Vincenzo Pennacchi – Migrations
Le pareti della galleria raccolgono la summa di molti anni di lavoro in cui carne, spirito, ironia, colore, passione, materia si sono avvicendati a creare un percorso artistico unico nel suo genere.
Comunicato stampa
"Nel cratere Yökull dello Snæffels
che l'ombra dello Scartaris tocca alle calende di luglio,
scendi, coraggioso viaggiatore, e raggiungerai il centro della terra.
Ciò che feci. Arne Saknussem"
(Jules Verne, Viaggio al centro della terra, traduzione del crittogramma)
Per caso è difficile che qualcosa si realizzi. Un’occhiata alla personale di Vincenzo Pennacchi alla Romberg di Latina per rendersene conto. Le pareti della galleria raccolgono la summa di molti anni di lavoro in cui carne, spirito, ironia, colore, passione, materia si sono avvicendati a creare un percorso artistico unico nel suo genere. Opere già adulte si sposano felicemente con nasciture creazioni realizzate ad hoc in un allestimento che predilige il caos senza essere inerme confusione. “Migrations” è un’antologia visiva che racconta di piccoli e grandi spostamenti e di un flusso inesausto di pensieri.
Ironico, ma capace di permeare nel profondo lo spirito umano, Pennacchi coglie nel segno con questi suoi vagabondaggi suddivisi fisicamente in quattro momenti apparenti. Alla sinistra compare in tutta la sua imponenza l’opera che più di tutte racchiude ogni aspetto della sua espressione pittorica e installativa. Tridimensionalmente drammatica è un corpo animale, una bestia fiera, intrisa della carne lacerata dal tessuto dei tempi. Freatica, come una falda di acqua sotterranea che attraversa la superficie terrestre. Inerme, come creatura condannata al macello. Migra, lei. Si sposta. Altèra. Migra lui, il viandante, l’artista in viaggio costante con il suo universo.
L’impatto centrale è con una costellazione di piccoli mondi incorniciati. Vincenzo è anche questo, un gran narratore di miti e leggende, di argonauti, avventure, di favole che spesso non hanno né capo né coda. “C’era una volta..” si legge all'avvio delle fiabe. Forse no, non c’era, una volta, non c’è mai stata e non ci sarà. Colori di una realtà vissuta in una surreale destinazione si diluiscono, materici e lievi e pesanti come le nostre esperienze. La vertigine è lo stordimento, la sfida.
Riparte, mai si ferma perché non può, il percorso è la sua droga. Imbocca la strada dell’universo sconosciuto, verso le stelle luminose consigliere.
E un tuffo immersivo nella parete alla destra dove s’invola in alto nello spirito tra corpi celesti e celestiali. “Immortal forma venne angel di pietà [..] sol questo m’arde e questo m’innamora [..] c’amor in cui virtù (dimora)” - vergate in nero sul bianco del muro, parole dello scultore Michelangelo Buonarroti lo riportano a trovar un posto sicuro dove sostare, l’amata domus che come nave veleggiante è feticcio ricorrente. Il movimento è un guizzo di follia stratificato, come sono molto spesso i ricordi: pallide chiazze di vivida verità. E siamo già qui, al quarto rintocco, quando sullo schermo si rincorrono immagini di sentieri battuti. Migrare è pur sempre un atto di coraggio, è andare, tornare chissà, è ripensare il significato delle cose. È un atto contemporaneo e attuale, un valore umano e un istinto animale.
Il viandante ha svuotato una valigia piena di ciò che possiede - un’arte in grado di raccontare di sé stessa e degli altri senza troppi tecnicismi, di incuriosire, emozionare, di far riflettere, un’arte primitiva e contemporanea, un’arte di questo e di altri mondi ancora da scoprire. Un racconto magico e misterioso, da ascoltare e osservare senza preconcetti nello spazio della galleria. Tutti abbiamo cuore, gambe e testa, e se, incuriositi, vi trovate nelle vicinanze, passate di qui, per caso. (Testo di Gaia Conti)