Avvicinare i bambini all’arte contemporanea è possibile. Ecco come
Come si racconta l’arte contemporanea ai più piccoli? Con progetti offline e online, l’educatrice Sarah Galmuzzi ci racconta il suo lavoro: una sorta di educazione sentimentale attraverso l’arte
Tra le voci più acute e abili della divulgazione in rete, siamo con Sarah Galmuzzi ideatrice del profilo “L’arte contemporanea raccontata ai bambini”. Sono voluta tornare a Napoli, dove lei opera, per raccontare, a distanza di anni, come il suo progetto sia cresciuto e quanto sia sempre più preziosa e necessaria, per tutti, l’educazione sentimentale che ci invita a intraprendere…
Intervista a Sarah Galmuzzi
Ti abbiamo conosciuto come ideatrice di progetti di educazione all’arte contemporanea per bambini, come è evoluto il tuo lavoro in questi anni?
I bambini, che pure hanno sempre rappresentato una dolcissima materia da plasmare, hanno lasciato un po’ il posto agli interlocutori adulti che arrivano a conoscere i miei contenuti essenzialmente attraverso la pagina e a breve anche attraverso altri canali. A loro, lettori spesso a digiuno delle nozioni dell’arte, mi piace parlare attraverso la pancia, usando unicamente il filtro delle emozioni, esattamente come si fa con i bambini. Trovo che offrire lo strumento per sintonizzarsi con una dimensione sconosciuta del sentire sia doveroso e bellissimo: l’arte dovrebbe essere la più democratica delle espressioni umane.

Al di là dei progetti off line, è molto seguita la tua pagina Facebook “L’arte contemporanea raccontata ai bambini”, come decidi gli argomenti di cui parlare, parti sempre dalla cronaca?
In realtà, in barba a tutte le strategie di marketing, dalla cronaca non parto quasi mai. Io credo realmente che l’arte sia solo uno dei mezzi (uno dei più sublimi, ovviamente) con cui è possibile raccontare l’uomo con i suoi abissi e le sue vertigini: in questo senso mi piace provare a trasmettere quello che io stessa provo e sento di fronte a certe opere, accostare lavori lontanissimi, pescare dal passato cose dimenticate. Poi certo, quando qualche fatto di cronaca mi suggestiona, ben venga. Ma non è mai una priorità.
ll cuore di ogni tua riflessione è sempre l’arte, sono gli artisti, le loro biografie. Come definiresti tutto questo, una sorta di “educazione sentimentale” attraverso l’arte?
Mi piace moltissimo questa definizione. La verità è che non lo so, non sono in grado di dare un nome a quello che faccio. So però che con l’entusiasmo instancabile della bambina provo a raccontare quello che secondo me è bellissimo – laddove per bellissimo intendo qualcosa che valga la pena di essere conosciuto, decodificato, amato.
Ci sono alcuni artisti, opere o mostre in corso, che ci tieni a far conoscere al grande pubblico?
Sono appena rientrata da Milano, dove ho visto le mostre di Valerio Berruti (di cui conservo gelosamente un disegno scarabocchiato con la biro di cui mi ha fatto dono quando non era ancora famoso), e Leonora Carrington. Agli amici napoletani suggerirei invece di non perdersi la mostra alla Galleria Ingenito di un artista napoletano a mio avviso straordinario. Un pittore talentuosissimo, materia pura, che dipinge col tufo e con il sole, con gli schiamazzi dai vicoli e l’odore del mare, col bitume e i panni croccanti asciugati dal sole. Si chiama Paolo La Motta ed è veramente un degno, degnissimo erede dei migliori rappresentanti della scuola pittorica della mia città.
L’arte in definitiva, aiuta a vivere meglio? O almeno a capire e superare ciò che sembra difficile affrontare?
Se l’arte possa curare non lo so. Sono certa però che tutto quanto ci “costringa” ad entrare in ascolto senza giudizio, ad osservare, confrontare, stupire, possa renderci persone migliori.
Annalisa Trasatti
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