Ecco come sarà il nuovo New Museum di Manhattan. Intervista al direttore artistico Massimiliano Gioni
Fin dagli esordi il New Museum si afferma come spazio “fuori asse” rispetto alle dinamiche tradizionali. E così sarà anche la nuova stagione, tra collaborazioni e progetti inediti
A quasi cinquant’anni dalla sua nascita, il New Museum di New York si prepara a rinnovare ancora la propria visione del contemporaneo con un ampliamento firmato dai progettisti di OMA – Office for Metropolitan Architecture, lo studio di Rem Koolhaas e Shohei Shigematsu, in collaborazione con Cooper Robertson. Il nuovo edificio, destinato ad affiancare la sede su Bowery progettata da SANAA nel 2007, aggiunge oltre 5.600 metri quadrati, raddoppiando gli spazi espositivi e includendo studi per artisti, una piazza pubblica e la sede permanente di NEW INC., l’incubatore culturale nato in seno all’istituzione. Ad accompagnare l’apertura saranno tre commissioni artistiche: una scultura di Sarah Lucas, prima vincitrice del William “Beau” Wrigley Jr. Foundation Sculpture Award; un intervento site-specific di Klára Hosnedlová per la scala dell’atrio; e una scultura di Tschabalala Self sulla facciata, nell’ambito del Facade Sculpture Program sostenuto dalla Jacques and Natasha Gelman Foundation. Scelte che si inseriscono nella traiettoria del museo, fondato nel 1977 da Marcia Tucker, già curatrice al Whitney Museum of American Art, con l’intento di dare voce alle pratiche artistiche del presente, allora escluse dai circuiti ufficiali.
Il New Museum e la rinuncia alla collezione permanente
Fin dagli esordi il New Museum si afferma come spazio fuori asse rispetto alle dinamiche tradizionali, configurandosi come laboratorio di idee e banco di prova per pratiche curatoriali in qualche modo eterodosse: un esperimento continuo su cosa un museo possa – e non debba – essere. Questa visione trova una delle sue espressioni più nette nella rinuncia a una collezione permanente. Fedele alla sua identità di museo non-collecting, l’istituzione decide di non conservare un patrimonio stabile, sottraendosi a ciò che viene percepito come l’inerzia del collezionismo tradizionale: l’accumulo a fini speculativi, la canonizzazione di opere, la cristallizzazione di narrazioni storiche, ma anche gli oneri gestionali che ne derivano. La sua cosiddetta “collezione semi-permanente” diventa così un esercizio concettuale di museologia che riflette una visione dinamica dell’arte e un sostegno costante alle pratiche più giovani. “Il New Museum è da sempre un museo orientato al futuro: non un luogo in cui conservare la storia, ma un luogo in cui la storia si fa”, afferma Lisa Phillips, direttrice “Toby Devan Lewis” del New Museum. A raccontare questa nuova stagione è Massimiliano Gioni, direttore artistico “Edlis Neeson”.
L’intervista a Massimiliano Gioni
La nuova apertura segna un passaggio importante per il New Museum: in che modo questo ampliamento ridefinisce gli spazi e le prospettive del museo?
L’idea di un ampliamento non nasce oggi. Già nel 2008, subito dopo l’apertura della sede progettata da Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa di SANAA, il museo acquistò l’edificio accanto, utilizzato in maniera funzionale come archivio e spazio espositivo temporaneo. Quella soluzione, però, non offriva possibilità di crescita né di apertura al pubblico, e da qui è maturata la decisione di sostituirlo con un nuovo edificio. Abbiamo quindi organizzato un concorso vinto da Rem Koolhaas e Shohei Shigematsu dello studio OMA. Il loro progetto ci ha convinti anche per la sua valenza simbolica: dall’esterno i due volumi restano distinti, ma all’interno sono perfettamente integrati, un’immagine che riflette bene l’idea dell’arte come incontro tra realtà diverse, la cui sintesi – o contrapposizione – può essere foriera di nuove esperienze. Da un punto di vista programmatico, con la nuova apertura allarghiamo e rafforziamo alcune linee che da sempre caratterizzano la nostra istituzione. Avremo finalmente uno spazio stabile per residenze d’artisti e riporteremo all’interno del museo NEW INC., la piattaforma che rappresenta un punto di incontro tra arte, tecnologia e design e che negli ultimi anni era ospitata altrove. È in questa continuità che si riconosce la specificità del New Museum, l’unico a New York interamente consacrato all’arte contemporanea e con una vocazione fortemente internazionale. Tra i suoi tratti distintivi, quello di presentare spesso la prima mostra newyorkese o americana di molti artisti: dai più giovani alle figure già affermate, ma non ancora pienamente riconosciute. È stato così, per esempio, con Judy Chicago, cui abbiamo dedicato la prima grande retrospettiva solo l’anno scorso, ma anche con Faith Ringgold, Pipilotti Rist e Carsten Höller. Al tempo stesso restiamo un museo reattivo e veloce: non programmiamo con sei anni di anticipo, ma cerchiamo di rispondere al presente, affrontando i temi urgenti per artisti e società. Da qui mostre dedicate al rapporto tra arte e tecnologia o grandi rassegne geografiche come Here and Elsewhere, sull’arte dai Paesi Arabi.
