Il futuro è un giardino di piante spontanee. Intervista al paesaggista Antonio Perazzi
A pochi giorni dall’apertura a Firenze del giardino pensile del nuovo Social Hub, da lui disegnato, il paesaggista Antonio Perazzi, direttore artistico di “Radicepura Garden Festival”, la biennale del giardino mediterraneo in Sicilia, si racconta in un’intervista

Intervistare Antonio Perazzi (1969), paesaggista internazionale, scrittore, direttore artistico della quinta edizione di Radicepura Garden Festival (a Giarre, fino al 7 dicembre 2025), è come fare una lunga passeggiata, condotta lungo un sentiero appena accennato. C’è una direzione e una meta. Ma c’è anche il tempo di fermarsi, la libertà di divagare, di cogliere il senso delle cose nel loro insieme. E parlare così di rigenerazione urbana con piante a costo zero e bassa manutenzione, della bellezza e della semplicità della natura, del futuro dei nostri paesaggi.
Intervista al paesaggista Antonio Perazzi, direttore artistico di “Radicepura Garden Festival”
Cinque edizioni della biennale “Radicepura”, dieci anni di impegno: è tempo di bilanci o di scommesse per il futuro?
Quando ho accettato la direzione artistica ero già molto colpito da quanto fatto da Mario Faro (direttore generale di Radicepura). Vedevo qualcosa di fertile, credevo di potere dare un contributo. E per me il bilancio è assolutamente positivo: Radicepura è un luogo di grande ispirazione. Ho imparato dal mio mestiere di progettista che una ricca biodiversità non è solo un vantaggio per piante e animali ma è ricchezza per le persone, per la cultura. Ho voluto dare un indirizzo più internazionale perché penso che il giardino sia condivisone, e il giardino mediterraneo all’improvviso non è un più un modello del sud dell’Europa, bello e confusionario: è un modello sostenibile in termini sociali, culturali, e biologici. Ne sono convinto, e questo è il fiore all’occhiello di questo luogo.
Il Sud però ha le città meno verdi d’Italia. Catania ha 4 mq di verde per abitante contro una media nazionale di 30. “Radicepura” è un avamposto di resistenza.
È un luogo che ha tanti spiriti diversi, dove si parla di giardino contemporaneo. E il giardino contemporaneo conosce il rispetto per il paesaggio, per l’economia del verde, per le persone coinvolte: questo è un territorio di agricoltori che hanno bisogno di produrre.
Quale messaggio lancia?
Vorrei far capire che qui non si fanno giardini autoreferenziali, non si fa design fine a sé stesso, ma si sperimentano combinazioni in un luogo particolarmente generoso, fertilissimo di persone, artigiani, investitori che si prendono cura del territorio. Il mio lavoro a Radicepura spinge, con workshop e incontri e coinvolgendo designer e artisti, ad avere un rapporto sincero con il paesaggio, con la natura.

