Architettura: quale futuro? Crollo del mito delle archistar e nuove sfide per i progettisti

L’architettura per non farsi strumento di un potere sempre più autocratico dovrà trovare un ruolo al tempo stesso vecchio e nuovo

Un linguaggio (ma anche una disciplina) vale soltanto quello che è in grado di rilevare e articolare in un tempo e un contesto dato. Tutto ciò che è al di fuori della sua portata rimane misterioso, nascosto, impossibile da cogliere. È per questo semplice motivo che in tempi di cambiamenti radicali è indispensabile saper trovare il linguaggio e gli strumenti giusti per interpretare il presente, per captare quegli elementi sui quali potremo edificare il futuro, senza necessariamente aggiungere alcunché di superfluo al mondo. 

Idee vecchie e nuove per affrontare il futuro in architettura

Forse soltanto ora e in grande ritardo noi tutti ci stiamo rendendo conto del peso eccessivo di un bagaglio culturale (non si tratta di heritage, ma soltanto di idee invecchiate) che ci trasciniamo dietro, non più adeguate ad affrontare le sfide di oggi. Per esempio, cosa sono e cosa dovranno essere in futuro le professioni, penso a quella dell’architetto, dell’ingegnere, dell’urbanista, del designer e quali saranno i suoi tools ossia strumenti (una volta si parlava soprattutto di ‘tecniche’)?  Non solo, ma in futuro i Big Datal’Intelligenza Artificiale e i modelli previsionali che incrociano dati e campi di ricerca, potranno fornire una base per la progettazione dello spazio pubblico, per la mobilità, per rilevare i percorsi cittadini e tanto altro, ma potranno determinare la qualità di quello spazio pubblico o di un’architettura, fare scelte controcorrente, inferenziali, essere, in sintesi, “creativi”? 

La questione sociale e i diritti umani

Per entrare nel concreto, sappiamo che secondo le Nazioni Unite, 1.1 miliardi di persone vivono in estrema povertà e quasi la metà di queste vivono in zone di conflitto. I profughi in fuga da persecuzioni, violenze, violazioni dei diritti umani sono circa 125 milioni. In un mondo in cui si incamerano dati di ogni tipo riguardo i cittadini in quanto consumatori attraverso i nostri smartphone, o i sistemi di videosorveglianza,  forse sarebbe tempo di utilizzare gli stessi device non soltanto per farsi carpire dati personali, ma per avere una maggiore consapevolezza del mondo così com’è, come noi lo viviamo nei nostri movimenti e attività quotidiane con delle finalità che possano servire non soltanto per la sicurezza ma per mitigare gli impatti, riparare danni, anticipare sviluppi e prevenire le peggiori calamità del presente/futuro?
Si tratterebbe di un utilizzo innovativo per comprendere meglio – come disse una volta Okwui Enwezor, il compianto curatore nigeriano – “cosa significa sopravvivere a Kinshasa”;  oppure sapere qualcosa di più su quel 20% della popolazione di Città del Messico (5 milioni di persone) che è fluttuante, senza fissa dimora; in breve capire che cosa sarà sostenibile in futuro secondo le proiezioni dell’OCSE e tanti altri think tank internazionali che l’attuale presidenza oscurantista degli Stati Uniti vorrebbe abolire come enti inutili. 

Renzo Piano Building Workshop in collaboration with Narud-Stokke-Wiig, Astrup Fearnley Museum of Modern Art, Oslo 2006-12. Photo Nic Lehoux © RPBW - Renzo Piano Building Workshop Architects
Renzo Piano Building Workshop in collaboration with Narud-Stokke-Wiig, Astrup Fearnley Museum of Modern Art, Oslo 2006-12. Photo Nic Lehoux © RPBW – Renzo Piano Building Workshop Architects

Archistar e marketing urbano

I tempi autoriferiti delle archistar sembrano davvero tramontati, la loro architettura spettacolare, talvolta iconica appare oggi ininfluente e inutilmente costosa. È come se l’architettura oggi dovesse farsi perdonare il fatto di essere diventata marketing urbano, e per rimanere in cattedra debba tornare a far ricerca in tante direzioni diverse. Le domande che riguardano l’architettura sono molte: come ridurre le emissioni nella progettazione delle comunità del futuro? Come salvaguardare territori a rischio, diventati fragili di fronte a fenomeni climatici violenti e imprevedibili?  Come riuscire a progettare e pianificare per chi non ha il denaro per pagarti? Molte sono le esperienze interessanti soprattutto in America Latina, ma un po’ ovunque nel mondo. Sono domande che alcune avanguardie si stanno ponendo da tempo, ma non sono quasi mai diventate politiche attive dei governi locali né nazionali. 

