La critica d’arte è davvero al capolinea o si sta trasformando? Le risposte di Alberto Villa
Quella della scomparsa della critica è un'emergenza evidenziata da molti. Abbiamo coinvolto critici e studiosi di diverse generazioni per provare a fare il punto. Ne è emerso un dibattito serrato e non univoco, su diverse questioni: la critica può fare a meno della scrittura? Cosa differenzia un critico e un curatore? E infine, la critica d'arte può ancora essere una professione?
Pubblichiamo di seguito l’intervento del giornalista, critico e curatore Alberto Villa.
Prima di invitare la collega Caterina Angelucci a occuparsi di un contenuto di ampio respiro e corale dedicato allo stato di salute della critica d’arte sul numero 83 dell’edizione cartacea di Artribune, mi è sorta la stessa domanda che è probabilmente sorta a chi, in questi mesi, sta seguendo la riproposizione online di quello stesso contenuto: “Ancora?”. La risposta, inevitabilmente affermativa, è sovvenuta tanto spontaneamente quanto la domanda. Della crisi della critica d’arte parliamo ormai tantissimo, anche più di quanto facciamo critica. E forse la stessa esistenza di una critica della critica denota quanto questa disciplina sia stanca, situata più in una fase degenerativa che generativa.
Germano Celant non tornerà
Come nota Giulia Zompa, sono lontani i tempi della celebre “critica militante”: un’epoca d’oro che, per chi come me l’ha solo potuta studiare, assume i contorni sfumati di una leggenda epica. Ma come è vero che un’Iliade e un’Odissea – per quanto eternamente attuali – non ci saranno più, è altrettanto vero che chi auspica nella venuta di un nuovo Germano Celant per redimere la critica dal suo limbo si sta ponendo il problema sbagliato. La critica degli Anni Sessanta e Settanta è stata indubbiamente energica e prolifica tanto nel ratificare l’arte italiana fino a quel momento, quanto nel proporre e sostenere nuovi movimenti, nuovi pensieri, nuove modalità di infrangere le regole – e quindi riscoprire quello spirito che tanto caratterizza il Novecento culturale. Questo è stato possibile grazie a spinte che esulavano il mero panorama artistico, ma che erano sempre più ampie e si intrecciavano all’economia, alla politica, alla società in quanto organismo: il boom del dopoguerra, i moti del ’68, la corsa allo spazio, la crescita dei consumi, tutti fenomeni che oggi possiamo solamente guardare da grande distanza, e forse anche a mente più fredda.
Contro una critica passatista
Ma se non ci sono più – in Italia e più in generale in Occidente – condizioni in grado di far riemergere un clima culturale simile a quello di cui tanto si ha nostalgia, a cosa serve guardarsi così tanto indietro, alla ricerca di un lume che oggi non può avere stoppino? A cosa serve organizzare convegni e scrivere libri sullo “stato della critica d’arte in Italia” quando ci si ferma a considerare autori che lavoravano trenta, quaranta, cinquanta anni fa? Non voglio essere frainteso: lo studio del passato è sempre essenziale per costruire un futuro solido, ma è piuttosto triste pensare che per parlare della critica oggi dobbiamo fare i (grandissimi) nomi di Lionello Venturi, Carla Lonzi e Filiberto Menna. Il rischio, nel mitizzare queste figure, è quello di superare la loro storicizzazione e assumerle a modelli di interpretazione anche per mondi e situazioni che non appartengono loro.
Critica d’arte e riviste vanno ancora d’accordo?
Una conseguenza diretta è l’illusione che la critica si debba fare esclusivamente come si faceva mezzo secolo fa, e quindi soprattutto tramite testi pubblicati su riviste di settore o quotidiani autorevoli. Certo, le riviste esistono ancora, ma hanno forme molto differenti: da un lato, per sopravvivere, hanno dovuto optare per strategie diverse dall’approfondimento, facendo fronte alla bulimia informativa del nostro tempo e al panorama dell’informazione globalizzata mediata dai grandi motori di ricerca (una situazione che potrà solo intensificarsi, catalizzata dai sistemi di intelligenza artificiale); dall’altro lato trovare recensioni di mostre che siano più che meramente descrittive è sempre più difficile, e di questo non possiamo incolpare solo i lettori, né le tendenze di mercato – anche se nel 2025 pagare per accedere all’informazione sembra un’utopia, soprattutto per le fasce più giovani, abituate alla disponibilità gratuita e sempre aggiornata dei social network. Un altro motivo della dipendenza sempre più evidente delle riviste dall’industria pubblicitaria. E non è un caso solo nostrano. Basta sfogliare qualsiasi numero di Artforum (!) per rendersene conto: se va bene, le pagine di contenuto sono un quinto di quelle di pubblicità.