Come fare un giardino? Servono architettura, design, agronomia, ingegneria.
In giardino ci vuole tempo, fatica, pazienza. Usiamo lo smartphone circa tre ore al giorno, la soglia di attenzione è di 8 secondi; nessuno fa più lavori manuali. Eppure “Radicepura” richiama oltre 40.000 visitatori e coinvolge tanti giovani.
L’aspetto più bello di fare un giardino è prendersene cura. Il giardino mediterraneo, con la sua imperfezione, casualità, con la promiscuità irriverente della storia, prende forma dal prendersene cura. Radicepura offre l’occasione di entrare in rapporto con la natura in maniera preponderante: qui le piante crescono in modo esponenziale, tre, anche quattro volte di più.
Cosa vuol dire “fare un giardino”?
Vuol dire mettere le mani nel terreno e avere un progetto a lunghissimo termine, in qualunque parte del mondo. Con le dita sporche di terra non si riesce a usare lo smartphone, spesso non c’è connessione, il sole impedisce di vedere lo schermo. Quando si semina qualcosa si è portati a pensare alla stagione che verrà, molto spesso agli anni che verranno. Fare un giardino è qualcosa di unico: c’è architettura, design, agronomia, ingegneria, ma soprattutto c’è un confronto continuo con la praticità e l’economia di un mondo a scala diversa.
Dagli eco-resort fino ai boschi-condominio, il verde viene sfoggiato come segno distintivo del lusso privato, mentre nelle nostre città i giardini pubblici sono spesso degradati. C’è un problema di democrazia del verde o è sempre colpa dei soldi che non bastano?
È una domanda su cui mi arrovello da quattro anni, lavorando sulla rigenerazione urbana, dalla Manifattura Tabacchi di Firenze alla Bicocca di Milano. La città è la quintessenza dell’artificiale, luogo dove la natura è negletta. Tutte le città hanno bisogno di maggiore vegetazione, ma non servono soldi: servono giardinieri, l’impegno degli abitanti. Sono spazi di tutti, e tutti vi devono partecipare: se i budget fossero basati sull’impegno e sulla frequentazione della gente, si avrebbero risultati maggiori. A Catania ci sono luoghi di grande fascino di cui i cittadini potrebbero prendersi cura. Milano è piena di luoghi di transizione che potrebbero diventare giardini temporanei, anche a costo zero, assecondando ad esempio piante pioniere.
Per esempio dove?
Penso alla Darsena di Milano che, abbandonata dopo il restauro, si era trasformata in un giardino bellissimo di piante aliene. Far crescere un giardino di piante spontanee, in equilibrio tra caos e ordine, non è più vantaggioso che piantare migliaia di alberi che nessuno curerà? Nella centralissima via De Amicis stanno realizzando enormi aiuole: ma io vedo solo cemento, e quando guardo la sezione del terreno sto male, perché non c’è spazio per le radici. Con un po’ di “buon senso giardinistico” si può fare molto di più, senza preconcetti fatti di slogan e di statistiche. La natura è fatta di cose concrete, come la consequenzialità delle piante spontanee.
Rigenerare città e paesaggi con piante spontanee e a bassa manutenzione: la parola ad Antonio Perazzi
Nel libro “La natura selvatica del giardino” lei celebra le specie spontanee, resilienti e a bassa manutenzione, con un sottotitolo quasi francescano: “Elogio delle erbacce, piante associate spesso a luoghi di degrado e abbandono”. Quanto è difficile fare cambiare gusti e prospettiva?
Il problema è la soglia di attenzione. Quando ero bambino, negli Anni Settanta, Milano era una città molto brutta, in cui i giardini erano scrigni privati. Ma per me c’era un luogo di ispirazione: era un fioraio, Raimondo Bianchi, e aveva vetrine di fiori raccolti dal giardino. Niente orchidee o amarillis ma, ad esempio, rose dalle foglie macchiate dalla ruggine, sincere, in equilibrio tra effimero ed eterno. Una volta gli chiesi perché alcune persone non notassero la bellezza della natura. “Tutti notano la bellezza”, mi rispose, “il problema è il tempo che ciascuno dedica alla sua fascinazione”. Dobbiamo concentrarci più a lungo, per più tempo, sulla bellezza: bisogna scriverne e parlarne per farlo. Ed accettando che facciamo parte della natura, di questo caos meraviglioso, ci fermeremo a comprenderne i tempi.
Ovvero?
Le piante spontanee non costano niente, non hanno bisogno di manutenzione: devono solo essere individuate, rese comprensibili. In Sicilia, lungo le strade, ho visto delle fioriture spontanee incredibilmente belle, ispiratrici, infinitamente migliori di qualunque progetto che avrei potuto ideare in trent’anni di carriera. E rimango basito nel vedere che vengano tagliate proprio quando questa biodiversità si esprime al meglio e prepara la generazione successiva. Non ha senso.
Il futuro della progettazione dei giardini
Nel 2000 la Biennale di Architettura di Venezia curata da Fuksas era intitolata “Cities, Less Aesthetics, More Ethics”. Dopo 25 anni siamo più consapevoli, ma abbiamo il climate change, il consumo di suolo è aumentato, aree verdi in crisi. Era meglio l’estetica?
C’è un’estetica che genera etica, ed un’estetica autoreferenziata. L’estetica, come l’ordine, serve a rendere rassicuranti i luoghi. Mi è capitato spesso di intervenire in luoghi incolti e l’ho fatto mantenendo le piante spontanee, ma per farlo bisogna dare un ordine alle piante, il che sembra un controsenso. Non lo è.
Cosa intende?
Un olmo che si autosemina in un parcheggio abbandonato libera migliaia di semi che potenzialmente possono diventare migliaia di piante: l’intervento del paesaggista è quello di tenerne solo una parte affinché abbiano una funzione, anche estetica. In questo senso il progetto è la forma più alta di gestione della natura: si fa con la natura, non contro la natura. E l’estetica deve nascere dal progetto, non viceversa: è un’azione molto pragmatica.







Il ruolo dei paesaggisti nella visione di Antonio Perazzi
I giardinieri sono persone lungimiranti, perché devono, per forza di cose, immaginare il futuro. Cosa aspettarci nei prossimi dieci anni per i nostri giardini, per i nostri paesaggi?
È difficile rispondere a questa domanda per via del cambiamento climatico di cui siamo noi la causa. Ci saranno momenti di grande indecisione, di imperfezione. Ci saranno paesaggi che si adatteranno, altri saranno in transizione verso qualcosa. Noi invece non siamo molto adattabili: per vivere abbiamo bisogno di modificare l’ambiente, di stare al caldo d’inverno e al fresco d’estate. Di certo il clima mediterraneo si sposterà nel Nord Europa, il Centro Italia si desertificherà in parte, i piccoli centri subiranno una forte erosione sociale.
Il giardino è un luogo complesso vi converge la storia, la botanica, l’architettura, l’arte; spesso viene visto per frammenti. I paesaggisti sembrano gli unici ad avere una visione organica, tettonica, complessiva del giardino e dell’uomo: ma hanno poca voce. Non è il momento di parlare di più alla gente e reclamare un ruolo nella gestione delle sfide climatiche e urbane?
Ne sono assolutamente convinto. Il paesaggista oggi ha l’occasione di uscire dallo stereotipo del ricco che realizza giardini per svago. È una professione politica, schierata, dichiarata, almeno per chi fa questo mestiere con la “p” maiuscola. Penso però che il paesaggismo non sarà credibile senza una giusta scuola di formazione: non basta la facoltà di Architettura o quella di Agraria, perché il paesaggista è una figura quasi rinascimentale.
E cosa occorre quindi?
Serve un’accademia che tenga in equilibrio arte, progettazione, pratica, conoscenza delle piante, del terreno. E se avessi un interlocutore direi: fondiamo una scuola. I giovani di oggi sono molto più colti, stimolati, motivati rispetto alla mia generazione. Hanno più occasioni di viaggiare, e di studiare modelli che senza la conoscenza diretta sarebbero complessi da capire. Sono molto fiducioso: i ragazzi sapranno essere ottimi paesaggisti. Migliori di noi.
Gabriele Mulè
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