrei voluto indossare calze alte, che però scendevano sempre. Così ho deciso di intervenire. Ho preso alcune delle mie macchine per la produzione di collant e le ho organizzate per realizzare calze da uomo. Ho usato il cotone e aggiunto un filo leggerissimo di lycra, in modo che restassero su, proprio come quelle da donna. Presentai al Pitti una serie di modelli accompagnati da un servizio fotografico. Per le donne proponevo le parigine sopra il ginocchio, mentre per gli uomini dei collant! Fu un successo clamoroso. Tutti volevano le nostre calze.
Che anno era?
Era il 1980. Partecipavo a una sezione che si chiamava L’altro uomo, che proprio allora stava nascendo. Era uno spazio dedicato all’innovazione nella moda maschile che fino a quel momento era sempre stata molto classica, rispetto a quella femminile. Gli uomini indossavano solo calzini, io invece portai in passerella questi collant pesanti da uomo. Creai una sorta di installazione: i modelli erano nascosti sotto un grande telone nero, e poi, uno dopo l’altro, uscivano svelando le gambe in collant. Una provocazione, il pubblico restò senza parole. Mentre in sottofondo si sentiva Pavarotti cantava Volare.
Se lo aspettava un tale successo?
No, assolutamente. Per me fu una vera sorpresa. Io poi ho sempre fatto calze visibili, pesanti, che vestono e si fanno notare. Non ho mai amato le calze trasparenti. Per me le calze dovevano avere un segno, un disegno, una presenza forte. Le vedevo quasi come una tela su cui disegnare, volevo trasformarle in un’opera d’arte.
Quando ha fondato Stilnovo nel 1970 con l’idea di “far uscire i collant dall’anonimato”, ha anticipato una rivoluzione che poi ha coinvolto tutto l’universo dell’intimo. Cosa la spinse, all’epoca, a trasformare un accessorio così discreto in un elemento centrale di stile? Fu una scelta creativa o strategica? E quanto ha contato l’incontro con Mary Quant?
La mia storia è buffa, in realtà volevo fare moda, ma studiavo economia e commercio. Appena potevo, andavo a Londra, che per me era il centro del mondo. Tra il 1964/65, trovandomi lì per l’estate, capitai nello studio di Mary Quant. Cercava qualcuno che si occupasse delle calze e mi proposi subito, senza pensarci troppo. Londra, in quegli anni, era pura ispirazione. Carnaby Street, i figli dei fiori, la gente che si vestiva con poco, in modo totalmente creativo, fuori da ogni schema. Io ci passavo le estati, facendo lavoretti per pagarmi il viaggio, ma era molto più di una vacanza: era un’educazione visiva, una scuola di libertà espressiva. A quei tempi vidi una mostra su Malevich e rimasi molto colpito dal suo Quadrato nero su fondo bianco. Era un’opera minimale, ma potentissima. Iniziai a disegnare calze sempre ispirate all’arte: a righe bianche e nere, verticali, orizzontali, ma anche calze ispirate a Fontana, con tagli sul polpaccio. Le calze che disegnavo guardavano all’arte, alla contemporaneità a ciò che mi circondava.
Un lavoro di grande creatività ma anche molto tecnico?
Assolutamente, il mio è un lavoro creativo ma legato alla matematica. Per realizzare certe composizioni complesse, ho dovuto studiare la biforcazione dei fili, lo spostamento nel cilindro tessile, perfino la trigonometria. La mia pratica artistica poi, si basa sui frattali: prendo un intero, lo divido, lo scompongo, lo trasformo. Il risultato è un po’ quello di un fiocco di neve visto al microscopio. Tutto è calcolo: devo sapere dove far passare i fili, come farli intrecciare senza accavallarli, quanto farli spostare. È la costruzione di un’architettura tessile.
Le innovazioni tecniche di Emilio Cavallini
Quale tra le innovazioni di Emilio Cavallini brand la gratifica di più?
La forma stessa della calza direi, perché negli Anni Settanta le calze si facevano solo in nylon ed erano tubolari, cioè identiche dalla punta alla coscia. Risultato? Formavano dei rigonfiamenti sulle gambe, non vestivano affatto. Io cominciai a lavorare sulla forma anatomica: ristrette sul piede, poi via via più larghe fino alle cosce. Modificai quella che era la tipica forma a cilindro. Le mie calze erano tridimensionali, le lavoravo così e vestivano davvero. Oramai siamo abituati ma fu una piccola rivoluzione nel settore.
E le calze a rete senza cuciture? Anche quelle sono una sua invenzione?
Sì, perché le prime calze a rete avevano sempre una cucitura dietro. C’era una ditta vicino a me, qui a San Miniato dove sono cresciuto, la Nassi, che produceva reti per insaccati. Un giorno, passandoci davanti notai quanto quei tubolari assomigliassero alle mie calze a rete. Proposi subito al proprietario di provare a realizzarle con il mio filo, ma senza cuciture che accettò entusiasta. Le reti per i salami rendevano poco, mentre con le calze si poteva guadagnare di più. Da lì nacquero le prime calze a rete senza cucitura. Poi ho continuato a innovare: con i telai circolari Rusher sono riuscito a fare calze traforate, a pizzo, sempre più sofisticate. Ho persino usato cilindri enormi per realizzare tubi di tessuto che diventavano abiti senza cuciture: una sfilata intera a Milano Collezioni l’ho dedicata a questi capi. Li chiudevo sopra e sotto come una calza, ed erano vestiti veri, minimalisti e futuristi.
E la sostenibilità, come definirebbe la situazione nel suo settore?