Pubblicità e diritto di critica
Il legame tra advertising e critica sulle riviste d’arte contemporanea è noto da tempo e centrale nel dibattito odierno, perché riduce di gran lunga la possibilità di una qualsiasi recensione negativa. Non c’è qui l’intenzione di proporre la critica esclusivamente come strumento di stroncatura, qualcosa che – per quanto radicata nell’immaginario comune – non è mai stato del tutto vero; si tratta invece di sottolineare il conflitto di interessi di tutta l’editoria d’arte attuale: da un lato ci sono i clienti commerciali, che garantiscono stabilità economica alla rivista e le permettono di proseguire nella loro mission informativa, divulgativa o critica che sia; dall’altro ci sono i lettori, senza i quali la rivista non esisterebbe in primis, e che giustamente richiedono imparzialità, trasparenza e onestà intellettuale. La conciliazione di questi interessi è centrale per il lavoro quotidiano di qualsiasi rivista, ma comporta scelte di linea editoriale non sempre facili.
Il mercato è la vera critica
Questo significa che non è più possibile fare critica sulle pagine delle riviste di settore? Certamente no, ma certa critica, quella più dura, più antagonista e quindi in parte anche quella che più instilla vitalità nel dibattito è sicuramente scomparsa. O taciuta. Con il tempo le riviste hanno dunque perso questo ruolo, che tuttora cerca casa. La critica bussa a tutte le porte, convocata periodicamente da articoli come questo, ma – come succede alla luna nella canzone di Loredana Bertè – non le apre nessuno. A questo punto è giusto chiedersi: a chi serve la critica, in particolare quella negativa? Non serve alle riviste, per i rapporti commerciali di cui si parlava prima; non serve agli artisti, che ovviamente – in una economia del like – sperano in recensioni solo positive delle loro mostre e del loro lavoro; non serve ai curatori, per il medesimo motivo. La critica dovrebbe servire ai collezionisti, che soprattutto in tempi di crisi come quello che stiamo attraversando cercano un faro così veementemente da diventarlo loro stessi. La vera critica, quella influente e capace di spostare gli assi, è indistinguibilmente sovrapposta al collezionismo, e quindi al mercato. Nella maggior parte dei casi sono i trend di vendita a determinare gli sviluppi artistici, e non il contrario. È una novità? Tutt’altro. È un’eterna verità che ora è solo più evidente, con la scomparsa del critico come figura capace di astrarsi dal sistema per rimanerne indipendente: una via che, come spiega bene Christian Caliandro, oggi non appare più percorribile. Dopotutto, anche le fiere – grandi protagoniste del mercato primario – si stanno trasformando in mostre di ampio respiro, ma pur sempre commerciali (vedi la prima edizione di Art Basel Qatar, in arrivo a inizio 2026).
Critica e curatela
Non mi soffermo più di tanto sulla questione del critico/curatore [il critico può essere anche curatore e mantenersi disinteressato? La curatela può essere affrontata come un’attività critica?] perché lo hanno già fatto altri in modo esaustivo e perché credo sia rilevante fino a un certo punto. Più che una questione di ruoli, la critica è una questione di postura: si può (e forse si deve) assumere una postura critica anche nell’attività di curatela, e in questo mi allineo all’intervento di Irene Sofia Comi su queste pagine.
La critica claudicante
L’annoso dilemma tra critica e curatela è solo l’ennesimo dei tanti acciacchi del discorso critico odierno, con tutte le conseguenze del caso. Quella attuale non è una critica che milita: è una critica che zoppica. Lo fa perché non può più incedere con l’andatura spavalda e sicura che la contraddistingueva in passato, ma deve assumere, appunto, una postura diversa. Dubbiosa del proprio ruolo, della propria necessarietà, del proprio pubblico e persino della propria natura, la critica, da militante, si ritrova ad essere claudicante, arrancando tra le forme più riconosciute e storicizzate del fare critica e le (pochissime) nuove vie.
