Renato Tosini – Ritratto dell’artista come sonnambulo
La mostra di Renato Tosini alla galleria Francesco Pantalone arte contemporanea è un gesto coraggioso, un passaggio di testimone tra più generazioni accomunate dalla fiducia nell’arte e nella sua potenza di rinnovamento. Un omaggio ad un artista che ha attraversato con pienezza iil XXI secolo e che ha ancora molto da dare con la sensibilità acuta di chi conosce bene il valore delle cose e delle persone.
Comunicato stampa
Conviene diffidare dei personaggi di Renato Tosini, della loro fragilità contemplativa, della malinconia divagante che ne muove atti e gesti. Tutti simili l'uno all'altro, vestiti quasi sempre in grisaglia, spesso pesanti e obesi, talvolta con una bombetta che copre il cranio calvo, sono certamente dei borghesi le cui fattezze discendono per linea diretta dai dei banchieri, dai commercianti e dai capitani di industria così come ce li ha consegnati l'iconografia delle illustrazioni di fine Ottocento su cui poi la grande arte dell'età di Weimar ha imbastito il suo tragico teatro satirico. Appaiono oggi sbalestrati in un tempo in cui si muovono esitanti e impacciati, coltivano i giochi d'infanzia come si carezzano i rimpianti, mimano in pose provate tante volte una rappresentazione dubbiosa, interrogativa. Sono sospesi, a metà del guado, e sembrano non potere più avanzare né retrocedere - dismettere la loro maschera sociale o ritornare negli agi della loro condizione di classe - offrendosi in questo modo inermi al nostro sguardo e alla narrazione congetturale di cui sono al contempo attori e oggetto. Sono innocenti? Tutto sembra far presumere il contrario: qualcuno attende impassibile dinanzi al plotone di esecuzione, qualche altro viene pugnalato sul palcoscenico - gli spettatori occhieggiano dai palchi - un altro ancora viene interrogato, e persino quando giocano a biglie la posta in palio appare fatale, il destino incombente. Può trattarsi certo di una finzione, di una recita approntata per noia, ma in questo sentore di minaccia aleggia, è persino banale dirlo, il fantasma di Joseph K., di una colpa forse commessa, forse sognata o persino desiderata, Il peccato, si sa, è un marchingegno seduttivo per l'immaginazione cattolica, e a dispetto del loro aspetto nordico questi borghesi di Tosini hanno provato il loro passo felpato e i loro silenzi nella penombra delle sacrestie. Qualche cardinale, talvolta, si insinua in questi girotondi malinconici, e non è una presenza casuale, né inattesa. Chissà come giudicherà l'Autotentazione di uno di questi signori all'apparenza irreprensibili che osserva una mela che pende immobile davanti al suo naso (forse la mangerà, precipitando se stesso e tutti noi in una sorte di dannazione, forse si impiccherà a quell'albero da cui la mela oscilla simile a un cappio, ma neanche allora probabilmente saremo salvi): quello che avverrà non appena l'incantesimo sarà sciolto dal libero arbitrio sarà atto, o omissione?