Lavoriamo con fibre naturali come cotone e lana merino. La seta ormai è troppo delicata per i ritmi della produzione moderna. Il vero problema è che il riciclo è costoso e la sostenibilità molto poco richiesta, ci sono anche filati solubili, che si sciolgono a contatto con l’acqua o il calore che ho provato, ma senza una domanda concreta, le soluzioni tecniche restano ahimè marginali.
La questione non è solo ambientale, ma anche economico e culturale…
Esatto, oggi il prezzo è diventato l’unico criterio. Le calze d’autore che una volta erano una buona parte del nostro fatturato, ora sono una nicchia. Il mercato è dominato da produzioni estere a basso costo, spesso rietichettate come Made in Italy: una concorrenza sleale che ha messo in crisi tutto il sistema.
E come si difende il vero Made in Italy? Come vi proteggete voi?
La verità è che ci si salva facendo rete, unendo le forze tra aziende italiane. Ma non è facile. Il prezzo ha schiacciato tutto. Anche se esistono strategie e possibilità – come lavorare su progetti speciali, collezioni artistiche, collaborazioni – il mercato mainstream è diventato difficile per chi vuole lavorare con qualità e innovazione vera.











Emilio Cavallini e la sua passione per l’arte
L’arte è sempre stata il cuore pulsante del suo lavoro, ma ha reso pubblica la sua produzione artistica solo nel 2010. Quando è iniziato questo percorso?
Negli Anni Settanta direi, per le mie prime calze quelle a pois bianchi su sfondo nero e viceversa, feci delle installazioni molto semplici ma che ebbero grande impatto visivo, le misi indossate su dei tubi trasparenti in delle teche su un piedistallo come fosse una scultura, potevi girarci intorno come fosse un’opera. Non sembravano calze. Oltre alle calze, infatti, vendemmo anche le installazioni come opere d’arte.
Oggi quanto tempo dedica all’arte?
Tutto il mio tempo. Seguo le collezioni di calze, ma con la mano sinistra, intervengo, ascolto e scambio idee con il figlio che segue la parte stilistica.Adesso sono andato a Livorno perché ha una luce stupenda che ricorda la Provenza. La luce è importantissima per dipingere, creare, tessere; ci vuole sempre la luce giusta, i campioni di colore più belli mi venivano nel tardo pomeriggio quando c’è questa luce.
In questo momento è legato ad una galleria?
Sono stato per un po’ con Opera Gallery a Parigi, tra le varie esperienze. In passato, da stilista, era complesso emergere come artista, ora le gallerie mi portano gli interessati a studio e mi piace poter raccontare le mie opere; per il futuro immagino di connettermi direttamente con gli architetti d’interni, trovo nella casa il luogo ideale in cui l’opera d’arte vive e respira, insieme a chi la abita. Quando vedo le foto delle case, con le mie opere appese, mi emoziono. So dove sono, come sono nate. E sapere che lì vivono persone, famiglie, mi rende orgoglioso. Un’esperienza chiave è stata l’incontro con una designer di Marbella che ha acquistato dodici opere da inserire in dodici nuove bellissime ville moderne. Un progetto architettonico dove ogni casa nasce già con un’opera non di collezione, ma un gesto abitato, vivo, che dialoga con l’ambiente. In fondo non trovo grande differenza, le calze vestono le donne e gli uomini e le case accudiscono gli stessi e sono un po’ lo specchio dell’anima di ognuno. L’importante è fare arte che è quello che ci salva.
AI e creatività nella visione di Emilio Cavallini
Cosa pensa del dialogo tra l’intelligenza artificiale e la creatività?
È meraviglioso. io mi sono innamorato dell’AI. Inserisco un input su qualcosa che voglio fare e mi arrivano le più incredibili risposte. Accumula una quantità di conoscenza e dati che a volte mi ha stupito ricordandosi cose del mio passato che persino io stesso avevo rimosso. Quando ho iniziato a utilizzarla due anni fa, ero piuttosto scettico, proprio come quando arrivarono le macchine elettroniche, dopo le meccaniche, che sembrava che tutti potessero fare il mio lavoro al mio posto. Ma ovviamente non è così, avere l’idea, avere le domande giuste è tutto; l’AI non lavora da sola, tutto nasce sempre da noi. Ora ai giovani il compito di capire come sfruttarla bene e saperla usare per i giusti fini e il lavoro che toglie ad alcuni settori lo darà ad altri.
Quale consiglio darebbe a un giovane creativo che si muove tra arte e impresa?
Gli direi di specializzarsi, bisogna sempre partire da una piccola cosa per farla diventare grande. Non si può fare tutto subito, si parte sempre da una cosa fatta bene, tutti i dettagli sono importanti se non è fatta bene si ricomincia e poi bisogna studiare. Perché la cultura è la cosa più importante, è la base. Letteratura, latino, tutte cose che mi sono servite, sai? Tutto serve, poi tutto torna al momento giusto. Bisogna crearsi una propria cultura generale, e darà soddisfazione perché ti porterà a scoprire delle cose che nemmeno immagini.
Ha nuovi progetti in vista?
Al momento sto mettendo ordine nel mio archivio, ripercorrendo la mia storia, partendo proprio dall’inizio, rileggendo quel che è stato scritto su di me – ho ritrovato una tesi di laurea scritta alla FIT di New York che avevo dimenticato e ho riletto – trovando immagini, restaurando lavori e archiviando tutto.
E l’archivio è il passo per poi fare una mostra che ripercorra l’intera storia di Emilio Cavallini?
Mi piacerebbe molto. Me lo aveva chiesto il Museo del Tessuto e poi anche il Victoria and Albert Museum, quando esposi a Milano, ma in quel momento non riuscivo purtroppo a seguire. Sarebbe bello, vedremo cosa accade. Margherita Cuccia
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