Nuovi spazi per la critica indipendente
Ma quali sono queste nuove vie? Pare stia emergendo sempre di più, in ambito anglosassone soprattutto, l’autopromozione dei propri testi critici su piattaforme di blogging come Substack: certo, la scrittura indipendente non è mai scomparsa, ma in un momento come questo appare una risposta chiara alla crisi di molte riviste di settore, di cui sopra. I social network, per quanto snobbati da molti, non sono poi tanto da sottovalutare per quanto riguarda l’autopromozione e la diffusione di idee, anche oltre i confini geografici e linguistici. Tutto sta nel modo in cui vengono utilizzati e – soprattutto – nella scelta del social giusto: se da un lato Instagram, data la centralità dell’immagine, può effettivamente essere funzionale a chi parla d’arte, la spinta a creare contenuti veloci e a limitare il testo sta piuttosto stretta a chi – giustamente – ritiene la critica una forma di approfondimento; Substack, che invece è incentrata sulla scrittura eventualmente accompagnata da immagini (quindi nulla di differente da un articolo di una rivista online, nel formato), è molto più affine alle necessità della critica, e dunque anche più funzionale per chi è interessato a leggerla al di fuori dei canali più istituzionali. Tra i profili italiani da seguire, sento di segnalare quello di Michele Dantini, per la qualità della scrittura e la trasversalità delle tematiche affrontate.
Apologia delle interviste
Tutto questo dando per scontato il fatto che la critica debba necessariamente essere identificata dalla scrittura e, soprattutto, da certa scrittura. Nel 2025 ritenere il formato dell’intervista incapace di adempiere al “ruolo interpretativo” della critica, soprattutto dopo certa letteratura illustre come Autoritratto di Carla Lonzi, è a dir poco limitante. Come ricordava Santa Nastro in un articolo di un paio di anni fa, una buona intervista è tutt’altro che acritica, e non è neppure la “scorciatoia” che molti pensano. Senza considerare alcuni vantaggi di leggibilità e dinamicità del testo, caratteristiche che in molti scritti, fin troppo desiderosi di darsi un tono di serietà, vengono tragicamente a mancare. Anche in questo risiede la zoppia della critica: nel suo prendersi troppo sul serio, e quindi nella necessità di doversi ratificare da sola. E non perché nessun altro sia in grado di farlo, ma perché è arrivata a ritenersi l’unico pubblico di se stessa, e quindi a costituirsi in quanto tale.
Chi va con lo zoppo…
Non credo, tuttavia, che da questo claudicare possiamo trarre solo aspetti negativi: accorgersi di avere un passo diverso dal passato ci permette di guardare alle cose da una prospettiva nuova, con un ritmo nuovo, seppur altalenante. Se i detti popolari hanno ragione, una zoppia della critica è anche una zoppia della pratica artistica tutta, afflitta dall’assenza di piattaforme di scambio e di confronto attivo. Ragioniamo quindi sulla crisi della critica, e sul rischio di un suo trasformarsi in storiografia e poi archeologia della critica, per riflettere sulla crisi del discorso artistico. A cosa servono convegni e retrospezioni, quando abbiamo bisogno di tornare a fare critica per tornare a fare arte in un modo dialogico con gli occhi puntati sull’oggi? Una soluzione è quella di riportare il discorso artistico e critico in spazi comuni, circoli aperti, privi di gerarchie: è quello che ha fatto Antonio Grulli in alcuni incontri, ma che andrebbe messo a sistema, imitato e diffuso. Un’altra è quella di proseguire quella vitalissima mappatura degli artisti emergenti iniziata dalla Quadriennale di Gianmaria Tosatti, e poi tristemente interrotta. Un’altra ancora sono i tentativi di ratificare il presente, prendendosi anche dei rischi e delle responsabilità nel farlo: è il caso, per esempio, di mostre come Pittura italiana oggi alla Triennale di Milano (2023-24) a cura di Damiano Gullì, e oggi in tournée in Sud America. Esempi validi, che testimoniano l’interesse per un certo modo di lavorare, ma ancora troppo sporadici per potersi definire più del “piede sano” del nostro attuale zoppicare. E il piede incerto si conferma, ancora una volta, la scrittura: una professione sempre più svuotata della sua vocazione per necessità di sopravvivenza economica. Ricominciamo a diffondere e a incontrarci. Chiedo a chiunque legga questo testo di condividere appuntamenti e occasioni in cui questo avviene: l’obiettivo è creare rete e sistema, per tornare a parlare non solo della critica, ma soprattutto dell’arte. Perché senza arte non c’è critica, e viceversa.
A cura di Caterina Angelucci
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