Nel cuore della pittura. Intervista a Gioacchino Pontrelli

Parola a Gioacchino Pontrelli, pittore salernitano classe 1966, in mostra ancora per qualche giorno nella galleria di Francesca Antonini a Roma.

Che cosa ti viene in mente se dico “pittura”?
È lo studio dove vivo e la casa dove lavoro.
È il medicinale salvavita.
È quello che mi sfugge di me e non riesco a comprendere in altro modo.
È il luogo dove riemergono i sogni che non ricordo mai quando mi sveglio, è lo spazio tra l’intenzione e l’errore che a volte diventa la parte inaspettata, la scoperta che dà senso al tentativo di fare.
È la cosa che mi fa sentire a mio agio e dove posso esprimermi liberamente, per dare spazio alle infinite possibilità di visioni o percezioni del mondo. È l’unico modo che conosco per scrivere il mio racconto.
È la superficie davanti alla quale mi incanto se sopra c’è un’opera bellissima.
Come diceva Giacinto Cerone pensando all’arte, è quella cosa che ti fa camminare a dieci centimetri da questa palla di merda.

Werner Herzog è noto per essere un visionario, eppure ha sostenuto che nel suo cinema non c’è invenzione ma la vita stessa, la sua vita. Per lui il cinema deve avere una base decisiva di esperienza di realtà. È lo stesso nell’arte?
Per me è fondamentale, gli artisti che partono da questo presupposto sono quelli che trovo più interessanti ed emozionanti, mentre faccio molta fatica di fronte a concetti che chiaramente non appartengono all’epidermide dell’artista, ma rispondono a richiami d’attualità e di moda.
L’ultima mostra ancora in corso alla galleria Francesca Antonini di Roma, dal titolo Non Chiedere, sottolinea come io non possa prescindere dalla mia vita e dalla libertà conquistata di riuscire a tradurla in Pittura, senza soffocarla in significati altri. Ho imparato a riconoscere le forzature e le speculazioni.  Molti critici e curatori fanno fatica ad accettare artisti non facilmente circoscrivibili, fuori dai perimetri che hanno creato loro stessi.
Probabilmente a volte sarebbe più semplice guardare e sentire l’incanto del mondo, svuotando la testa da condizionamenti esterni all’opera.
Amo sempre di più Come spiegare un dipinto a una lepre morta di Joseph Beuys.

Gioacchino Pontrelli, Paesaggio caduto n. 2, 2013

Gioacchino Pontrelli, Paesaggio caduto n. 2, 2013

Colori.
Sono il linguaggio universale comprensibile in ogni angolo della terra.
La sciarpa blu elettrico che mi hanno regalato da indossare con la giacca marrone, il risotto con la rapa rossa che cucina spesso una mia amica, il marrone con riflessi arancio del pelo di Benji, il mio cane.
Verde smeraldo e marrone, grigio scuro e giallo acido, rosa e verde vescica, le mie giornate sono una sequenza ininterrotta di accostamenti cromatici.
Sono infinite possibilità. Ho accostato mille volte un nero a un giallo ma ogni volta per fortuna è stato diverso, nuovo.
Ho la costante sensazione di capirli sempre di più nel corso degli anni e allo stesso tempo di scoprirli, e vederli, solo adesso.

Quanto è grande lo spazio di un quadro?
Di quanti millimetri è fatto il mondo? è il titolo di un mio lavoro e una domanda che mi fece mio figlio da bambino. L’ho usato per amor suo e perché mi ha fatto riflettere sulla difficoltà di misurare, spiegare o definire moltissime cose.
Mi scorrono immagini di tante opere, ho davanti ai miei occhi le grandi tele antiche nei musei, mi viene in mente Katharina Grosse e le sue gigantesche installazioni pittoriche, poi non posso non pensare a Giorgione che, nei suoi spazi così ridotti, ha una potenza immensa. Una volta facevo quasi solo quadri enormi, poi negli anni mi sono misurato con dimensioni molto piccole perché mi piaceva l’idea che si scoprisse il soggetto solo dopo essersi avvicinati al perimetro del quadro, fino a entrarci.
Le dimensioni diventano relative allo spazio e alla percezione, il mio desiderio è semplicemente fare quadri a misura d’uomo.

Guardi i lavori di altri artisti?
I lavori degli altri che mi attraggono sono dei luoghi dove mi perdo e scopro altro, cose sconosciute alla mia sensibilità. Spesso non sono dei quadri e la lista è lunga e cangiante. Non ho riferimenti stabiliti ma artisti che, con il loro lavoro, mi hanno accompagnato e segnato in momenti diversi. Un artista che mi è rimasto nel cuore è Félix González-Torres, per la sua capacità di raccontare il tempo e l’opera che si consuma fino a scomparire, come la vita. E lo fa senza clamore. Le sue opere ti lasciano spazio e marcano una distanza dall’inquinamento venefico di rumori e immagini nel quale stiamo affogando.