Penso anche al fatto che non conservate una collezione permanente. E che, nonostante l’espansione degli spazi, questa scelta non è cambiata: l’ampliamento resta comunque legato a una certa reattività al presente, ai giovani artisti che il museo continua a voler sostenere.
Sì, sai, una soluzione – a suo modo semplice – sarebbe stata duplicare gli spazi e dedicare metà della nuova sede a programmazioni più stabili, a lungo termine. Ma non è quello che facciamo, e non è quello in cui crediamo. Non è il ruolo che sentiamo nostro, e nemmeno quello degli artisti che presentiamo. Certo, esiste un interesse per la storia, come hai notato, ma si tratta soprattutto di interrogarla attraverso la lente del presente. È questo lo sguardo che l’arte contemporanea sa portare sul passato: ci aiuta a rileggerlo e a metterlo in discussione. In questa stessa prospettiva si colloca anche l’espansione: continuare a dedicarci all’arte di oggi e, se vuoi, a quella di domani. L’apertura del nuovo edificio sarà segnata dalla collettiva New Humans: Memories of the Future, che indaga su come gli sviluppi tecnologici abbiano ridefinito in modi sempre nuovi ciò che significa essere “umani”.
Massimiliano Gioni, il percorso fino al New Museum
Prima di entrare nel merito di New Humans, vorrei soffermarmi sul tuo percorso. Dalle biennali al New Museum e alla Fondazione Trussardi, come si è evoluto il tuo ruolo nei vari contesti istituzionali?
Una peculiarità del New Museum – e della mia direttrice Lisa Phillips – è avermi lasciato la libertà di lavorare anche altrove, dal Qatar al Libano fino alla Cina, per non dire delle grandi biennali come Venezia o Gwangju. Un’apertura rara nei musei americani, che per noi è stata un’occasione di apprendimento e di scambio con realtà culturali diverse. Il mio ruolo, intanto, è cresciuto: sono direttore artistico dal 2014, con responsabilità che vanno oltre la programmazione. Oggi mi occupo anche della visione complessiva e del funzionamento quotidiano del museo: un impegno che si allontana un po’ dalla curatela in senso stretto, ma che trovo stimolante. Allo stesso tempo, è cambiata anche la figura del curatore, influenzata da molti fattori. Ci troviamo a filtrare una quantità enorme di materiali e informazioni: da un lato è stimolante, dall’altro ci ricorda che il nostro ruolo è forse meno centrale di quanto immaginiamo. È un esercizio salutare di relativizzazione e di modestia. L’idea del curatore come figura sovrana, capace di dettare i trend, mi sembra ormai superata, ed è un bene. Anche l’espansione geografica del nostro lavoro ha contribuito a questo sano relativismo. È qualcosa in cui credo molto: il fatto che l’arte, nella pratica come nella fruizione, ci metta davanti all’ignoto, inteso nel senso più concreto del termine. Un’esperienza di alterità e di disorientamento, che possiamo chiamare estraneità, e che non è poi così lontana da quella che affrontiamo ogni giorno in un mondo sempre più complesso.
Parlando di mostre collettive penso alle tue biennali: più volte le hai descritte come “musei temporanei”. Come interpreti oggi questo concetto, anche alla luce della tua direzione al New Museum?
