Power and Prestige. Simboli del comando in Oceania

Informazioni Evento

Luogo
PALAZZO CAVALLI FRANCHETTI
S. Marco 2847, Venezia (accanto al Ponte dell’Accademia), Venezia, Italia
Date
Dal al
Vernissage
16/10/2021
Curatori
Steven Hooper
Uffici stampa
VILLAGGIO GLOBALE
Generi
arte antica
Loading…

La mostra riunisce per la prima volta in Italia e in Europa 126 bastoni del comando: mazze di straordinaria bellezza con diverse funzioni, realizzate nel XVIII e XIX secolo, una decina delle quali appartenenti alla Collezione Ligabue.

Comunicato stampa

Originale e innovativa, oltre che dalle molteplici fascinazioni, è la nuova mostra in programma dal 16 ottobre 2021 a Venezia, presso Palazzo Franchetti-Istituto di Scienze Lettere ed Arti, promossa della Fondazione Giancarlo Ligabue presieduta da Inti Ligabue, che ancora una volta ci conduce a scoprire le bellezze artistiche e gli elementi culturali e simbolici di mondi e civiltà lontani, fuori dagli stereotipi.

“POWER & PRESTIGE. Simboli del comando in Oceania”, curata da Steven Hooper direttore del Sainsbury Research Unit per le Arti dell’Africa, Oceania e delle Americhe presso l’Università dell’East Anglia nel Regno Unito - tra i massimi esperti internazionali in materia -, copromossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue con il Musée du quai Branly di Parigi, il museo con la più vasta collezione di arte etnografica del mondo che la ospiterà in seconda sede, riunisce per la prima volta in Italia e in Europa 126 bastoni del comando: mazze di straordinaria bellezza con diverse funzioni, realizzate nel XVIII e XIX secolo, una decina delle quali appartenenti alla Collezione Ligabue.

Una mostra che può considerarsi una pietra miliare, essendo la prima interamente dedicata a questi manufatti sui quali getta nuova luce, e una rivelazione per tutti coloro che sono interessati alla scultura e alle affascinanti culture dei “mari del Sud”.

Il Nuovissimo Continente, come viene oggi indicata l’Oceania, l’ultimo ad essere scoperto dagli Europei prima dell’Antartide, è un insieme estremamente diversificato di isole sparse su metà della superficie del nostro pianeta, accomunate dal grande Oceano che le unisce.
Dall’Australia e la Nuova Guinea a ovest abitate da 50.000 anni, alle isole della Polinesia come Tahiti, l’isola di Pasqua e le Hawaii scoperte da intrepidi viaggiatori polinesiani mille anni fa, queste terre hanno una ricca varietà di culture che affascinarono i primi europei, che le raggiunsero a partire dal Cinquecento.

Gli abitanti del Pacifico avevano sviluppato tecniche, usi e forme d’arte originali che si erano evolute o modificate nei territori oceanici in base ai diversi contesti e alla storia di ognuno. I bastoni del comando - solitamente classificati come armi primitive anche se in molti casi mai utilizzati come tali, in realtà anche bellissime sculture in legno, pietra e osso di balena, manufatti dai molteplici usi e significati, pezzi unici espressione della creatività e della capacità di straordinari artigiani - erano tra i materiali più diffusi e ancora prodotti quando, tra Sette e Ottocento, le spedizioni del Vecchio Continente iniziarono a giungere con frequenza in quelle terre, prima che i missionari e le amministrazioni coloniali ne scoraggiassero la produzione.
Oggetto di curiosità e ammirazione, di studio e di collezionismo, vennero portati in Occidente da avventurieri, ricercatori, commercianti, missionari e ufficiali coloniali. Eppure, proprio perché a lungo considerati strumenti cruenti di selvaggi, furono costretti a un ruolo minore nei musei e nelle esposizioni.

Ora i bastoni del comando dell’Oceania saranno mostrati nella loro stupefacente bellezza scultorea e, sfidando gli atteggiamenti convenzionali e “la deformazione percettiva delle letture occidentali”, verranno presentati nelle loro molteplici valenze: vere opere d’arte complesse, rappresentazioni di divinità, status symbol, pregiati oggetti di scambio e accessori per le esibizioni e talvolta strumenti di combattimento. Opere connesse al potere umano e a quello divino.

“Nel mondo Occidentale e in Europa solo in anni recenti si è iniziato a guardare con occhi non viziati da pregiudizi e da preconcetti alle popolazioni e alle culture di continenti lontani: popolazioni spesso sopraffatte e di cui sono state cancellate, volutamente o per supponenza, memoria e saperi” – spiega Inti Ligabue Presiedente della Fondazione Giancarlo Ligabue, che quest’anno festeggia il primo lustro di attività. “Manufatti come le mazze oceaniche sono ancora oggetti in parte misteriosi, non capiamo fino in fondo i loro messaggi né i simboli che le adornano, ma appaiono straordinari per fattezze e le storie che possono narrare sapranno condurci con rispetto attraverso l’Oceano, spiegando le vele della conoscenza”.