Gioacchino Pontrelli, Mamma, 2016

Gioacchino Pontrelli, Mamma, 2016

Negli Anni ‘90 dov’eri? Se ti mostro una foto di allora ti riconosci? Cos’hai lasciato e cosa ti sei invece tenuto vicino? Per chi era altrove, quegli anni sono percepiti come un momento straordinario, con tanti artisti che si affacciavano nel mondo dell’arte e curatori giovani che scommettevano sulla loro generazione. Le aspettative erano alte, ma qualcosa sembra non aver funzionato. A oggi è ancora difficile parlarne. Dove eravate tutti?
Ero alla periferia di Roma e mi sentivo piccolo e sprovveduto, non conoscevo niente se non le cose che avevo imparato ad amare al liceo artistico, poi ho iniziato a conoscere gli artisti e i curatori. Ho preso lo studio in una zona centrale, a Santa Croce in Gerusalemme. Nelle foto dell’epoca ero sicuramente molto meno bello di adesso, non mi riconosco. Stranamente però le cose che credevo di aver lasciato le sto ritrovando piano piano, con l’esperienza e con la capacità acquisita di mantenere un distacco dalla parte più faticosa e meno interessante del mondo dell’arte. Recentemente ho ritrovato in studio una vecchia tela di quegli anni, che non ricordavo di aver dipinto. È molto più vicina alla mia pittura di oggi che a quella di quel periodo. Tutto è accaduto non in linea retta ma attraverso un lunghissimo giro, nel quale mi sono spesso perso. Eravamo e siamo a Roma e semplicemente ci siamo trovati ad attraversare varie vicende non solo artistiche, in un contesto che mutava. Erano gli anni in cui il centro si spostava giù al nord. Era l’epoca di Flash Art, di Brera e delle gallerie giovani e rampanti e noi, insieme alle macerie politiche, siamo stati sommersi dalla polvere. Anni bellissimi e complicati. Oggi è come avere un piatto caldo dopo giorni di digiuno e di freddo, intendo dire che per me conta solo il fatto di essere qui e di poter dipingere ancora.

Esiste una generazione o esistono delle relazioni che rendono vicine persone diverse?
Le relazioni senza dubbio, spostano tutto sull’oggi e rendono le generazioni il passato.

Gioacchino Pontrelli, Che tu ci creda o no, 2018

Gioacchino Pontrelli, Che tu ci creda o no, 2018

Che rapporto hai con il Tempo?
È lo spazio vuoto tra una cosa e l’altra.
Vorrei non averne perso…. Ma ho sempre la sensazione che è così.
Avrei voluto leggere molti più libri, fare più viaggi, più quadri, più tutto.
Aspettare i momenti in cui perdi la percezione del tempo che trascorre, quando dormi, mangi, fai all’amore, dipingi, porti a spasso il cane, guardi la partita della Roma insieme a tuo figlio e sogni di vincere la Champions League.

Cos’è un artista adesso?
Per me essere un artista è ancora una cosa privata e meravigliosa. Nel tutto che cambia, nel sistema dell’arte spettacolarizzato continua a esserci ricerca e sperimentazione. I confini si sono allargati a dismisura e i riferimenti per un artista sono sempre più ampi. La Cina, l’india e l’Est negli Anni Novanta erano luoghi esotici, c’era la memoria del One Hotel di Alighiero, degli Anni Settanta, e poco altro. Ci sono le mode, le convenzioni, le artistar e gli sconosciuti. Ma alla fine la domanda per tutti è solo una: cos’è un artista? Me lo chiedo spesso ma non sempre è facile rispondersi, a volte emerge il dubbio sull’utilità di quello che faccio. Per fortuna lo spaziotempo arriva in mio soccorso e non mi pongo più certe domande. Mi concentro sul fare, è importante per me. Ogni artista, grande o piccolo, famoso o meno, deve rendere conto solo del suo lavoro e della sua onestà artistica e intellettuale. Altrimenti il rischio è di perdersi.

C’è la Storia nella tua pittura?
Céline scrive che niente è più potente degli odori per attivare la memoria, la memoria è la tua, la mia storia. Quando ho letto La Storia di Elsa Morante ho avuto la sensazione di qualcosa a me molto vicino, come di un’esperienza conosciuta, vissuta. Avevo voglia di andare a San Lorenzo, non lontano da dove abito, a vedere quello che vedevo nel libro, ad annusare l’aria e a cercare il cane scomparso dopo il bombardamento. In qualche modo tutto questo finisce nei miei quadri. Magari ritrovo Blitz ma non è detto che sia un cane, più facile che sia un colore. Se la storia è fatta anche di sensazioni, allora i miei dipinti ne sono pieni.

Gioacchino Pontrelli, Ho ricostruito l'incanto, 2016

Gioacchino Pontrelli, Ho ricostruito l’incanto, 2016

Cosa ti ispira?
Il mio desiderio più grande è farmi ispirare da tutto.
Cerco di allargare l’orizzonte visivo e sentimentale per trovare altro da dipingere.
Quello che mi interessa è il racconto delle mie emozioni e lo faccio passando attraverso immagini riconoscibili, perché sono la strada che serve a me e a chi guarda per sentire e vedere qualcos’altro.

Quando un’opera è davvero finita?
Difficile dirlo, varia molto, ci sono quadri che non finiscono mai, altri che finiscono quando vengono venduti, altri quando si crea una distanza impossibile da colmare e altri ancora che vengono dimenticati. Ogni tanto succede un miracolo, mi fermo per stanchezza e penso a cosa devo fare il giorno dopo, la mattina mi sveglio faccio il caffè e scopro che il quadro è finito.

Chi è per te il fruitore ideale di una tua opera?
È una persona che non ha fretta, che ama perdersi nei particolari e nelle sovrapposizioni dei miei quadri, tanto quanto me. È qualcuno che sa aspettare con fiducia, perché la relazione con un quadro non si consuma rapidamente, dopo un primo sguardo. Spesso parlo di sensazioni definendo la mia pittura, mi piace pensare che sia una persona curiosa, disposta a leggere un dipinto non solo con gli occhi ma anche attraverso una disponibilità empatica.

Cos’è il fallimento?
È una cosa preziosa, un’opportunità di riscatto. Ti impone di reagire come al dolore per una perdita o alla sofferenza per amore. La vedo come un’occasione di crescita, quindi mi piace e non esiste come negatività.

Claudio Libero Pisano

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