L’idea di biennale come “museo temporaneo” ho iniziato a formularla con la Biennale di Gwangju nel 2010, ma è un pensiero che si è sviluppato nel tempo, anche attraverso esperienze precedenti. Quando ho curato Manifesta nel 2004, la Biennale di Berlino nel 2006 o la prima Triennale al New Museum nel 2009, avevo una visione che oggi mi sembra più semplicistica o forse più agonistica, diciamo: pensavo che una biennale dovesse mettere in dialogo gli artisti più significativi del momento. A Gwangju le dimensioni degli spazi e del pubblico – oltre mezzo milione di visitatori – mi hanno spinto a riflettere sui destinatari e sui linguaggi. Intanto il formato biennale mi sembrava irrigidirsi, con una retorica fatta di intrattenimento, partecipazione e spettacolarità. E quel modello cominciava a sembrarmi stanco. Forse anche perché lavoravo già al New Museum – istituzione atipica, senza collezione permanente e più ricettiva -, ho iniziato a chiedermi se fosse possibile ripensare una biennale a partire da alcune caratteristiche museali. Nei musei storici o etnografici, per esempio, l’esperienza è diversa rispetto a quelle delle gallerie e dei musei moderni: maggiore densità, più apparati informativi, spesso assenti nelle biennali. Da qui l’idea di trasferire quella grammatica al formato biennale: un museo tematico, costruito attorno a un nucleo concettuale che si apre in più direzioni. Un modello forse un po’ bulimico, ma che riflette la mia passione per mostre affollate di immagini e riferimenti: universi da attraversare più che da visitare. Anche se non dimentico mai l’importanza dello stupore, della meraviglia – che spero sia sempre presente -, mi interessa costruire mostre che siano anche strumenti di comprensione.
L’approccio curatoriale di Massimiliano Gioni
Su quest’ultima riflessione si innesta la prossima domanda, che riguarda più da vicino il tuo approccio curatoriale. Mi colpisce spesso il tuo desiderio di accostare linguaggi, discipline, personalità che non sono soltanto artisti, ma anche pensatori, creativi, scienziati. C’è, in sostanza, una transdisciplinarità nel modo in cui costruisci le mostre, un’attitudine quasi “enciclopedica”, che diventa anche uno strumento per guardare alla storia.
Quella che chiami un’attitudine “enciclopedica” ho iniziato a esplorarla al tempo della Biennale di Gwangju. Una delle ragioni nasce dalla mia curiosità verso mostre curate da artisti – Mike Kelley, Rosemarie Trockel, Jeremy Deller, Robert Gober – in cui le opere d’arte erano chiamate a convivere con oggetti di varia natura. Questo mi ha fatto capire che la mia definizione di arte era allora limitata, e influenzava anche le mostre che curavo. Con After Nature al New Museum, nel 2008, ho iniziato ad ampliare quello spettro, mettendo da parte il problema di stabilire se qualcosa fosse “arte” o se avesse “qualità”. Questo mi ha liberato anche dal vincolo del mercato. Poi, certo, in un modo o nell’altro siamo tutti complici del sistema dell’arte. E, paradossalmente, includere opere outsider nella Biennale ne ha poi aumentato il valore. Ma quell’approccio mi ha permesso comunque di muovermi al di fuori delle gerarchie consolidate, cercando ciò che davvero mi interessava. È stato un momento di grande liberazione, che mi ha aperto molte possibilità, non solo dal punto di vista creativo. La mia ipotesi – e direi anche il mio metodo – è che l’attenzione non vada solo alle opere d’arte, ma a una cultura visiva più ampia, una cultura delle immagini che oggi è diventata sempre più complessa, economizzata, quantificata. Ogni immagine, se dotata di intensità, può essere degna di attenzione. Così, a Gwangju ho incluso elementi di varia natura, e ancor più a Venezia, dove accanto alle opere c’erano il Libro Rosso di Jung e degli ex voto. Quindi, sì, questo approccio si può definire enciclopedico, ma non in senso illuminista. L’enciclopedia che mi interessa è quella di Marino Auriti, l’eccentrico meccanico che aveva costruito il Palazzo Enciclopedico da cui la mia Biennale prendeva a prestito il titolo: le enciclopedie che mi affascino sono progetti utopici, complessi e assurdi, e, in sostanza, destinati a fallire. La mia Biennale, in effetti, era piena di enciclopedie fallite, incomplete, visionarie. C’era qualcosa di ironico, forse, ma anche di profondamente sincero: un insieme di tentativi folli, romantici, tragici di dare ordine al mondo. Non era una mostra che credeva in un sapere assoluto. Era piuttosto un insieme di progetti destinati a fallire, e in quel fallimento, forse, risiedeva la loro forza.