A questa condizione di dormiveglia, a questa ribalta di sonnambuli (nella accezione in cui Sonnambuli erano i protagonisti della eclissi della civiltà borghese nella trilogia di Hermann Broch) Tosini presta una stesura pittorica sapientemente calcolata per sottrazione, velari di colore da cui talvolta traspare la grana della tela o che addirittura la risparmiano integrandone i bianchi simili a un baluginare fantasmatico nella composizione. Un teatro d'ombre, a cui per contrasto il nitore di alcuni dettagli conferisce un carattere allucinatorio, si tratti del riflesso di una stoffa, del luccicare improvviso di un vetro o di un metallo, della luce opalescente diffusa da una lampada notturna o dalla precisione affettuosa e ossessiva con cui si accampano in scena i giochi d'infanzia, trottole, biglie, aquiloni, tricicli, cavalli a dondolo. Dissimulata o meno, tanta pittura filtra in questa pittura, soprattutto (ma non solo) dalla tradizione del Novecento italiano: Sironi certamente, per alcune architetture dal sapore littorio vagamente minaccioso che sono, d'altronde, le architetture del quartiere palermitano dove Tosini vive da sempre, Rosai per certe ambientazione da Strapaese, Carrà per lo sfumare malinconico di alcune marine anche se poi la spiaggia, per noi palermitani, è sempre quella di Mondello. E, accanto alla memoria pittorica e anzi persino più tenace, quella iconografica, un cifrario di simboli antichi che scivola fra paesaggi e oggetti di ogni giorni con il suo potenziale intatto di presenza archetipica, simile a un annuncio da sempre atteso e nondimeno temuto. Le barche innanzitutto, piroscafi, transatlantici, semplici barche da pescatori da diporto il cui profilo elementare si presta meglio a enunciare la loro funzione di emblema: scialuppe talvolta troppo piccole per contenere la folla che vi si stipa, altre volte destinate, lo si intuisce, a un solo sventurato navigatore, spiaggiate in attesa del viaggio o già lontane all'orizzonte, arenate in secca o galleggianti su un mare immobile, le barche che popolano questi dipinti hanno destinazioni ignote e trasformano ogni litorale, a dispetto del loro aspetto familiare, in una Isola dei Morti. L'approdo è già avvenuto, e non ce ne ricordiamo, oppure sarà l'esito del nostro viaggio se solo decideremo di imbarcarci. È questo che giustifica l'inazione degli attempati personaggi di Tosini?
In una pittura dal carattere così marcatamente teatrale dove ogni paesaggio è un fondale e ogni architettura una quinta di scena (in una intervista Tosini ha dichiarato una volta "Io scrivo quadri") quali sentimenti nutre l'autore per i suoi personaggi - anche per questo conviene diffidarne - compulsivi, narcisi, poco empatici? In alcuni casi riconosce nel loro sguardo nostalgico proteso verso l'orizzonte la sua stessa melanconia, altre volte ne mette alla berlina tic e manie scoprendo i dispositivi di una ipocrisia feroce; non li giudica troppo tuttavia mentre imbastisce le sue recite, consapevole del fatto che tra quelle figure può confondersi anche il proprio ritratto, personaggio tra i personaggi. Accade più volte (anche questa è una mania, un'ossessione?), in una percezione ansiosa del doppio che Tosini riserva per sé nei disegni con cui, da alcuni anni, riempie le pagine dei moleskine (e la leggerezza surreale dei dipinti diviene spesso una rêverie cupa) o quando modella in terracotta, a grandezza quasi naturale, delle teste che poi colloca sui mobili di casa magari per poggiarci gli occhiali smessi come penati della propria identità. Somiglianza per contatto, la definirebbe Georges Didi-Huberman che a questo tema ha dedicato saggi fondamentali attraversando, dalla ritrattistica romana alla scultura accademica ottocentesca sino a Duchamp, la tensione millenaria della pratica delle immagini a materializzare e al contempo neutralizzare il fantasma del doppio. Così non è difficile riconoscere nella figura acefala seduta circondata dalle sue tante, troppe teste, un possibile autoritratto, da accostare magari a un altro personaggio - tutto in grigio, come lo sfondo - che indossa però a coprire la consueta espressione atona la maschera della commedia così come ce la ha tramandata il mondo greco. Sulla relazione tra umorismo e tragico il Novecento, come si sa, ha scritto intere biblioteche.
Negli anni più recenti, solo le nature morte (meglio dirlo nella dizione anglosassone che non a caso usava de Chirico: Still Life, Stilleben, vita sospesa, silenziosa) hanno accolto una idea di bellezza appena increspata di nostalgia: immobili come architetture monumentali, ordinate secondo colori più luminosi, addensano nei loro tenui giochi d'ombra una ipotesi di salvezza simile a un miraggio ostinato.
Sergio Troisi