Espressionismo e punk. Intervista a Manuel Cossu, batterista dei Manges

Si può trovare una musica nel rumore del mondo? Intervista a un artista sorprendente, Manuel Cossu, batterista della band The Manges.

Come l’espressionismo, anche il punk è sempre esistito. Un punk inteso come attitudine (Punk: Attitude è il titolo di un buon documentario di Don Letts sulla storia della scena punk rock), dove istinti individuali di ribellione e insofferenza verso ordini costituiti di vario genere – dei, patrie, famiglie, eccetera – si combinano a sensibilità più o meno coltivate, non di rado contraddittorie, rispetto a elementi originari dell’esistenza, di cui si vuole recuperare l’energia primitiva, spesso sporgendosi sullo spirito attraverso il corpo.
Al modo di Wilhelm Worringer, che tirò un filo espressionista tra forme e tempi anche lontanissimi, con un piccolo aiuto di Aby Warburg pare lecito impiegare strutture cognitive ampie per intendere, o almeno domandarsi, perché, di fronte a determinate espressioni artistiche, nonostante la loro distanza s’intenda una risonanza comune. Una corrente continua collega così tra loro danze macabre medievali e graffiti hardcore metropolitani, riti mutilatori religiosi e performance su palchi di concerto, fanzine autoprodotte e libelli ereticali, DIY e autodeterminazione.

DADA E PUNK ROCK

Date queste premesse, proviamo a fare un altro passo. Non è infrequente nella critica l’accostamento dell’etica/estetica punk al Dada primonovecentesco, come dimostra un saggio di riferimento in materia, The Aesthetics of Punk Rock, dove il filosofo Jesse Prinz ha individuato quali caratteristiche comuni irriverenza, nichilismo e amatorialità. Il che, però, non torna del tutto. Infatti, a differenza del Dada che si dichiarava beffardamente anti-arte, il punk non lo è affatto (semmai, a voler usare un’etichetta piuttosto in voga ancorché vaga, rappresentando una tipica espressione di ‘outsider art’), perché non nega l’importanza di opere o figure a cui riconoscere un valore, e tantomeno rifiuta aspirazioni comunitarie. Insomma, il punk è scappare di casa, sì, ma per andare in cerca di spazi dove trovarsi con amici e amanti, e dove non mancano altari domestici. Uno di questi spazi, in maniera esemplare, è l’opera di Manuel Cossu (La Spezia, 1976).

Manuel Cossu, Topolino, speciale Solitudine, 2019, tecnica mista su carta

Manuel Cossu, Topolino, speciale Solitudine, 2019, tecnica mista su carta

MANUEL COSSU, BATTERISTA DEI MANGES

Batterista dei Manges, storica band punk rock oggetto di culto a livello internazionale, insieme alla musica Cossu ha sviluppato un universo immaginale – espresso soprattutto attraverso disegno e pittura – ruvido e struggente, oggetto di crescenti attenzioni anche nel circuito espositivo ‘overground’. Centrale in questo universo è una figura archetipica di eroe-martire, quella di Dee Dee Ramone, una sorta di santo underground perennemente in bilico tra gioco e dramma, violenza e devozione; più in generale, al di là della sua superficie, colpisce nell’immaginario di Cossu una visionarietà profonda che è rimasta felicemente infantile, animata da sorprendenti quanto disarmanti ideali di purezza.
Quella che segue è un’intervista all’artista, raccolta intorno a un concerto tenuto a Roma lo scorso ottobre.

Come ti sei avvicinato alle arti visive?
Ho sempre disegnato prendendo spunto da quello che avevo intorno. Per esempio, da bambino ho passato tanto tempo in sale d’aspetto di studi medici perché mio padre era un tecnico radiologo, così leggevo un sacco di riviste, di quelle che appunto trovi nelle sale d’aspetto. Roba come Gente, Oggi, che è piena di immagini dure, grandi facce, corpi esposti e così via, per non parlare delle storie che raccontano: hanno una crudezza che ti picchia addosso, quella violenza in qualche modo mi è restata dentro. Poi, mi hanno condizionato tanto i fumetti.

Quali sono i tuoi fumetti di riferimento?
Alan Ford e Topolino. Il primo me lo mise in mano mia mamma, quand’ero piccolo, perché una volta in edicola non avevano il secondo. Alan Ford mi è sempre piaciuto perché sta nel mainstream ma senza essere mai il primo in classifica, come i Ramones, ecco. Di Topolino invece mi ha sempre ossessionato la perfezione formale, una cosa che mi è lontanissima, una bellezza che non mi appartiene. Io cerco la bellezza, però la rendo a modo mio: per esempio, nei miei disegni di Topolino parto da un modello che non riuscirò mai a riprendere alla perfezione, quindi una volta finito lo distorco ancora di più, cercando di andare all’osso delle figure. È come coi tatuaggi, quelli imperfetti hanno più tiro. Per esempio, ho avuto la fortuna di avere un amico che è stato in carcere quindici anni e che aveva dei tatuaggi bellissimi, per me sono stati una grande ispirazione.

