L’originalità è sopravvalutata. Lo dice l’architetto Cino Zucchi
Empatia, gesti evolutivi e forme che si replicano: questo il pensiero radicale dell’architetto milanese, protagonista di una recente lectio magistralis in occasione del conferimento del Premio Internazionale Architects Meet. Tra teoria memetica, architettura come ritmo e l’immancabile cultura pop
Nel tempo della ricerca ossessiva dell’inedito, Cino Zucchi – tra i protagonisti più coerenti dell’architettura italiana contemporanea, da 30 anni a capo dello studio CZA – propone una riflessione che ribalta la logica su originalità e autorialità: ogni progetto non è creazione pura, bensì gesto evolutivo, sommatoria di immaginari ed esperienze, storie e contesti. “Copiare non è essere mediocri, ma entrare in una catena di gesti visivi e culturali” afferma.
L’architettura di Cino Zucchi: copiare per capire
Copycat. Empatia e invidia come generatori di forma è la conferenza tenuta da Zucchi a Lecce per il XIV meeting organizzato dall’Associazione Italiana di Architettura e Critica, diretta da Luigi Prestinenza Puglisi, e quest’anno dal titolo Re-Frame. Secondo la sua visione, l’architetto non parte mai da zero: piuttosto da un’eredità, da una forma già esistente che trasforma e rielabora – e proprio in questo gesto risiede la creatività. “La nostra epoca è l’insieme di tutte le epoche che conosciamo” scriveva Josef Frank quasi un secolo fa, nel 1931. “La nuova architettura nascerà da tutto il cattivo gusto del nostro tempo, dal suo caos, dalla sua varietà e sentimentalità, da tutto quanto è vivo e sentito: finalmente arte del popolo, non arte per il popolo”.
Copycat, ovvero la genealogia delle forme
È la stessa idea che attraversa ogni progetto di CZA: l’architettura come organismo ibrido, fatto di memoria, rappresentazioni e adattamento. Un concetto già evidente alla 13° Mostra Internazionale di Architettura di Venezia del 2012 (curata da Chipperfield, dal titolo Common Ground) in cui l’installazione di Zucchi Copycat. Empathy and Envy as Form Makers raccontava un piccolo universo di oggetti: mattarelli del Rajasthan, modelli di sottomarini, facciate milanesi del dopoguerra, edifici-souvenir. Un catalogo di mutazioni, insomma. Le idee, del resto, come i geni, si riproducono, evolvono, si contaminano senza seguire un percorso necessariamente lineare. La cultura stessa è un organismo vivente fatto di repliche, fallimenti e metamorfosi. E l’architettura non sfugge a questa legge: l’architettura, infatti, sopravvive solo se sa trasformarsi. Copiare, dunque, non è demerito ma passaggio necessario. Non è rubare ma nutrirsi: un gesto che riconosce radici, le rimaneggia e le mette in circolo. Non plagio, ma atto consapevole: riconoscere, cioè, che ogni forma ha un antefatto. “Ciò che non assomiglia a niente non esiste”, citando Paul Valéry o “Oggi un originale è uno che copia per primo” attingendo invece a Karl Kraus.

Il concetto di copia nelle architetture di Cino Zucchi
E Zucchi lo dimostra nei suoi lavori, dove la copia diventa atto empatico, mai parassitario. Come nel progetto di rigenerazione per l’area ex-Junghans alla Giudecca (1996-2002) – per il quale è divenuto un nome conosciuto, in particolare grazie all’edificio D, poi copiatissimo – in cui il tema dell’innesto e della contaminazione tra memoria e nuove funzioni è centrale. Dove ha dimostrato come sia possibile restituire alla città un edificio industriale dismesso mantenendo inalterati i suoi caratteri peculiari (come la ciminiera in mattoni) ma apportando variazioni coerenti, all’uso e al contesto. Dove, cioè, la Venezia storica diventa il terreno fertile per una genealogia di forme: intonaci grigi, cornici bianche, bucature geometriche e irregolari, proporzioni che citano (o copiano?) Gabetti e Isola nel Municipio a Bagnolo Piemonte, (1975-82) e il razionalismo lombardo.
