L’architettura come lente per luoghi in trasformazione. Intervista ad Alfonso Femia 

L’architettura come strumento per dare valore ai luoghi fragili; questo il concept che lega i progetti dell’architetto Alfonso Femia, autore, con il suo Atelier(s), anche della Fondazione Dallara, dove lo abbiamo incontrato per approfondirne la ricerca…

La nuova sede della Fondazione Caterina Dallara si presenta come un’architettura dialogica, che stabilisce un legame profondo con il contesto ancor prima di rivolgersi al pubblico. Situato a pochi chilometri dall’omonima Academy nel comune di Varano de’ Melegari, l’edificio non solo incarna i valori della celebre casa automobilistica, ma anche il genius loci in cui si inserisce. A curarne la progettazione è Atelier(s) Alfonso Femia, che ha trasformato un vecchio fienile in uno spazio protetto e al contempo aperto alla collettività: una presenza lieve e discreta nel paesaggio della Val Ceno. Nel corso di un dialogo con l’architetto, la storia della Fondazione si intreccia con altri importanti progetti in cantiere, come il polo universitario Avignone, il lungomare di Palmi, il water front di Trieste o, ancora, il centro storico di Latina. Progetti distanti, collocati su diverse scale urbane, eppure legati da una visione comune: l’architettura intesa come strumento per dare senso e valore ai luoghi fragili. 

Villa Créative Avignone: rinnovare memoria e innovazione 
Da Varano, ci spostiamo dunque ad Avignone, dove Femia, in collaborazione con DLAA Architectes, ha disegnato il progetto di Villa Créative. Nato dalla volontà dell’Università di Avignone e del Comune di creare un ponte tra sapere accademico e industrie creative, l’edificio – un tempo sede dell’École Normale d’Institutrices e della Facoltà di Scienze – ha riaperto ufficialmente al pubblico il 27 maggio dopo una significativa riqualificazione avviata nel 2022. 

Intervista all’architetto Alfonso Femia 

Cosa l’ha colpita del progetto di Villa Créative e qual era la situazione dell’area prima del vostro intervento? 
È un progetto che ci ha coinvolto già dalla fase di concorso. Quello che ci aveva impressionato fin da subito era la possibilità di lavorare su un’area ampia e generosa, adiacente all’università, eppure molto chiuso e frammentata. Non c’erano relazioni tra gli edifici, né con la città, né con gli spazi circostanti. 

Qual è stata l’idea iniziale alla base del progetto architettonico? 
La nostra prima intuizione è stata quella di capovolgere questa logica e dare all’edificio una doppia funzione: da un lato uno spazio pubblico, accessibile, con un grande giardino pensato non solo come elemento paesaggistico, ma come spazio attivo e vissuto; dall’altro, uno spazio più riservato per attività specifiche. 
 
Che scelte progettuali sono state adottate per ottenere questo dualismo? 
Diverse. Per esempio, l’auditorium è stato collocato nell’ala posteriore dell’edificio, sfruttando una doppia altezza e dando vita a una corte retrostante, pensata come spazio di relazione. Inoltre, abbiamo lavorato molto sul piano terra, rendendolo estremamente flessibile e permeabile rispetto alla città. Infine, abbiamo recuperato la copertura abbassando l’ultimo solaio: lì abbiamo inserito gli spazi per le start-up, che necessitano meno relazione con l’esterno. 
 
Qual è stata la difficoltà principale nel trasformare un edificio storico in uno con logiche estremamente contemporanee? 
La sfida era proprio questa: non solo recuperare un patrimonio vincolato, ma renderlo attuale e intergenerazionale. Dare nuova vita a un luogo non solo rispettandone la memoria ma anche aprendolo a usi inediti e attuali. Ed è quello che siamo riusciti a fare. Ma c’è un elemento fondamentale che ha dato ancora più forza a questa visione: il Festival di Avignone, uno dei più importanti al mondo per le arti sceniche. 
 
Ovvero? 
Villa Créative è stata pensata anche per ospitare eventi in questa occasione, diventando parte integrante del tessuto urbano e culturale: un’alternativa più contemporanea e informale rispetto, ad esempio, alla storica area del Palazzo dei Papi. 
 
C’è quindi anche una visione educativa più trasversale, non solo formazione e innovazione, ma anche cultura attiva, partecipata… 
Assolutamente. Le nuove generazioni hanno un’idea di cultura molto ampia, fluida, che mescola saperi e strumenti diversi. L’obiettivo è proprio quello: creare un luogo che intercetti il cambiamento, che si adatti al tempo. Un’università “aperta” che favorisca scambio, sperimentazione e relazioni concrete. 

Rigenerazione costiera da nord a sud: i progetti di Alfonso Femia a Palmi e Trieste 

Torniamo in Italia. Ci sono diversi progetti su scala urbana che stanno partendo, come il lungomare Tonnara a Palmi in Calabria. A che punto siamo e quali sono le principali criticità con cui vi siete confrontati? 
Il progetto è attualmente in cantiere. È un intervento complesso. Stiamo parlando di un contesto dove convivono problemi urbanistici, sociali, ambientali e culturali. Nello specifico, a Palmi, abbiamo un fronte mare naturalisticamente straordinario, ma profondamente segnato da anni di incuria e abusi. Lì, un chilometro di passeggiata e di accesso diventa l’occasione per ripensare radicalmente il rapporto tra città, costa e paesaggio. Questo vuol dire affrontare anche temi come l’erosione marina, l’accessibilità, il cambiamento climatico e la fragilità del territorio. 

