Show pieces. Ovvero quando l’abito non è fatto per essere indossato

Un viaggio tra i capolavori sartoriali nati per stupire e non per essere venduti, liberi dal mercato e più vicini all’arte. Sono i cosiddetti show pieces

Spettacolari, fantasiosi, a tratti surreali: gli show pieces sono autentiche opere d’arte che calcano le passerelle delle fashion week più prestigiose giusto il tempo di incantare la platea e lasciare il segno. Non li troveremo mai nelle boutique né nei grandi store multimarca, perché nascono con un intento che trascende la pura commercializzazione. Dietro la loro esistenza si intrecciano scelte strategiche, esigenze narrative e logiche di branding che raccontano molto di come funziona davvero il sistema moda. 

I pezzi unici della moda griffata 

Eccoli lì. Tra la moltitudine di abiti e accessori che sfilano in passerella a ritmo cadenzato presentandosi come i nuovi passe-partout della vita contemporanea, emergono talvolta creazioni uniche, così audaci e visionarie da lasciare chi le osserva sospeso tra stupore e incredulità. Gabbie dorate e crinoline monumentali, corone lussuose e cappelli a forma di unicorno, abiti-scultura e creazioni visionarie: i pezzi da sfilata non sono pensati per l’uso quotidiano, ma per stupire. Tessuti pregiati e volumi architettonici sono plasmati con minuzia per catturare lo sguardo e raccontare una visione, già immaginata dal designer. E l’effetto finale — al netto delle categorie estetiche convenzionali di “bello” o “brutto” — punta dritto alle emozioni. Che siano contrastanti o meno, scatenano una reazione viscerale, quasi incontrollabile, nell’uomo-spettatore, che è testimone di un momento teatrale irripetibile. 

Gli show pieces di Alexander McQueen  

Le sfilate di Alexander McQueen e John Galliano, tra i nomi più rilevanti dagli anni Novanta e Duemila, si sono sempre distinte come autentiche rappresentazioni istrioniche, capaci di catalizzare l’attenzione mediatica e lasciare un segno indelebile nell’immaginario collettivo. La concentrazione di show pieces era talmente alta da far sembrare l’evento più vicino a una performance teatrale che a una tradizionale sfilata di moda. La Poupée, collezione che McQueen presentò per la Primavera/Estate 1997, si ispirava all’universo perturbante delle bambole erotiche di Hans Bellmer: in passerella, corpi sensuali erano costretti in strutture metalliche che ne limitavano i movimenti, evocando una tensione inquieta tra desiderio e prigionia. Nel 1999, con No. 13, lo stilista britannico chiuse lo show — apparentemente monocromatico — con un’intromissione tecnologica all’epoca impensabile: la modella Shalom Harlow, in un abito bianco senza spalline, ruotava lentamente su una piattaforma mentre due bracci robotici la colpivano con spruzzi di vernice nera e gialla, trasformando il vestito in un’opera d’arte performativa in tempo reale.  

Show Pieces, Alexander McQueen
Show Pieces, Alexander McQueen

Gli show pieces di John Galliano 

Di Galliano, invece, si ricordano soprattutto le ambientazioni spettacolari. I suoi set, a volte, sembravano veri e propri mondi incantati: un treno a vapore proveniente dal sud della Francia, come il celebre “Diorient Express”, o una giostra con mobili ispirati ai Viaggi di Gulliver per “Madame Butterfly”. Gli abiti passavano in secondo piano rispetto alla realtà onirica delle sfilate. Come sottolinea Oriole Cullen, curatrice della sezione moda e tessuti moderni del V&A, nell’introduzione del volume John Galliano for Dior: “Un’immaginazione prorompente e una creatività smisurata abbinate alle abilità tecniche senza precedenti degli atelier della Maison Haute Couture Dior davano vita ad abiti fantasmagorici e a sfilate che surclassavano sistematicamente qualsiasi cosa si fosse vista in passato nel mondo dell’alta moda”. 