Hai già accennato al tuo interesse per la semiotica e, più in generale, alla condizione di sovraesposizione visiva che segna il nostro tempo. È un tema che ritorna anche nel lavoro di Hito Steyerl, tra le artiste presenti nella prossima mostra New Humans, che si chiede: “le persone sono nascoste da troppe immagini? Diventano esse stesse immagini?”. Come leggi queste domande nel contesto della mostra?
Con Hito ho condiviso un percorso particolare. L’ho inclusa in diverse mostre che ho curato: era già nella mia Manifesta del 2004, poi nella Biennale di Gwangju, e ancora nella Biennale di Venezia, dove presentò How to Become Invisible, un’opera incentrata sul tema della visibilità e della sparizione. Quell’opera, che ricevette anche una menzione d’onore, divenne quasi simbolica della Biennale, perché affrontava in modo diretto la dialettica tra sovraesposizione e invisibilità, tra sovrainformazione e paradossale ignoranza, una condizione che riflette perfettamente la nostra esperienza del digitale. Anche per New Humans Hito realizzerà un’opera nuova, Mechanical Kurds (2025), presentata in anteprima a Parigi, che sarà al centro della mostra. È un lavoro sull’intelligenza artificiale e sull’industria delle immagini. Come spesso fa, Hito lavora in controtendenza: anziché limitarsi a riflettere sull’immaterialità crescente delle tecnologie, ha scelto di indagare il lato più concreto, andando in un campo profughi curdo a incontrare e intervistare persone che lavorano per aziende di data labelling. Il loro compito è identificare e mappare immagini, cosicché i software di riconoscimento possano apprendere da quelle classificazioni. E in questo modo Steyerl rivela una dimensione molto fisica della digitalizzazione, che spesso dimentichiamo: un outsourcing della cultura visiva e dell’informazione.
Vorrei chiudere con uno sguardo al presente e al futuro: cosa porterà “New Humans” e quali altri progetti ti aspettano oltre il New Museum?
New Humans è una mostra che ha avuto una lunga gestazione, e che ho ripensato più volte nel tempo. Le sue radici risalgono a ricerche storiche che mi hanno segnato, come Identità e alterità, la mostra curata da Jean Clair alla Biennale di Venezia del 1995, e i suoi studi sul mito del “nuovo uomo”. Con l’apertura del nuovo edificio del New Museum mi è sembrato naturale affrontare questo tema. In mostra ci sono oltre 150 artisti, ma anche scienziati, scrittori e figure eccentriche: da Dalí a Carlo Rambaldi con il suo E.T., fino a materiali scientifici e macchine curiose. Come punto di partenza ho scelto una frase di Karel Čapek, l’inventore della parola “robot” che diceva, nella sua pièce teatrale di fantascienza del 1920 R.U.R. – Robot Universali Rossum: “Non c’è nulla di più strano per l’umano che la sua stessa immagine”. Lo cito a memoria e dall’inglese, quindi spero di non massacrarlo troppo… La mostra parla di come, sotto la pressione di nuove tecnologie, cambino la figurazione e la rappresentazione di noi umani, di come anche proprio la definizione di ciò che è umano sia costretta a fare i conti con nuove tecnologie. Parallelamente, in ottobre inaugurerò a Milano Fata Morgana, una mostra per la Fondazione Trussardi che riflette sullo spiritismo e sulla sua influenza sull’arte tra Ottocento e Novecento, fino alle radici dell’astrazione. Saranno presenti opere di Hilma af Klint, disegni di Emma Jung e Annie Besant, figure legate alla teosofia e all’esoterismo che hanno influenzato anche le avanguardie. È un progetto che intreccia Surrealismo e riscoperte femministe degli Anni Sessanta e Settanta e che, per la Fondazione, rappresenta un ritorno al formato delle grandi mostre tematiche, dopo esperienze quali La Grande Madre o La Terra Inquieta.
Beatrice Caprioli
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