Qual è quindi l’obiettivo del progetto? 
Sicuramente generare un cambiamento culturale. Se riesci a fare bene un’opera pubblica, all’inizio può creare rifiuto o resistenza, ma poi si rivela utile, funziona, e questo educa tutti. Lo dico spesso: ogni cantiere, soprattutto nei luoghi pubblici, è una forma di “trauma” collettivo, quindi c’è sempre una fase di rifiuto, che va accompagnata, accettata. 
 
Inoltre il progetto prevede anche un’ampia rinaturalizzazione dell’area, è corretto? 
Sì, passeremo da un’area impermeabile pari al 90% a circa il 60%, aumentando così lo spazio dedicato al suolo vivo e rendendo il paesaggio più resiliente. Abbiamo spinto molto su alcuni aspetti, quindi per comprometterlo davvero, bisognerebbe impegnarsi parecchio. 
 
C’è una data di conclusione già prevista? 
Teoricamente il cantiere dovrebbe concludersi entro il 2026. Le demolizioni sono quasi completate, anche se con qualche sorpresa perché sotto alcune superfici abbiamo trovato volumi sepolti, il che rende il lavoro più delicato, visto che le risorse sono limitate. 
 
A proposito di mare: c’è un altro progetto in cantiere che è in qualche modo simile, ovvero il Parco Lineare di Trieste… 
Sì, questo progetto a Trieste mette insieme tanti elementi: acqua e suolo, condivisione e sport, spazio pubblico e città, porto antico e water front, ma non è questa la sola peculiarità. I diversi fattori si compongono senza gerarchie. Con un’unica semplice traccia lineare, si realizzerà un nuovo ecosistema urbano. Anche per questo progetto si prevede che il cantiere verrà completato entro la fine del 2026, nel rispetto dei limiti imposti dal PNRR. 

Un progetto a lungo termine per la città di Latina 
Dalle coste alle trame della pianura pontina, a Latina il progetto di riqualificazione del centro storico diventa, per Femia, uno strumento per ripensare il tempo lungo della città, tra bonifica, vuoti urbani e nuove geografie. In cosa consiste il progetto di Latina e quale visione lo guida? 
Il progetto nasce in occasione del centenario della città, che ricorre nel 2032, ma fin da subito abbiamo voluto che questa scadenza fosse letta non solo come celebrazione del passato, ma come occasione per costruire una visione per i prossimi cento anni. Ci siamo chiesti cosa significhi progettare una città in un contesto di crisi climatica e cambiamenti territoriali. 
 
E qual è stata la risposta che vi siete dati? 
Latina è una città fondata sull’acqua – la bonifica ne è alla base – e oggi quell’acqua può tornare a essere un elemento attivo del progetto urbano, rigenerativo. Abbiamo creato una nuova geografia fatta di cinque grandi assi: connessioni tra parchi, percorsi vegetali, la via che si collega all’acqua, luoghi dove l’elemento può tornare in superficie. 
 
Come si concilia la flessibilità del progetto con le esigenze attuali della città? 
La nostra proposta non è un piano rigido ma una visione aperta: abbiamo fornito all’amministrazione quella che chiamiamo una “cassetta degli attrezzi”. Abbiamo stimato che il progetto completo richiederebbe circa 70 milioni, ma può essere realizzato in 20-30 anni, evolvendo nel tempo. Latina, per esempio, potrebbe assumere un ruolo crescente come città universitaria o centro del settore farmaceutico. La domanda chiave, che poniamo anche all’amministrazione, è: che identità vuole avere nel futuro? 

L’amministrazione in che modo ha accolto questa proposta? 
In modo sorprendentemente positivo. Non pensavamo che una visione così “lunga” sarebbe stata subito compresa. Invece c’è stato grande interesse, che ci ha spinto a restare in dialogo. 

È stato difficile confrontarsi con un centro storico? 
Non è stato difficile. Certo, ci sono resistenze, ideologiche e culturali, sul significato degli spazi pubblici, ma venendo da fuori, come spesso capita, si è più liberi, meno condizionati da nostalgie o conflitti interni. Invece di puntare su grandi piazze monumentali abbiamo immaginato un centro che fosse minerale e vegetale insieme, con l’acqua come presenza attiva. 

Atelier(s) Alfonso Femia, L'immaginario dell'Acqua, Latina ®AF517
Atelier(s) Alfonso Femia, L’immaginario dell’Acqua, Latina ®AF517

La mutazione come occasione: la proposta di Femia per la Biennale Architettura 2025 

 
Le architetture di Femia non si limitano ad essere semplici “oggetti”, ma attivano processi che richiedono tempo per sedimentarsi. Questo approccio emerge anche nel tema che l’architetto avrebbe sviluppato se fosse stato nominato curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura 2025, ruolo per cui era in lizza… 
Avrei parlato di mutazione. Viviamo un momento storico in cui molte crisi e trasformazioni sono sovrapposte: pensavamo fosse importante riflettere su come la mutazione, anche quando sembra negativa, possa trasformarsi in qualcosa di positivo. Il progetto sarebbe stato interdisciplinare e trasversale, creando una sorta di “tessitura” culturale in cui ogni elemento è collegato all’altro, dando senso all’insieme. La mutazione, quindi, non è solo cambiamento, ma anche un processo che dobbiamo capire e saper gestire per affrontare il futuro con consapevolezza. 
 
Carolina Chiatto 
 
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Carolina Chiatto

Carolina Chiatto

Cresciuta in provincia di Potenza, si laurea in Scienze dell’Architettura presso l’università di Roma Tre. Dopo aver vinto una borsa di studio con l’università di Cagliari per partecipare a un corso di formazione per giovani imprenditori, si appassiona al mondo…

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