Dare ritmo alle facciate: la teoria dello sfalsino
“L’architetto contemporaneo è un DJ”, dice Zucchi. Non un demiurgo isolato, ma un montatore di frammenti, un manipolatore di segni. Come un DJ, sceglie, mixa, riascolta: nel suo caso, dalle citazioni di Moneo, Ponti, Portaluppi e Caccia Dominioni (maestro e amico) ai pattern della textile designer finlandese Johanna Gullichsen fino agli studi urbani di A city is not a tree, il saggio pubblicato nel 1965 da Christopher Alexander. Il risultato è un’architettura che non teme la somiglianza, ma la abita consapevolmente, fatta di frammentazione, ritmo, facciate come tappeti. Per Zucchi, che articola la pelle dell’edificio in termini di modulo, la facciata è un sistema di relazione, compositivo, tecnico e simbolico: ciascuna apertura, ciascuna banda, opaca o trasparente, viene infatti pensata in funzione del contesto, della luce, della funzione interna, e della città che la riceve. La facciata per Cino Zucchi è un luogo di mediazione, tra modulo e variazione, tra contesto e innovazione, tra materiale e figura urbana. Non un semplice “vestito” per l’edificio, ma un elemento attivo nel sistema architettonico, capace di costruire ritmi, profondità, connessioni, identità. Il pattern delle facciate – quel motivo grafico ricorrente nella produzione dello studio, da lui stesso soprannominato “sfalsino” (capostipite fu il Municipio a Murcia di Rafael Moneo) – diviene così un micro-paesaggio architettonico in cui la griglia viene interrogata, articolata, senza tradire la propria leggibilità. Anzi. Del resto, aggiunge: “Il nostro mestiere è dare sfondo alla vita”.
L’architettura di CZA: quattro esempi di progetti come variazioni
CZA lavora sul confine sottile tra continuità e innovazione, proponendo un’architettura che, seppur riconoscibile, non cerca di imporsi come puro segno, ma di innestarsi con intelligenza nel contesto. A prescindere dalla scala, dalla destinazione d’uso e dalla sua dimensione. Lo studio, infatti, ha progettato e realizzato in Italia e all’estero numerosi edifici commerciali, pubblici, industriali e residenziali, masterplan per aree agricole, industriali e storiche; ha partecipato a concorsi nazionali e internazionali ed è attivo nel campo dell’interior design e dell’exhibition design.
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Rigenerazione urbana a Torino: il Lavazza Campus
Il Lavazza Campus a Torino (2010–2018) – intervento che fonde rigenerazione urbana, corporate identity e paesaggio industriale – è forse l’emblema di questa attitudine. Qui, il nuovo quartier generale dell’azienda si struttura come un microcosmo urbano, un sistema aperto che connette l’antico con il contemporaneo, dialogando con la città intorno. Non si tratta solo di un headquarter, ma di un luogo di relazione, dove l’architettura costruisce spazi di prossimità e incontro. Nel Campus Lavazza, l’ex area industriale – un’ex centrale elettrica Enel – viene trasformata in un organismo urbano poroso, dove i volumi comunicano con il tessuto come specie adattive e dove le altezze e la qualità delle facciate sono state studiate attentamente in relazione alle strutture circostanti, agli spazi aperti e all’esposizione solare. Il risultato è un progetto che allude all’architettura storica di Torino ma adotta un approccio attento alla sostenibilità e al rispetto dell’ambiente: l’edificio per uffici, ad esempio, che si relaziona alla città attraverso l’ampio atrio vetrato che si affaccia su Via Bologna e sulla nuova piazza, ha ottenuto la certificazione LEED Platinum. Il piano terra, che ospita attività caratterizzate da uno stretto rapporto con il pubblico, si sviluppa sulla serie di giardini tematici della Piazza, che creano un filtro verde tra l’edificio e la città. Mentre lo spazio vuoto tra gli edifici regala alla città un insolito accesso alle rive del fiume Dora.
