Il dilemma del curatore. La Biennale Architettura di Carlo Ratti a Venezia
La 19. Mostra Internazionale di Architettura, intitolata Intelligens. Natural. Artificial. Collective. è animata da un diffuso ottimismo, dalla fiducia nelle possibilità dell’intelligenza artificiale e dall’ambizione di cambiare l’architettura

Come già nel libro Architettura Open Source, anche nella sua Biennale Carlo Ratti è partito dalla critica alla supposta figura novecentesca dell’architetto-eroe, il solitario artista-demiurgo narcisista, da rottamare nel nome di pratiche più condivise, inclusive e soprattutto concrete nell’affrontare, grazie all’aiuto dell’intelligenza artificiale (e anche di quella collettiva e di quella naturale) il grande problema di oggi: il cambiamento climatico.
La Biennale di Carlo Ratti
Questo approccio è evidente fin dalle prime parole scritte all’entrata dell’Arsenale: “l’Architettura è sempre stata una risposta a un clima ostile”. Ratti parte dalle capanne primitive per inquadrare la questione che secondo lui è oggi centrale nella disciplina: “colmare il divario tra un ambiente ostico, degli spazi sicuri e vivibili di cui abbiamo bisogno e il tipo di vita che vogliamo vivere.”
Questa visione è quanto meno riduttiva e può diventare anche contraddittoria.
L’architettura serve a dare un significato al costruire, attraverso la forma; non nasce dal rifugio o dall’abitazione, ma dal sepolcro e dal tempio. Tanti hanno provato a darne una definizione: per Mies van der Rohe l’Architettura è “chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta”, per Schelling è “rappresentazione di se stessa”. Senza voler troppo filosofeggiare, prendiamo per buono almeno Le Corbusier: “L’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”. Anche Ratti forse condivide, nel suo intimo, quest’ultima vecchia definizione, e infatti la applica in modo letterale in AquaPraça, l’opera che il curatore ha esposto nella sua stessa mostra, in antitesi con gli altri contributi della sua Biennale.
Minimalismo a Venezia
AquaPraça è una “piazza galleggiante“ in stile minimalista, disegnata in collaborazione con Höweler e Yoon. Si tratta di un plastico bianco, puro e quadrato, all’interno di una vasca nera; non è una casa, non è un edificio, non serve a proteggersi, è anzi un’architettura priva di ambienti chiusi, uno spazio nudo, senza impianti tecnologici. Come il Teatro del Mondo di Aldo Rossi (al quale dichiaratamente si riferisce) la piazza, una volta costruita, dovrebbe compiere un viaggio simbolico, navigando sull’acqua, da Venezia al Brasile. Accanto al plastico, un pannello espositivo mostra i rendering, le didascalie e soprattutto gli schizzi, rigorosamente a mano, pronti a testimoniare il gesto artistico e l’autorialità dell’opera, come nella nobile tradizione di tanti architetti del passato.
Non è importante dire se questo lavoro sia bello o brutto o se sia riuscito o meno nel suo intento espresso nelle didascalie (“essere un esperimento vivente di resilienza” contro il cambiamento ambientale, “ripensare l’architettura non solo per oggi ma per un domani collettivo e incerto”); il problema è che il lavoro di Ratti contraddice, con disarmante efficacia, l’impianto teorico della sua Biennale.
Le forme in architettura, da Mies a Le Corbusier
AquaPraça è un lavoro volutamente novecentesco, un tentativo di dare un senso alle cose attraverso la forma architettonica, non attraverso innovazioni tecnologiche; attraverso l’idea di un uomo, non attraverso pratiche condivise con l’intelligenza artificiale. Tutto questo emerge con evidenza nelle immagini e in modo più sottile dagli schizzi, estemporanei, gestuali, come quelli di Le Corbusier, fatti a mano per dimostrare che è un uomo, un solo uomo (Ratti stesso?) ad aver trovato eroicamente l’idea giusta. AquaPraça è una serie di volumi puri sotto la luce, le immagini parlano chiaro. Non ha una vera e propria funzione, il suo intento è artistico; si potrebbe dire che è un oggetto a reazione poetica.
In questa contraddizione risiede la difficoltà che l’autore ha di attenersi al tema da lui stesso posto e di rinunciare al proprio ego in nome dell’obiettivo superiore che persegue. Chiunque avrebbe questa stessa difficoltà perché, nel momento stesso in cui un architetto impugna la matita c’è nel suo gesto una inevitabile componente di narcisismo.
L’architettura secondo Carlo Ratti
L’opera che il curatore ha deciso di esporre ha un esito freudiano: Ratti vorrebbe uccidere il padre (l’architetto-eroe), sposare la madre (l’architettura dell’architetto-eroe) e diventare Re (rivoluzionare la disciplina). È un importante professore, con un’eccellente educazione, un professionista di enorme successo, può anche riuscire nell’impresa, ma il suo errore di base lo inseguirà.
Francesco Napolitano
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