Armory Show e non solo. Cosa ci è piaciuto della settimana dell’arte di New York

A contribuire alla riuscita dell’art week che ruota attorno all’Armory Show sono stati soprattutto le fiere collaterali e gli eventi in città, di cui vi parliamo in questo best of

Il mondo dell’arte lascia una New York bollente e piovosa dopo una settimana di appuntamenti che, da quando nel 2021 l’Armory Show si è spostato da marzo a settembre, segna l’inizio della stagione artistica autunnale negli USA. Per il terzo anno consecutivo, l’Armory Show, che nel 2024 festeggerà il 30esimo anniversario, si è svolto nei padiglioni del centro congressi Javits. Nonostante alcune assenze importanti tra gli espositori, la fiera si è confermata un appuntamento cruciale per gallerie e collezionisti ed è riuscita ad offrire al pubblico uno spaccato del momento di sospesa interrogazione in cui il mondo dell’arte sembra essere entrato dopo i travagli interiori degli ultimi anni. Fuori dallo Javits Center, la costellazione di fiere collaterali e le decine di eventi tra le gallerie della città hanno contribuito a dare vita a una art week frizzante, seppure non memorabile. Ecco cosa ci è piaciuto di questa settimana dell’arte newyorchese.

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Photofairs

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La diaspora italiana

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L’arte tessile

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L’arte upcycled

Fa piacere vedere un appuntamento fotografico aggiungersi allo spesso troppo omogeneo panorama delle fiere. Già radicata a Shanghai dal 2014, Photofairs lancia la sua prima edizione newyorchese fianco a fianco con l’Armory Show, scegliendo non solo le stesse date, ma la stessa sede. Meno affollati di quelli dell’Armory, i padiglioni del Javits Center che hanno ospitato i 90 espositori internazionali specializzati in fotografia offrivano un’esperienza più distesa in cui prendersi il tempo di soffermarsi sulle storie raccontate dalle immagini in presentazioni di forte impegno come quelle del collettivo artistico For Freedoms o quelle di Marcelo Brodsky in mostra da Rolf Art. Negli spazi della milanese Montrasio Arte, unica italiana presente, che quest’anno ha puntato sulla fotografia e preferito Photofairs all’Armory, le composizioni poetiche di Luigi Ghirri si affiancano a quelle più politiche di Antonio Ottomanelli, mentre sulla parete esterna si affacciano i surreali ritratti che negli anni ’60 Angelika Platen scattava ad artisti nascenti come Walter De Maria.

Opere di Luigi Ghirri in mostra negli spazi di Montrasio Arte a Photofairs. Foto: Maurita Cardone
Opere di Luigi Ghirri in mostra negli spazi di Montrasio Arte a Photofairs. Foto: Maurita Cardone

Se tra le gallerie arrivate dall’Italia per l’Armory si è notata qualche grande assenza (mancavano Alfonso Artiaco, Cardi, De Carlo e Mazzoleni, habitué di questo appuntamento), a farsi notare sono stati invece gli artisti italiani della diaspora, quelli che da anni vivono e lavorano a New York e che portano nel panorama americano la propria personale espressione dell’esperienza italiana. Esposti negli spazi della Luis De Jesus Gallery c’erano lavori di Federico Solmi che, attraverso medium diversi, giocano con diversi livelli di fisicità e realtà del mondo surreale creato dall’artista, caricatura della decadenza di un impero che è Roma antica quanto l’America contemporanea. Da Peter Blum ci sono invece opere di Luisa Rabbia, alcune appena realizzate, altre selezionate da una serie recentemente esposta in una personale della stessa galleria intitolata Inferno. Qui l’inferno non è quello dell’allegoria sociale dantesca bensì quello concretissimo del dolore personale, un inferno privato a cui l’artista dà corpo col colore. È all’Armory con la Galleria Massimo Minini-Francesca Minini, invece, Francesco Simeti, i cui due lavori in mostra accoglievano i visitatori all’ingresso dello spazio espositivo: due porcellane del 2023 in cui l’organicità dei corpi vegetali che l’artista rappresenta si cristallizza in forme che diventano astratte.

Lavori di Federico Solmi esposti da Luis De Jesus Gallery all’Armory Show. Foto: Maurita Cardone
Lavori di Federico Solmi esposti da Luis De Jesus Gallery all’Armory Show. Foto: Maurita Cardone

A lungo sminuita da rigide classificazioni che la relegavano nell’artigianato, la fiber or textile art sta rivendicando la sua unicità e conquistando spazi di visibilità. Tra gli stand delle oltre 200 gallerie arrivate all’Armory da 35 paesi del mondo, erano tante le opere realizzate con stoffe, filati, tessuti, con le tecniche più diverse e attingendo alle più diverse tradizioni. Materiali diversi diventano veicoli delle più varie storie, identità ed estetiche, dalle composizioni minimali, astratte e concettuali di Analia Saban, alle forme e materiali organici delle  stratificazioni pop di Sagarika Sundaram, per arrivare alla fisicità impacciata di un totem di tessuti di Vanessa German o alla leggerezza eterea degli arazzi con cui Pae White, in mostra nella sezione Platform per Jessica Silverman, allude alla pesante storia dell’industria tessile. La flessibilità di questi media trova espressione in opere capaci di evocare tradizioni ancestrali e un legame profondo con il femminile.

L’opera sotto voce, di Pae White, esposta per la sezione Platform dalla galleria Jessica Silverman
L’opera sotto voce, di Pae White, esposta per la sezione Platform dalla galleria Jessica Silverman

La questione ecologica sempre più si fa spazio tra le preoccupazioni degli artisti e del mondo dell’arte, tanto che se ne iniziano a vedere i segni anche nelle grandi fiere, eventi non proprio a basso impatto. I segnali positivi sono diversi, ma a quest’edizione dell’Armory Show quello che saltava agli occhi era soprattutto una crescente attenzione degli artisti al tema dei rifiuti e un gran numero di opere realizzate con ciò che, se non fosse finito in un’opera d’arte, era destinato a diventare rifiuto. È l’upcycling nella sua forma più alta. Tra gli esempi più riusciti di questa nobilitazione della spazzatura c’è il lavoro del senegalese Moffat Takadiwa, in mostra da Nicodim Gallery: preziosi arazzi i cui eleganti motivi geometrici sono realizzati tessendo insieme centinaia di tappi di penne, testine di spazzolini, fermacavi, tasti di computer, a formare vessilli che sono sottoprodotti del capitalismo, della globalizzazione e del potere coloniale.  Affronta gli stessi temi anche la colossale opera di Jean Shin esposta per la sezione Platform da Praise Shadow Art Gallery. L’artista crea un paesaggio di vecchi cellulari e cavi con cui mappa la storia del consumo tecnologico degli ultimi 20 anni, in una rappresentazione della nostra impronta ecologica se non estetica, certamente d’impatto.

Opere di Moffat Takadiwa, in mostra da Nicodim Gallery. Foto: Maurita Cardone
Opere di Moffat Takadiwa, in mostra da Nicodim Gallery. Foto: Maurita Cardone
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La diaspora italiana

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L’arte upcycled

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro. Dal 2011 New York è…

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