Abitare a Milano: il masterplan di Cascina Merlata
Per il masterplan del nuovo quartiere di edilizia popolare di Cascina Merlata (2011-2021), a Milano, CZA ha invece proposto un intervento residenziale denso di grandi volumi alternati a giardini comuni, con due torri residenziali e spazi aperti che interpretano lo schema del masterplan e ne rafforzano il carattere urbano, diventando un landmark. Due edifici che si estendono verso l’alto, riducendo le loro dimensioni ai piani superiori in un profilo a gradini che genera una sorta di “canyon” tra i due fabbricati, uno scarto che crea un importante asse visivo e un dialogo tra i corpi costruiti e gli spazi verdi. Anche qui le facciate sono ritmate da un sistema in cui i pilastri triangolari – di colore chiaro in contrasto con le rientranze scure – generano un motivo verticale che include tutte le finestre, mentre i balconi sono raggruppati in grandi figure contraddistinte da parapetti in vetro che creano un forte tema orizzontale. Sul lato sud, un portico di collegamento rosso, alto e slanciato crea un profilo frastagliato che interagisce con lo spazio aperto comune e consente una distribuzione uniforme dei due edifici, contribuendo alla percezione dell’ambiente come protetto, domestico.
L’edificio per uffici L’Ark in Francia
Il nuovo edificio per uffici L’Ark, nel quartiere Belvédère, a Bordeaux (2017-2023) è un progetto in grado di evocare elementi dell’architettura francese senza alcuno spirito nostalgico, anzi, adottando un approccio contemporaneo. Come nel gioco per la soluzione d’angolo, con il pilastro colonna arretrato e asimmetrico che segna l’ingresso. O nel modo in cui l’ampia massa dell’edificio si articola, ripiegando il perimetro verso l’interno con il risultato che i lati minori del parallelepipedo – rivolti verso il Boulevard e il parco retrostante – si piegano a loro volta in due morbide curve concave. La pelle perimetrale continua è suddivisa in strati che conferiscono un forte effetto chiaroscurale: la parete interna alterna una fascia di finestre a nastro a una fascia opaca rivestita da elementi frangisole in alluminio anodizzato che reagiscono alle condizioni atmosferiche. Le colonne delle facciate, di spessore e ritmo variabili, sono disposte in sette ordini scanditi a intervalli irregolari da cornici marcapiano. La loro forma, accentuata dal leggero sottosquadro delle fasce, genera uno schermo che conferisce, al contempo, volume e profondità alle facciate. L’ordine superiore collega gli ultimi due livelli, aprendo una rientranza che ospita una terrazza-giardino.
L’installazione temporanea in Augmented Architecture
Emblematico infine, seppur molto diverso, l’esempio di Augmented Architecture, l’installazione, realizzata da Cino Zucchi insieme alla figlia Chiara per MAPEI al FuoriSalone 2021, costituita da un elemento tanto semplice quanto figurativamente efficace: una grande “maschera” in resina che riproduce la parte superiore del portale nel seicentesco cortile Richini dell’ex Ospedale Maggiore di Milano, ingrandito sei volte lungo l’asse orizzontale. Copia? No, illusione ottica (la stretchatura si percepisce solo in prossimità dell’installazione, non da lontano) che, amplificando i dettagli delle modanature e delle sculture barocche attraverso la loro significativa deformazione, omaggia i caratteri specifici di quel luogo ricercando un’intersezione temporanea tra storia e realtà attuale. A ispirare concettualmente quest’operazione – che mette insieme architettura, tecnologia e coup de théâtre – il coro con finta prospettiva di Donato Bramante, realizzato per la chiesa di San Satiro.
Giulia Mura
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