I primi 5 anni di Andrea Lissoni alla Haus der Kunst di Monaco. L’intervista

In occasione della mostra “For Children” da poco inaugurata, abbiamo incontrato il curatore italiano alla direzione del museo tedesco dal 2020. Che ha risollevato dalle sue difficoltà

Mentre sempre più musei strizzano l’occhio al mondo dei bambini e delle famiglie, mettendo in scena mostre immersive ed esperienziali adatte a un pubblico “della domenica”, la Haus der Kunst di Monaco di Baviera prova ad aggiungere un nuovo livello di lettura a questa tendenza. Succede con la mostra For Children. Art Stories since 1968, un’esposizione multisensoriale dedicata al ruolo dei bambini nell’arte contemporanea. Di diverso rispetto alle rassegne sopra annunciate c’è che non si tratta di una mostra-playground, o almeno, non solo: tra le sale dell’istituzione bavarese ci si diverte, certo; le opere si possono toccare e l’interazione in alcuni casi non è un’opzione, ma una richiesta. Tuttavia, a scorrere la lista degli artisti e le finalità dei pezzi inclusi nel tragitto di visita, il progetto sembra più adatto a un pubblico adulto, chiamato a cogliere i riferimenti storici e sociologici toccati dalle singole opere. Insomma, il mondo dei bambini è chiamato in causa in maniera molto verticale all’interno del progetto, ma è utilizzato come “strumento” di racconto per approfondire tematiche e questioni che riguardano soprattutto la sfera dei grandi.

andrea lissoni photograpy by maximilian geuter I primi 5 anni di Andrea Lissoni alla Haus der Kunst di Monaco. L'intervista
Andrea Lissoni. Photograpy by Maximilian Geuter

La nuova mostra alla Haus der Kunst di Monaco

Aperta fino al 1° febbraio del prossimo anno, e curata da un team guidato dal direttore del museo Andrea Lissoni, la mostra indaga le motivazioni e le modalità attraverso cui gli artisti internazionali hanno posto il pubblico giovane al centro delle loro opere nell’arco degli ultimi decenni. I nomi coinvolti sono tanti, in alcuni casi ben noti – Ernesto Neto, Bruce Nauman, Ana Mendieta e Olafur Eliasson, in altri meno familiari al grande pubblico, come Neha Choksi, Basim Magdy e Afrah Shafiq. Ad accomunare ognuno di loro è l’osservazione del mondo dell’infanzia, e l’elaborazione di opere che riflettono sul ruolo dei bambini nei processi creativi contemporanei, nonché sul loro contributo alla definizione del mondo di domani. Per parlare di tutto ciò abbiamo incontrato Andrea Lissoni, alla direzione del museo dal 2020.

L’intervista al direttore della Haus der Kunst di Monaco Andrea Lissoni

La tua carica come direttore della Haus der Kunst di Monaco è partita il 1° aprile 2020. Com’è andato questo primo periodo di attività?
Dato che i primi due anni di lavoro sono stati pesantemente condizionati dal Covid, considero la mostra di Fujiko Nakaya del 2022 come il vero momento di inizio del mio programma (anche se l’apertura di quel progetto era stata anticipata dal lancio di Tune, il format di residenze dedicate a musicisti e artisti del suono). Al momento del mio ingresso gli obiettivi erano portare solidità in una istituzione che ne avevano persa molta, e creare vicinanza con il pubblico. Direi che ci siamo riusciti anche più di quanto sperassimo. E i numeri lo dimostrano: abbiamo avuto un crescendo che ci ha portato l’anno scorso ad avere 440mila visitatori, che per una città di medie dimensioni come Monaco è tanto.

Parli di risultati sopra le aspettative. Dunque ti chiedo: cosa non ti aspettavi?
Forse quello che non mi aspettavo era di avere così tanti progetti prodotti internamente che circolano fuori dalla Germania. In questo momento abbiamo la mostra di Rebecca Horn al Castello di Rivoli, mentre a settembre aprirà la mostra Inside Other Spaces all’M+ di Hong Kong, dopo il successo ottenuto al MAXXI di Roma lo scorso anno; e ancora in autunno sarà la volta di Shu Lea Cheang al Ludwig Forum di Aachen. E poi la personale del 2024 di Liliane Lijn (in corso alla Tate St Ives) e quella di Katalin Ladik (che è stata prima retrospettiva in Germania, successivamente esposta al Moderna Museet di Stoccolma). Insomma, non mi aspettavo che fossimo in grado di produrre così tante mostre che potessero viaggiare e avere successo fuori dalla nostra Haus der Kunst.

