Tomaso Binga – Feminist Works 1970-1980

Informazioni Evento

Luogo
GALLERIA MASCHERINO
Via del Mascherino 24 00193 , Roma, Italia
Date
Dal al

Apertura della mostra dal 3 marzo al 30 aprile
dal martedì al sabato
ore 16.00-19.30
Chiuso lunedì e festivi

Vernissage
29/02/2020

ore 18,30

Artisti
Tomaso Binga
Generi
arte contemporanea, personale
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L’esposizione ripercorre l’attività dell’artista, performer e poetessa visiva Tomaso Binga e i suoi legami con il pensiero femminista.

Comunicato stampa

La Galleria Mascherino è lieta di annunciare l’inaugurazione sabato 29 febbraio 2020 della mostra antologica Tomaso Binga: Feminist Works 1970-1980.
L'esposizione ripercorre l’attività dell’artista, performer e poetessa visiva Tomaso Binga e i suoi legami con il pensiero femminista attraverso una vasta selezione di opere appartenenti alle diverse serie da lei realizzate tra l’inizio degli anni Settanta e la metà degli Ottanta: dai Polistirolo alla Scrittura desemantizzata, dalla Scrittura vivente alla Carta da Parato, dal Dattilocodice sino al ciclo di dipinti Biographic. Nella sua ricerca Binga ha sfidato i limiti tra maschile e femminile, tra pratiche dominanti e subalterne, tra la convenzionalità della scrittura verbale e la soggettività del corpo, con l’obiettivo di trasformare le strutture simboliche e sociali della cultura patriarcale. Già nella scelta di adottare uno pseudonimo maschile, in occasione della sua prima mostra personale nel 1971, emerge la volontà dell’artista di denunciare le disparità tra uomo e donna presenti nel sistema dell’arte: “Il mio nome maschile”, scrive all’epoca Binga, “gioca sull’ironia e lo spiazzamento; vuole mettere allo scoperto il privilegio maschilista che impera anche nel campo dell’arte, è una convenzione per via di paradosso di una sovrastruttura che abbiamo ereditato e che come donne vogliamo distruggere”. Da questa consapevolezza Binga dà avvio a un lavoro di decostruzione delle rappresentazioni stereotipate del femminile, a partire dalla serie dei Polistirolo (dal 1971): piccole scatole da imballaggio di polistirolo bianco trasformate in teatrini entro cui l’artista incolla immagini trouveés tratte dal mondo della pubblicità e dei mass-media. Con un’attitudine da bricoleuse, in queste opere Binga demistifica con sguardo ironico la feticizzazione e l’erotizzazione del corpo delle donne, il rapporto tra cultura cattolica e società del consumo, l’interiorizzazione di modelli estetici imposti e omologanti.

A questa fase risale anche la ricerca sulla Scrittura desemantizzata, una scrittura “silenziosa” dove le parole vengono snervate sino a divenire segni grafici illeggibili, che conservano la memoria della scrittura, ma non significano più, evocando i tanti silenzi imposti storicamente alle donne: “La mia è una scrittura subliminale, nel senso che essa agisce (vorrei che agisse) dentro di noi senza essere distratti dal significato corrente delle parole e senza essere frastornati dal suono delle parole stesse: allora si può anche definire una scrittura silenziosa”. Con questa nuova grafia Binga testa il limite tra comunicazione verbale ed espressione gestuale, tra scrittura alfabetica e disegno, ideando una serie di opere tra le più significative del suo percorso, realizzate su carta, come Mettere bianco su nero (1972), Bianco nero con vista (1974), Lettera rossa (1974), Lettera strappata con ardore (1974), o nelle tre dimensioni, come nel caso dello Strigatoio (1974). Quest’ultimo è già all’epoca un oggetto desueto, tradizionalmente usato dalle donne per lavare i panni al fiume, scelto dall’artista sia come simbolo del lavoro domestico non retribuito delle donne, sia come simbolo del rapporto di sorellanza che si veniva a creare al di fuori dello spazio chiuso della casa.

A partire dal 1976 la Scrittura desemantizzata assume scala ambientale nell’installazione Carta da parato, in cui Binga traccia i suoi segni indecifrabili su rotoli di tappezzeria usati per ricoprire le pareti di spazi pubblici e privati: questa importante fase del suo lavoro è documentata in mostra dall’opera Guardo ma non scrivo (1977), dove con un processo di mise en abîme caratteristico delle ricerche di area concettuale del periodo, Binga incolla sulla carta da parati una fotografia a colori incorniciata che la ritrae, di spalle, davanti a un suo precedente lavoro della serie Carta da parato, nel quale, come in un gioco di scatole cinesi, è a sua volta visibile l’immagine dell’installazione da lei realizzata in occasione della mostra collettiva Distratti dall’ambiente (Riolo Terme, 1977).

La Scrittura desemantizzata di Binga, nelle sue varie declinazioni, non agisce soltanto sui limiti tra segno verbale e segno grafico, ma anche sul limite tra la convenzionalità della parola e il suo valore soggettivo, tra il carattere universale e quello personale del linguaggio. Per tale ragione, benché diversa sul piano formale, essa può essere considerata il diretto antecedente delle Scritture viventi, realizzate da Binga a partire dal 1976, in cui l’artista si fa ritrarre nuda dalla sua amica fotografa Verita Monselles, mentre assume con il proprio corpo la forma delle lettere alfabetiche, lavorando anche in questo caso sulla soglia tra segno linguistico e immagine, tra l’universalità del linguaggio verbale e la singolarità del corpo che, fotografato, conserva i tratti unici della persona. A questa serie appartiene l’opera in mostra intitolata Lettera N come NO (1977), che da un lato richiama il celebre dipinto dei primi anni Sessanta di Mario Schifano e la recente lotta per il referendum abrogativo sulla legge sul divorzio, che nel 1974 aveva visto schierati in prima linea, insieme al Partito radicale, la gran parte dei gruppi femministi italiani, dall’altro, può essere letto come una dichiarazione di rifiuto radicale della cultura patriarcale.

Più vicina alle soluzioni iconico-verbali della Poesia Concreta è l’opera appartenente alla serie Dattilocodice, presentata nell’ambito della Biennale di Venezia del 1978 nell’ormai storica mostra di sole donne Materializzazione del linguaggio, curata da Mirella Bentivoglio, che all’epoca interpreta gli “ideogrammi miniaturizzati” di Binga, creati con la macchina da scrivere sovrapponendo due diversi segni alfabetici, come una forma di “recupero invenzione dell’archetipo linguistico attraverso la tecnologia”. Alla ricerca di un linguaggio più autentico e primigenio, Binga nel Dattilocodice mette in scena un nuovo alfabeto in cui simbolo grafico e icona si mescolano, e che pur realizzato con i mezzi dell’occidente moderno, chiama in causa la qualità originaria e arcaica del geroglifico.
Immagine e scrittura tornano a fondersi, con effetti squisitamente pittorici, nella serie Biographic, realizzata a partire dal 1984 ed esposta nel 1985 alla Quadriennale di Roma: in questi quadri di grandi dimensioni Binga si confronta con la pittura, che viene assorbita e si espande sulla trama grossa della tela formando immagini in cui, scrive Binga, “l’archetipo e il futuribile, l’arazzo e il computer, il passato e il presente si mescolano in una sorta di ballata senza fine”. Anche in questo caso, il richiamo alla biografia presente nel titolo serve a creare un ponte tra l’universalità del linguaggio verbale e la soggettività della vita, perché se il personale è politico anche il linguaggio lo è.

In occasione dell’inaugurazione Tomaso Binga terrà una performance fonetica.