Cambiamento climatico e architettura

Di fronte a tali scenari occorre ripartire dai dati di fatto, da professionalità fondate sulla collaborazione interdisciplinare, volte alla mitigazione e al riparo. Sconosciuto ai più, Paolo Rinaldi, ingegnere, direttore del laboratorio eco idrologico del Politecnico di Losanna, “Nobel dell’acqua”, afferma che, “la proiezione più ragionevole sull’Adriatico del Nord indica che fra 60 anni avremo all’incirca 70-80 centimetri in più di livello delle acque. […] Gli scenari tracciati dall’IPCC, prevedono con l’abbassamento del fondo marino che il medio mare si innalzerà di un metro entro la fine del secolo, decretando la morte dell’ecosistema lagunare veneziano”. A questa catastrofe naturale alle porte, le soluzioni potranno esserci se saremo capaci di abbandonare la visione miope attuale di chi ci governa. Occorre togliersi i paraocchi e capire che il mondo naturale con il cambiamento climatico si è messo in moto con sviluppi incontrollabili anche sul fronte biologico.Ma l’architettura è anche un’arte e se vogliamo comprendere la ‘buona’ architettura credo sia necessario ripartire dalla conoscenza di noi stessi, in quanto esseri incarnati (embodied beings) come corpi nello spazio, tornando a dare importanza agli ambienti che frequentiamo e che costruiamo.  Le nuove frontiere delle neuroscienze, le scoperte della scuola di Parma sui neuroni specchio, il pensiero illuminato del medico e autore portoghese Antonio Damasio, il postdarwinismo della microbiologa Lynn Margulis e il pensiero di eco femministe quali Donna Haraway possono darci molti spunti per linguaggi innovativi che potranno aiutarci a declinare meglio il futuro.    

L’empatia degli spazi: architettura e spazi pubblici

Soprattutto sarà fondamentale comprendere l’empatia degli spazi, e che a ogni percezione del mondo corrisponde un’esperienza edonica/affettiva (Vittorio Gallese) che condiziona le nostre valutazioni, anche quelle apparentemente oggettive e razionali. Perché troviamo così appagante il mondo antico, o quello rinascimentale, con le sue proporzioni, la sua sezione aurea, le sue dimensioni a misura d’uomo? Il Partenone non è soltanto un monumento antico ma è soprattutto il risultato di un pensiero raffinato, ossia di un inganno grazie alle conoscenze dei grandi artisti e architetti dell’antichità quali Fidia e Ictino, in grado di correggere gli effetti ottici falsando leggermente le proporzioni per renderlo perfetto all’occhio umano. 
Come ci insegna l’architetto finlandese Juhani Pallasmaa, gli aspetti sensoriali, la qualità della luce, il senso del colore, la sensualità del tatto contribuiscono insieme a farci star bene oppure vivere male un determinato ambiente. Perché le tonache dei monaci buddisti hanno quelle meravigliose tonalità che vanno dal giallo ocra al profondo rosso bordeaux se non perché secondo gli psicologi rappresentano il calore della relazione?  
Viene in mente una mostra Architecture without Architects al MoMA del 1964 di Bernard Rudofsky che ha fatto storia per la bellezza delle soluzioni, frutto di saggezza, di conoscenza collettiva, di attenzione per la natura, come ci insegna la storia dei paesaggi d’Italia. Ogni regione ha la sua pietra, l’ardesia sui tetti e i pavimenti liguri, il grigio compatto della pietra serena in tutta la Toscana, la pietra d’Istria che incornicia ogni finestra a Venezia, ecc. Elementi e piante che caratterizzano i diversi paesaggi. Perché invece di bandire gli alberi dai giardinetti pubblici a favore di mediocri architetture prive di sedute non si reinseriscono quelle piante meravigliose che con la loro chioma generosa accolgono tutti, mamme, bambini e anziani, proteggendoli dalla calura estiva? Piazze mediterranee rese indimenticabili come quella di Carloforte in Sardegna con il suo ficus gigante e sotto, tutto intorno, una seduta sempre affollata. 

La architettura senza architetti: dal Moma a Carloforte

Molti elementi riaffiorano dal nostro passato prossimo, colpevolmente rimossi soltanto perché non abbastanza “innovativi”.  Penso ai portici di tante città mediterranee, forma di architettura altruistica in parte pubblica in parte privata, per un utilizzo comunitario.
In poche parole, la scoperta della simulazione incarnata attribuisce minor importanza alla vista e più rilevanza all’esperienza sensoriale. Ed è sempre Pallasmaa che ci riporta al nostro bisogno di vivere nel mondo reale quali esseri in natura, che si rapportano con il mondo attraverso i sensi che sono molto più di cinque, esattamente come fanno i critters, gli animali, ogni essere vivente.  
Le comunità nel tempo hanno saputo organizzarsi e risolvere molti problemi con o senza architetti, ma nella società complessa di oggi, l’architettura per non farsi strumento di un potere sempre più autocratico dovrà trovare un ruolo al tempo stesso vecchio e nuovo, reinventando un repertorio più aderente ai reali bisogni delle persone e non soltanto di quel 2%. 

Anna Detheridge

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