Il design e il potere del sabbatico

La pratica dell’anno sabbatico non è più confinata al mondo accademico, ma si è diffusa anche nel campo del design. Con risultati sorprendenti.

Un giorno libero alla settimana, pagato, per poter sviluppare le proprie intuizioni professionali (Google). Qualche mese di distacco, pagato anche questa volta, per un lungo viaggio dedicato a una missione filantropica (Autodesk). O, ancora, un anno libero da agende e riunioni con il cliente, per votarsi con dedizione assoluta ai propri progetti (imprenditori di se stessi). Sembra fantascienza? Se ne faccia una ragione chi è vincolato, suo malgrado, alla schiavitù del cartellino. Al giorno d’oggi, la possibilità di poter disporre di tempo off non è più appannaggio esclusivo di freelance aristocratici o un benefit concesso dalle aziende ai dipendenti insostituibili: piuttosto, è l’ultima, comprovata modalità per sostenere e incrementare la produttività di quanti, e sono tantissimi i settori coinvolti, fanno di una creatività tangibile e non soltanto declamata la spina dorsale della competitività. Identificando in un rischio – l’assenza dal lavoro – un’equazione fruttuosa per il futuro. E trasformando la crescita personale nell’ultima, vera economia in grado di generare profitto sul lungo termine.
Il potere rigenerante del sabbatico, del resto, ha origini remote, se già nella cultura ebraica questo nome veniva utilizzato per riferirsi all’anno di riposo nei campi. A mutuare il termine nella produzione intellettuale, poi, è stato storicamente il mondo accademico, che ha istituzionalizzato la concessione di un anno affrancato­ dall’insegnamento da dedicare alla pubblicazione di un libro sulla propria ricerca.

Ineke Hans

Ineke Hans

PAROLA AL DESIGN

E il design? In questo campo, l’iperproduttività è stata vista da sempre come sinonimo di successo incondizionato, assecondando la formula secondo la quale quantità e qualità sono inevitabilmente sinonimi. Eppure qualcosa inizia a cambiare. Un primo segnale, se così lo vogliamo considerare, ci piace ritrovarlo in un outsider, colui che più di ogni altro ha avvicinato la gastronomia a una forma di progettazione sperimentale. Nel 1987 un giovane chef ancora lontano dall’invenzione della celebre e celebrata cucina molecolare, Ferran Adrià, si fece ispirare da una frase carpita dallo chef Jacques Maximin, “Creativity means not copying”, per decidere di chiudere per cinque mesi l’anno il suo ristorante elBulli (oggi trasformato in eclettica fondazione per la ricerca culinaria) così da dedicarsi alla sperimentazione.
Tornando al design vero e proprio, è uno il nome che, più di ogni altro, ha trasformato il sabbatico in una pratica strutturata e virtuosa, in una necessità non solo ricreativa quanto rigenerativa. Da oltre un paio di decenni, l’austriaco naturalizzato newyorchese Stefan Sagmeister, celebre – tra gli altri – per aver trasformato le copertine dei dischi di Talking Heads e Lou Reed in oggetti di seduzione iconica, chiude per dodici mesi il proprio ufficio sulla Broadway con l’obiettivo di abbandonarsi non solo a un piacevole ozio, ma soprattutto a una sperimentazione libera dai vincoli promozionali imposti dal cliente. In un celebre intervento alla conferenza Ted Global del 2009, Sagmeister racconta di aver deciso, dopo anni di routine e progetti inevitabilmente troppo simili, di “prendere in prestito” gli anni della sua pensione per diluirli come una parentesi tra quelli di lavoro. Memorabile il suo secondo anno di sabbatico, passato quasi interamente a Bali, dove tra caratteri tipografici realizzati con gli zampironi, un’edizione in serie limitata di t-shirt con cani randagi e, soprattutto, la preparazione di una mostra-capolavoro sulla ricerca della felicità che ha fatto il giro del mondo, The Happy Show, ha definitivamente chiarito che la produzione in stile libero sviluppata nel corso di un anno si riversa proficuamente, quasi si trattasse di una rendita, nel ciclo di lavoro successivo.

Stefan Sagmeister

Stefan Sagmeister

RICERCHE CONCETTUALI

Ultimamente è Ineke Hans, designer olandese con collaborazioni tra Cappellini, Cooper Hewitt e Iittala, nonché attiva con il proprio brand INEKEHANS|collection, che ha scelto un lungo periodo di sabbatico per dedicarsi a una ricerca di carattere concettuale. Lasciato il suo storico studio di Arnhem in mano ai suoi collaboratori, nel 2015 è ritornata a Londra, dove aveva studiato al Royal College of Art all’inizio degli Anni Novanta, per aprire Salon, uno studio sui generis votato all’organizzazione a cadenza mensile di incontri dedicati al futuro del settore mobile. Racconta ad Artribune: “Consapevole dell’impatto sul settore mobile dei nuovi metodi di produzione e promozione, nonché del surplus di mobili di una società dove le persone si spostano verso case sempre più piccole, ho aperto Salon per discutere insieme a designer, esperti e intellettuali fuori dagli schemi del futuro del nostro lavoro. Cosa ho imparato? È chiaro che il ruolo del designer sarà sempre più attivo negli anni a venire. La classica situazione che mette insieme designer e cliente spesso non esiste più, né è più così eccitante. Un designer oggi deve iniziare progetti e processi in maniera sempre più autonoma, e il ruolo degli aspetti tangibili sarà sempre più sopravanzato alla necessità di elaborare strategie e comportamenti”.

Giulia Zappa

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35

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Giulia Zappa

Giulia Zappa

Laureata in comunicazione all’Università di Bologna con una tesi in semiotica su Droog Design, si specializza in multimedia content design e design management a Firenze e New York. Da oltre dieci anni lavora come design&communication strategist, occupandosi di progetti a…

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