Addio al “padre” del tatuaggio italiano. È morto Gian Maurizio Fercioni
È scomparso lo scorso 27 novembre Gian Maurizio Fercioni, pioniere nell'arte dei tattoo (e membro fondatore del Teatro Franco Parenti di Milano). Il ricordo dell'artista nelle parole dell'amico e collega Stizzo
Personaggio inquieto, uomo di altri tempi. Gian Maurizio Fercioni è stato tante cose, un avventuriero della cultura che nel corso della sua esistenza si è gettato in mestieri e passioni prima (molto prima) che diventassero mode. Una su tutte: il tatuaggio. Nato nel quartiere Brera di Milano nel 1946, questo creativo a tutto tondo dell’arte meneghina volta le spalle alle rigidità della famiglia aristocratica per abbracciare, piuttosto, modelli ben più eclettici e controcorrente. Il suo primo tatuaggio ad appena quattordici anni ne è la prova: un’àncora sull’avambraccio sinistro, simbolo di un’arte legata alla vita dei marinai. E quell’arte, il tattooing, sarebbe diventata con il tempo la sua vocazione.

Chi era Gian Maurizio Fercioni
Dopo le prime prove da tatuatore provetto tra i banchi del liceo e dell’Accademia di Brera, Fercioni vola prima in Francia (dove pratica in uno studio di Lione) e poi ad Amburgo, dove è parte della “bottega” di Herbert Hoffmann, caposcuola del mondo del tatuaggio (scomparso nel 2010 e fino ad allora conosciuto come il “tatuatore in attività più anziano del mondo”). Tornato a Milano, diventa uno dei membri fondatori del Teatro Franco Parenti e nel 1974 decide di aprire il suo studio, il primo in assoluto in città: il Queequeg Tattoo, una mecca per gli amanti di questa disciplina. Gestito oggi dalla figlia Olivia, questo posto (in Via Mercato) è diventato col tempo una sorta di museo, con macchinette, stampe e cimeli raccolti nei principali porti del mondo. L’eredità di Fercioni è raccontata nelle parole di Stefano Boetti, in arte Stizzo, uno dei più talentuosi tatuatori italiani e suo amico.

Il ricordo del tatuatore Stizzo. I primi anni nello studio di Fercioni
“Conoscevo Gian Maurizio da moltissimi anni, ma prima ovviamente ho conosciuto la sua parte di tatuatore. Successivamente ho avuto modo di conoscerlo e frequentarlo, e mai mi sarei aspettato che il tatuatore che ammiravo così tanto mi avrebbe fatto entrare nel suo mondo, diventando un amico, un maestro e un collega. Da giovanissimo cercavo in tutti i modi di attirare la sua attenzione, di parlargli, e andavo spesso nel suo studio con un misto di entusiasmo e timore, cercando di farmi notare, avevo una necessità estrema della sua approvazione. Nel suo studio cercavo di memorizzare ogni tavola appesa perché, ai tempi, era difficile trovare dei riferimenti, e quelle immagini erano una fonte preziosissima per me. Entrare nel suo studio significava osservare in silenzio, con la paura costante che potesse cacciarti via, ma anche con la consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di raro. Il suo studio è un vero e proprio museo, un viaggio nel tempo. Una collezione costruita negli anni ed ogni oggetto racconta una storia. Non solo un luogo di lavoro, ma uno spazio carico di memoria, studio e rispetto, in cui si percepiva chiaramente l’amore profondo per l’arte; un amore che lo ha accompagnato sempre”.
Come è cambiato il tatuaggio negli anni. Parla Stizzo
“Ho iniziato a tatuare a fine Anni Novanta con la consapevolezza che nella mia città c’era una storia decennale, quindi la partenza del mio percorso è stata tutt’altro che facile. Da subito ho capito che non avrei potuto e dovuto affacciarmi al mondo del tatuaggio in maniera superficiale, perché fino a quel giorno la storia era stata scritta in maniera più che seria. Da lui. Sapevo che, nonostante la mia giovane età, l’impegno sarebbe dovuto essere enorme. In quegli anni tatuare significava partire da niente o quasi. Gli aghi erano saldati da noi, non c’era Internet e i libri erano pochi. Ma il suo mondo era una realtà senza tempo; era tutto quello che avrei voluto essere; era tutto quello di cui avrei voluto circondarmi. La sua figura nel suo mondo era visivamente uno spettacolo fuori dal normale. Il suo carisma e la sua personalità, proiettati nella realtà del tatuaggio, erano un insieme di amore, potenza, cultura e poesia. Era inspiegabile la magia che lo ha circondato e lo circonda anche ora. Una sua parola aveva il potere di cambiare la carriera di una persona. Mi ricordo il tempo che ha dedicato a me e la considerazione che aveva di me. E questo me lo porterò per sempre nel cuore”.
L’evoluzione del tatuaggio secondo Stefano Boetti, in arte Stizzo
“In questi decenni il tatuaggio si è evoluto tantissimo dal punto di vista tecnico, ma la trasformazione più grande è stata culturale. Certamente il tatuaggio non è più visto completamente come una cultura underground, ma fa parte della società ora più di prima. Noi però non siamo cambiati. Il tatuaggio, come lo vediamo e lo intendiamo noi ormai, è una realtà rara. C’è chi abbraccia questa ideologia, chi rispetta questo mondo quanto noi. Una comunità mondiale di appassionati e innamorati nostalgici. Indipendentemente dallo stato, dal continente o dalla nazione, gli insegnamenti dei maestri come Gian Maurizio ci hanno unito e hanno costruito una realtà vera, dove il tatuaggio si è sì evoluto, ma senza mai dimenticare le basi, gli insegnamenti e le storie da raccontare alle prossime generazioni. Qualcosa di vero da costruire e portare avanti. Purtroppo questa storia fantastica da raccontare, da disegnare, sembra quasi non interessare alle nuove generazioni. Tocca a noi, a questo punto, sensibilizzare le nuove leve, i nuovi appassionati, a qualcosa che va al di là di una foto sui social. Qualcosa che vada oltre una fotografia. Qualcosa di veramente profondo che esca da uno schermo. Qualcosa che abbia una storia”.
L’eredità di Gian Maurizio Fercioni e il futuro del tatuaggio
“Provenendo da un’epoca pre-digitale, in cui il gesto manuale era centrale e ogni segno portava con sé una responsabilità, ho sempre cercato di mantenere quell’attenzione che Gian Maurizio incarnava perfettamente: fermarsi, osservare, capire cosa serve davvero a un disegno prima ancora di tracciarlo. Prima ancora di lasciare un’eredità stilistica difficilmente replicabile, Gian Maurizio Fercioni lascia un’eredità di pensiero. Ha dimostrato che il tatuaggio può essere una disciplina culturale, non solo tecnica; un atto creativo che richiede memoria, studio, consapevolezza e visione personale. Mi ha insegnato a vivere in libertà la mia personalità. È stato un esempio di come i pensieri difficilmente spiegabili possano trasformarsi in disegni senza tempo. Lascia il vuoto di un amico, un maestro, un artista che fino alla fine ha rappresentato non solo l’opera ma il pensiero che la genera, incarnando perfettamente la figura del tatuatore con un rispetto che parte dalla carta e finisce sulla pelle. In un tempo in cui si incontrano sempre meno artisti disposti a impegnarsi davvero, a studiare, a creare e distinguersi, la sua assenza pesa. E a noi, che viviamo dei suoi insegnamenti, rimane viva una responsabilità. La responsabilità di continuare questo percorso come lui ci ha mostrato“.
Alex Urso
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