
Lab27 è uno spazio a Treviso dedicato alla fotografia in tutte le sue forme, e fino all’1 giugno ospita la mostra “Fotografia è moda”, per esplorare come la moda sia diventata un linguaggio visivo globale. In questo contesto, la fotografia diventa “abito” dell’individuo, mettendo in evidenza la natura effimera e mutevole della fotografia di moda, che si muove tra riproducibilità e consumo rapido, emozione e obsolescenza, proprio come la moda stessa con le sue stagioni e tendenze e il suo consumo “fast”. La sovrapproduzione di immagini, favorita da internet e social media, sta cambiando profondamente il modo in cui la moda viene fotografata, consumata e interpretata, spingendo a riflettere in modo critico sul valore e sulla transitorietà delle immagini in un mondo sempre in movimento.







La mostra “Fotografia è moda” a Treviso
La mostra espone i lavori di memymom, duo belga formato da madre e figlia, Marilène Coolens e Lisa De Boeck, che dal 2004 lavorano su progetti fotografici che trasformano la propria casa in un set teatrale, esplorando il rapporto tra creatività, relazione e identità. Presenti anche i lavori di Alexandre Furcolin Filho, artista brasiliano che propone una fotografia di moda spontanea e realistica, lontana dagli eccessi digitali e commerciali, mettendo al centro la quotidianità e l’empatia. Infine, Ali Ghorbani Moghaddam, la cui fotografia sperimentale mette in discussione i canoni estetici della moda.

Intervista a Steve Bisson, curatore di Lab27
Abbiamo intervistato il curatore della mostra, Steve Bisson, docente presso Paris College of Art presso MA/MFA in Photography and Image-making. A Parigi è co-fondatore del programma internazionale Blurring the Lines che sostiene il dialogo intra-accademico e premia lavori di tesi su fotografia e arti visive. Da oltre 10 anni si occupa di direzione artistica e curatele, collaborando con festival, musei, gallerie, fondazioni e spazi indipendenti in tutto il mondo. Più recentemente ha avviato la casa editrice Penisola Edizioni per ricercare e divulgare l’autorialità italiana e dal 2019 è direttore artistico del Ragusa Foto Festival.
Come è nata l’idea di mettere in dialogo i lavori di questi fotografi?
Lab27 si occupa di esplorare le possibili direzioni del vedere con un’attenzione decisa verso i risvolti del sociale e i mutamenti nella collettività. Nella recente mostra abbiamo scelto di occuparci della fotografia, o meglio dell’immagine, quando è moda. Di fatto lo è poiché oggi indossiamo le immagini, sono diventate il nostro guardaroba. Ci vestiamo di immagini, sono il nostro indumento. La ragioni di questo è da rintracciare prevalentemente nei mutamenti tecnologici e dunque sociologici a cui abbiamo assistito nel nuovo Millennio con una spirale crescente dalla crisi finanziaria del 2008 e l’avvento del cloud capitalism come etichettato dagli economisti. Per farla brevesiamo passati rapidamente da essere possessori di immagini a essere posseduti dalle immagini. L’individuo passa dal fare immagine all’essere immagine. Non è un caso se parliamo di “fashion victim”, e potremmo forse estendere il concetto a una nuova categoria: la “socials victim”.
In che modo la mostra riflette sulle trasformazioni della fotografia di moda nell’era della sovrapproduzione di immagini e della digitalizzazione?
L’ascesa della produzione di immagini, un fenomeno talmente quantitativo da divenire paesaggio, ambiente digitale che condiziona le scelte degli individui, va di pari passo con il bisogno di apparire, ed ecco perché “fotografia è moda”. L’individuo è al servizio (o a servitù a seconda dei punti di vista) della rete e usa la propria immagine come lasciapassare, profilo, e quant’altro; dunque l’individuo è ridotto a icona. Se con il capitalismo industriale abbiamo capito come il tempo fosse ridotto a merce, ora in questo neo tecno-feudalesimo, in cui pochi latifondisti della rete detengono l’accesso all’intrattenimento digitale, è la nostra stessa immagine a diventarlo. A questa deriva l’arte risponde.

La fotografia di moda nell’era della sovraesposizione
Come?
La mostra presenta tre direzioni. Il fotografo brasiliano Alexandre Furcolin Filho ci mostra come la fotografia può stimolare una forte empatia con i soggetti, mettendo in luce tratti della personalità o le emozioni dei modelli, rendendoli più umani, familiari e vicini a chi osserva, lontano dalle astrazioni da passerelle. Il persiano Ali Ghorbani Moghaddam interroga visivamente il rapporto tecnologico tra fotografia e moda, sperimentando con una vasta gamma di incursioni e contaminazioni analogiche e digitali, distaccandosi dalla perfezione, manifestando l’errore, la frattura, il glitch, la natura “photoshoppata” di ciò che percepiamo, l’artificiale che appare organico, il caos dei significati. Il lavoro di memymom (Lisa De Boeck e Marilène Coolens) evidenzia il gioco dei ruoli della produzione di immagini contemporanea.
Quali ritiene siano le sfide principali nel mantenere un senso di autenticità e significato nella fotografia di moda in un panorama visivo così saturo e “usa e getta”, tipico dei social media?
La moda è un osservatorio interessante a mio avviso, o meglio la fenomenologia della moda. Quale direttore del dipartimento di fotografia al Paris College of Art mi occupo anche di percorsi formativi nell’immagine per il settore moda. Rispetto a non molto tempo fa assistiamo ad una crescente diversità di posture e di approcci. C’è una vivacità insomma che rende il palcoscenico degno di osservazione. L’usa-e-getta tipico del consumismo, l’obsolescenza come motto generale di società sempre più avvitate sui grattacieli anonimi delle cabine finanziarie, e del loro infantilismo speculativo, ha attaccato ovviamente anche la produzione di immagini nelle ragnatele digitali la cui durata è quella di uno scroll del dito. La moda per definizione è temporanea, stagionale come si dice. Nessuno presenta la collezione dell’anno precedente in passerella o negli scaffali. Bisogna vendere.
C’è speranza?
Si intravedono spiragli di luce farsi largo nel modo di fare moda, di intenderla, di raccontarla. Il fotografo non può risolvere le gravi questioni che pendono sul pianeta ma può portare con le sue immagini dei messaggi contro l’indifferenza, l’ineguaglianza. Se stiamo capendo che oggi vestiamo immagini e che la fotografia è moda, certo sappiamo vero il contrario che la moda è immagine. Quali immagini allora? Qui serve una maggiore etica dello sguardo, dove occorre reimparare a vedere. I social media hanno mostrato lo stato di miopia, deficienza e analfabetismo scopico, dove l’autenticità da sola non basta, è necessario avere maggiore responsabilità e aziende consapevoli.
Lara Gastaldi
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