Nel corso degli anni hai sviluppato una vera e propria collezione di Topolino ‘distopici’: qual è l’idea alla base della serie?
Come ti dicevo da bambino mi capitava di leggere di tutto sui rotocalchi, cose tremende tipo le cronache da Chernobyl o dei drogati al parco Lambro, la morte di Alfredino Rampi (che aveva la mia età quando è morto), tutto mescolato insieme con le immagini, e per gestire questi grandi eventi per me incomprensibili avevo bisogno di spostare le storie in un contesto diverso, sacro, cosa che ho continuato a fare fino a ora. Per me Topolino è sempre stato questo, uno spazio di purezza e tranquillità dove tutto va sempre bene: voglio dire, quando stai male da bambino ti regalano un numero di Topolino per tirarti su, che ti faccia compagnia col suo ottimismo. Poi, chiaro, infetto i disegni con la mia personalità, però la mia intenzione è sempre quella di salvare qualcosa.

Manuel Cossu, The Cross, 2014, acrilico su legno, cm 100x130

Manuel Cossu, The Cross, 2014, acrilico su legno, cm 100×130

MANUEL COSSU E DEE DEE RAMONE

Quali sono le altre fonti della tua arte, oltre ai fumetti?
Non ho una formazione o una cultura organizzata, ma tra gli artisti più conosciuti posso dirti che mi ha sempre colpito Philip Guston. Pure lui aveva tanto a che fare coi fumetti: mi piace il fatto che quando ha girato verso uno stile molto più fumettoso la critica gli si è messa contro, e lui se ne è sbattuto. Neanche adesso lo hanno ancora capito bene, vedi la storia recente della sua mostra messa in attesa. Anche Francis Bacon è molto forte. Ah, e Leon Golub, che è grandissimo, radicale: i suoi mercenari sono una delle cose più potenti che abbia mai visto. Poi c’è la letteratura, James Ellroy mi ha cambiato la vita. Comunque per me l’ispirazione fondamentale è sempre stato Dee Dee Ramone.

Perché?
Per me Dee Dee è stato come un amico immaginario, non mi ha mai deluso o tradito. È stato come Gesù Cristo, uno che non si è mai goduto il successo, ma neanche l’insuccesso, passando la vita sempre in mezzo alla sofferenza. Come un santo. Ora che ci penso, a proposito di letteratura anche le vite dei santi mi piacciono, di solito sono storie semplici ma anche loro hanno tiro: sono lezioni di vita immediate, che valgono sempre. Prendi San Martino, taglia il mantello e non serve altro per esprimere l’altruismo. Oppure Santa Cristina, che ha resistito a torture tremende senza rinnegarsi: lo stesso succede anche adesso, tutti i giorni, in carcere per esempio. Poi comunque Dee Dee l’ho conosciuto.

Com’è andata?
Verso la metà degli Anni Novanta, quando avevo vent’anni, mi sono messo a fare tantissimi disegni che volevo regalargli di persona. Allora ho risparmiato un anno intero e alla fine sono riuscito ad andare una settimana a New York per portargli i disegni, lo aspettavo tutti i giorni davanti al Chelsea Hotel. Quella volta non ce l’ho fatta a vederlo, ma almeno ho incontrato Arturo Vega, il suo amico che faceva la grafica dei Ramones: i miei disegni gli piacquero un sacco e li mise nel sito del gruppo. E poi da lì sono entrato in contatto con Dee Dee, una volta mi ha anche regalato la sua maglietta.

Su cosa stai lavorando in questo momento?
Per me disegnare è compulsivo, lo faccio di continuo, e a volte trovo una via in cui incanalare questo flusso. Per esempio adesso sto facendo dei disegni sui bugiardini dei farmaci, ormai sono centinaia. Mi sa che è venuto fuori tutto dal fatto che da piccolo soffrivo di deficit di attenzione, quindi a maggior ragione i bugiardini m’impressionano perché rappresentano l’essenza di quello a cui devi stare attento, tutte quelle istruzioni scritte in bianco e nero che ti dicono cosa devi fare per curarti. Così cerco una contrapposizione tra quello che è il massimo ordine possibile e l’immaginazione, il mondo che sta intorno nel suo disordine, tutto quello che ti porta via mentre devi stare attento a qualcosa. E io mi faccio portare.

Luca Arnaudo

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Luca Arnaudo

Luca Arnaudo

Luca Arnaudo è nato a Cuneo nel 1974, vive a Roma. Ha curato mostre presso istituzioni pubbliche e gallerie private, in Italia e all'estero; da critico d'arte è molto fedele ad Artribune, da scrittore frequenta forme risolutamente poco commerciali, come…

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