Il significato degli show pieces  

In tutti questi casi, gli abiti sono veri e propri pezzi-manifesto, assolvendo una funzione fortemente narrativa. Nessuno vestirebbe come l’Imperatrice Giuseppina o Napoleone nella vita di tutti i giorni, ma ciò che conta è il messaggio che ogni creazione comunica: un disegno che va oltre la comprensione di chi sta a guardare. Ogni lembo di tessuto, ogni sovrapposizione tessile, ogni cucitura decorativa racconta una storia: quella del designer, della sua visione e dell’identità della maison. È come se l’abito figurasse tra le voci strategiche del piano marketing, fungendo da potente strumento comunicativo, capace di raggiungere gli acquirenti e accendere in loro il desiderio di possedere anche solo un piccolo frammento di quel mondo. Non serve, infatti, convincerli a vestirsi in total McQueen o Galliano, Givenchy o Dior: basta accendere in loro il desiderio di appartenere all’universo evocativo del brand, fatto di storytelling sognanti e creazioni sublimi.  

Show Pieces, Chalayan, Afterwords
Show Pieces, Chalayan, Afterwords

Perché gli show pieces non arrivano sugli scaffali dei negozi 

Le maison investono in questi sogni perché intrecciano creatività e visione commerciale in una trama identitaria forte. Dior, Chanel, Balmain, Balenciaga e Louis Vuitton sono solo alcuni dei brand di lusso che ancora possono permettersi l’eccezionale: progetti visionari, unici, irrealizzabili per la maggior parte degli altri. E ci sono diversi motivi per cui alcuni abiti da passerella non vengono messi in produzione. Come accennato, oltre all’elevato costo di produzione, la portabilità gioca un ruolo cruciale. Nessuno si sentirebbe a proprio agio, nemmeno nei gesti più semplici, con un abito dotato di strascico chilometrico o con uno realizzato in legno a forma di panchina.  
Una volta spente le luci dei riflettori, queste creazioni vengono trasformate in capi più indossabili. Pur mantenendo un aspetto simile a quello visto in passerella e utilizzando gli stessi materiali e tecniche, il risultato finale risulta decisamente meno eccentrico e più funzionale. 

Gli show pieces di Schiaparelli by Roseberry 

Lo show piece, in questo caso, rappresenta il capo-zero che incarna l’intera collezione. È una musa, un prototipo, un moodboard che mostra la creatività e la capacità tecnica del direttore creativo, suggerendo l’ispirazione di partenza. Questi abiti attirano l’attenzione mediatica per la loro stravaganza, aumentando la notorietà e il desiderio verso il marchio. Lo sa bene Daniel Roseberry che con la sfilata Couture 2025 di Schiaparelli ha monopolizzato i social con l’abito indossato da Kendall Jenner in un momento memorabile, perché, come lui stesso ha detto, “abbiamo fatto la cosa del ‘rompere Internet’”. Roseberry si è assunto una serie di rischi intellettuali e tecnici: imbottiture invisibili che modellavano i fianchi degli abiti in semi-cupole dall’anatomia impossibile; forme morbide evocavano carrozzerie d’auto o fusoliere d’aereo; pepli 3D ondeggiavano su bustier senza spalline, mentre giacche plissettate sul seno, simili a gabbie toraciche surrealiste — perfettamente in linea con l’eredità di Schiaparelli — terminavano con code arrotondate quasi fossero appendici aerodinamiche progettate per il volo. Queste costruzioni sartoriali, realizzate a mano con tecniche antiche e materiali innovativi come il neoprene e l’Ultrasuede, sono talmente complesse da essere destinate esclusivamente al red carpet, ai musei o agli editoriali di moda. Ed è qui che si svela la sua natura più profonda: la moda non è solo abbigliamento: è immaginazione visiva, racconto, tensione tra arte e business, sogno e realtà.  

Marta Melini 

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Marta Melini

Marta Melini

Nata e cresciuta in provincia di Bologna, ma da sempre in viaggio per l’Italia. Dopo gli studi in Design e Ingegneria Industriale al Politecnico di Valencia, è tornata in Italia dove ha conseguito prima la laurea magistrale in Fashion Studies…

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