La Haus der Kunst di Andrea Lissoni

Al tuo arrivo non si può dire che il museo stesse attraversando il periodo migliore, tra problemi finanziari e discontinuità nella direzione. Che istituzione hai trovato, e a cosa pensi di aver contribuito positivamente in questo primo quinquennio?
Penso che la cosa principale sia stata portare l’istituzione in “altri luoghi”, facendo leva su tre aspetti. Il primo è l’attenzione alla provenienza degli artisti selezionati: negli ultimi anni ci siamo aperti molto all’Asia, e in futuro guarderemo con attenzione all’America Latina; questo significa che gli artisti non provengono più in prevalenza dagli Stati Uniti o dai Paesi africani. Il secondo aspetto è che abbiamo deciso di escludere o ridurre al massimo le spedizioni. Le nostre mostre sono prodotte quasi esclusivamente in loco, e quando decidiamo di far spedire opere provengono tutte da un’unica fonte (ad esempio, nel caso di Liliane Lijn tutto proveniva dal suo studio, mentre per Rebecca Horn ci siamo interfacciati prevalentemente con la sua fondazione). Rispetto invece al rapporto con il pubblico abbiamo fatto uno straordinario investimento in quello che si chiama engagement, sia digitale che partecipativo.

Spiegami meglio…
La nuova gestione dei social media ci ha portato ad avere una rete di interazione molto più solida, raggiungendo 110mila follower su Instagram: è sicuramente un piccolo dato che dimostra la credibilità e l’affezione del pubblico nei confronti dell’istituzione. Alla componente digital abbiamo unito una serie di attività specificatamente dedicate alle persone che vogliamo diventino il nostro pubblico di riferimento: workshop per bambini orientati alla creazione di opere poi esposte, momenti di cooperazione con rilevanti partner locali, e non ultimo l’inserimento di colleghe responsabili del dipartimento educativo all’interno del team curatoriale delle mostre, come nel caso di For Children da poco inaugurata.

Passato e futuro della Haus der Kunst

Ricordo una tua foto di qualche anno nella quale sei ritratto con i piedi nell’acqua del vicino canale Eisbach: un modo per rompere con una certa immagine di compostezza istituzionale, dichiarando sin dal principio la volontà di recuperare e trasmettere quella vivacità che il museo aveva smarrito.
Quell’immagine conserva tanti significati. Innanzitutto voleva essere un rimando all’enorme energia che viene dall’Eisbach, il canale che scorre vicino al museo, nota meta dei surfisti. Inoltre era un tentativo di manifestare un’altra idea di solidità: l’importanza di avere i “piedi per terra”, pur essendo all’interno di una condizione liquida, in cui tutto può fluire e trasformarsi.

Che impatto ha avuto questa ricetta a livello locale?
Ti do un dato: nel 2024 il 60% del nostro pubblico ha avuto meno di diciott’anni.

Basterebbe pescare tra le mostre di questi ultimi anni per comprendere la direzione che hai dato al museo: WangShui, Pussy Riot, Shu Lea Cheang. E poi le “sound residency”, brevi residenze d’artista tra suono, musica e arti visive, lo spazio d’incontro e scambio nella Mittelhalle, e i cambiamenti interni con dipartimenti molto più fluidi e interconnessi. Che futuro hai in mente per il museo?
Più o meno una volta all’anno lavoriamo con artisti che hanno una rilevanza nel panorama tedesco, ma che non hanno goduto fin qui di grande considerazione. Così è stato per Heidi Bucher, Alva Noto e Rebecca Horn, e così sarà per Sandra Vásquez de la Horra, di cui a novembre inaugureremo una mostra. I lavori di Sandra arriveranno tutti da Berlino; molti sono stati disegnati appositamente, altri sono storici e presentano una prospettiva inedita sull’artista. In ogni caso si tratta di opere provenienti da un unico luogo, che come dicevo è un aspetto molto importante, anche in ottica futura. Dare spazio all’indigenità senza necessariamente dover spedire opere da Paesi oltreoceano è una delle linee di programma dei prossimi anni. In senso più ampio, puntiamo a mantenerci rilevanti culturalmente e socialmente, sempre in dialogo con le scene sperimentali e di ricerca.

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Harun Farocki, Bedtime Stories Bridges, 1977 © Harun Farocki 1977

La nuova mostra sulle opere per bambini alla Haus der Kunst di Monaco

La mostra da poco inaugurata – For Children. Art Stories since 1968 – sembra sintetizzare al meglio la tua visione, scegliendo il mondo dell’infanzia come spunto per riflettere su temi universali come l’umanità, la società, l’ecologia e il futuro. Me ne parli?
La prima cosa da dire è che la mostra presenta opere concepite per bambini, ma non opere che rappresentano bambini. Un altro aspetto da chiarire è che non vuole essere una mostra-playground. Il punto di partenza di questo progetto è un’ossessione personale: quella per i cortometraggi di Harun Farocki, presenti nel percorso espositivo. Si tratta di brevi film fatti per e con le figlie nei primi Anni Settanta, nell’arco di cinque anni. Quando li ho visti la prima volta più di dieci anni fa sono stati una rivelazione. A partire da queste opere mi sono chiesto: cosa succede quando un artista fa un lavoro esplicitamente per bambini? Non “con” i bambini, ma “per” i bambini? Più cercavo risposte a questa domanda e più trovavo opere straordinarie di artisti con cui stavo lavorando: The Juniper Tree di John Jonas, le “ninne nanne” di Meredith Monk, i molti lavori di Philippe Parreno. La scommessa è stata provare a guardare questa mostra come il secondo capitolo di Inside Other Spaces, rassegna dedicata agli ambienti spaziali realizzati da artiste tra il 1956 e il 1976. In questo caso sono presenti lavori che partono dal 1968 e arrivano ai nostri giorni. L’idea era proprio osservare la storia dell’arte da una prospettiva diversa, soffermandosi solo sulle opere concepite per un pubblico di bambini e adolescenti.

La mostra però non è “solo” per bambini…
Certamente! È per tutti, non escluso storici dell’arte; in questo senso il sottotitolo Art Stories since 1968 è un invito a ripensare alle molte e altri possibili “storie”. Ne è un esempio la stanza con il lavoro di Yto Barrada: un progetto che riflette sulla storia del colonialismo in Marocco attraverso blocchi di legno colorati che rimandano ai colori tipici delle case locali, richiamando la figura di Hubert Lyautey, colonnello al potere nel Paese ossessionato con il modernismo e con l’architettura razionalista. Ancora più complesso è il lavoro di Jan Peter Hammer sulle forme di educazione nella società post-capitalistica, o quelli di DIS e Bruce Nauman. Ci sono livelli di lettura molto diversi tra loro, in un progetto che vuole essere soprattutto transnazionale. Su un piano più personale penso che questa mostra può essere vista come una straordinaria rassegna sulla storia della scultura degli ultimi cinquant’anni, in tutte le sue forme.

L’interattività è indubbiamente una delle chiavi di lettura dell’esposizione. In qualità di curatore della rassegna, che tipo di esperienza ti interessa regalare al pubblico?
Quello che vorrei lasciare è quello che ho imparato nell’esperienza alla Turbine Hall della Tate Modern. Lì ho visto bambini muovere i primi passi, gattonare, e lo facevano sempre circondati da opere incredibili – come quelle di Philippe Parreno, del collettivo Superflex, di Cecilia Vicuña o Tino Sehgal. La cosa che vorrei quindi è che il museo producesse quel tipo di esperienza; un’esperienza che esalti la memoria del corpo e non la memoria del “leggere per interpretare”. Inoltre, vorrei che si comprendesse cosa sono il rispetto e la responsabilità all’interno di un ambiente collettivo.

Cosa intendi con responsabilità e rispetto?
Intendo il rispetto per chi sta intorno a me; la consapevolezza di cosa significa coprire con un gesto il lavoro di un altro; relazionarmi con consapevolezza allo spazio altrui. Questo è il messaggio di Mega Please Draw Freely di Ei Arakawa-Nash, esposto nella Mittelhalle come parte e introduzione alla mostra For Children. I centri d’arte sono luoghi di apprendimento, di incontro, in cui i valori che trasmettiamo sono certamente quelli dell’importanza dell’arte, ma anche quelli del rispetto per le provenienze, per l’identità, per gli orientamenti, per le visioni e per l’azione nello spazio condiviso.

Alex Urso

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Alex Urso

Alex Urso

Artista e curatore. Diplomato in Pittura (Accademia di Belle Arti di Brera). Laureato in Lettere Moderne (Università di Macerata, Università di Bologna). Corsi di perfezionamento in Arts and Heritage Management (Università Bocconi) e Arts and Culture Strategy (Università della Pennsylvania).…

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