Giungeranno in mostra a Venezia pezzi rari e importanti provenienti dalle principali collezioni del Regno Unito e dell’Europa continentale, come il National Museum of Scotland di Edimburgo, il Cambridge University Museum of Archaeology & Anthropology, il National Museums of World Cultures nei Paesi Bassi, il Musée des Beaux-Arts di Lille, la Congregazione dei Sacri cuori di Gesù e di Maria a Roma e da altre collezioni, sia private che pubbliche, che detengono tesori in gran parte mai esposti prima d’ora: in particolare dal British Museum di Londra che presta eccezionalmente per l’evento della Fondazione Giancarlo Ligabue 26 prestigiosi pezzi .
Accompagnata da un prezioso catalogo Skira, “Power & Prestige” è stata anche l’occasione per il primo studio sistematico di questi materiali, che avevano un ruolo importante nelle culture delle isole del Pacifico - nelle Figi, Tonga, Tahiti, Nuova Guinea, Isola di Pasqua e altre isole – espressioni d’arte e usi radicati da conoscere e rispettare; oggetti che hanno suscitato l’ammirazione di celebri artisti del Novecento come Alberto Giacometti, Henry Moore e Constantin Brancusi, ma che sono stati dimenticati o poco indagati dagli stessi musei proprietari.

“La Fondazione Giancarlo Ligabue è un centro di ricerca prezioso per la diffusione della conoscenza sulle collezioni, le culture e su diverse tematiche care ai musei come i nostri” ha dichiarato Emmanuel Kasarhérou Presidente del Musée du quai Branly-Jacques Chirac, commentando la collaborazione tra le due Istituzioni. “Questa relazione è una meravigliosa opportunità per il nostro Museo di condividere le sue collezioni e di farlo per la prima volta, in particolare, con il pubblico italiano. Gli specialisti del settore museale lo sanno, non esiste una ricetta ideale per una mostra di successo. Ma esistono dei punti di vista, degli spunti di riflessione che permettono ai visitatori di “entrare” nel vivo della materia e di realizzare un viaggio nuovo, attraverso le opere. E’ il caso di questa esposizione.”

Una mostra che lo stesso Presidente del Quai Branly, nell’introduzione in catalogo, non esita a definire “di portata storica” per la quantità e qualità dei pezzi esposti e per l’ambiziosa ricerca che l’accompagna.

Procedendo per tematiche, scelte per mettere in evidenza le molteplici caratteristiche e identità degli oggetti, la mostra accompagna dunque in un viaggio attraverso l’Oceania, illustrando anche i percorsi compiuti da queste opere, dalla loro creazione circa duecentocinquanta anni fa, fino all’attuale collocazione nelle teche o nei depositi di musei e collezionisti: oggetto per lo più di baratto in cambio di beni ambìti nei contesti indigeni di allora (“da quelle parti i denti di capodoglio valevano più dell’oro” !), assunti come trofei di battaglia dai pakeha nelle guerre maori degli anni sessanta dell’Ottocento, oppure in molti casi ripudiati dalla comunità locali neoconvertite dai missionari.

Talvolta l’interesse degli europei era semplicemente di tipo folcloristico come souvenir esotici da mostrare o rivendere; tal altra era un interesse di tipo scientifico, animato dalle filosofie illuministe e dal sistema linneano, al fine di portare esemplari di ogni genere nei circoli intellettuali d’Europa come quelli del British Museum o di Oxford, di Cambridge o di Edimburgo.

Joseph Banks – per esempio - fu un grande promotore di questa diffusione al suo ritorno dal primo viaggio di Cook; così come Ashton Lever fondò un suo personale museo noto come Museum Leverianum, prima a Liverpool e poi a Londra, finendo in bancarotta per aver collezionato in maniera ossessiva materiali naturali e curiosità da tutto il mondo.
Venduta all’asta la sua fantasmagorica collezione, che conteneva moltissimi bastoni dall’Oceania, gli studiosi stanno tentando di ricostruirla anche attraverso gli acquarelli realizzati nel 1783 dall’artista Sarah Ston e proprio in occasione della mostra “Power & Prestige”, Hooper e Kasarhérou hanno identificato un bastone della Nuova Caledonia conservato ora al National Museum of Scotland di Edimburgo e aggiunto alla lista una mazza ituki delle Figi conservata a Cambridge: entrambi i bastoni saranno esposti a Palazzo Franchetti a Venezia in questa speciale occasione.

Ci furono anche molte società missionarie, sia cattoliche che protestanti, che raccolsero questi oggetti in musei itineranti allo scopo di esibire il successo delle attività evangeliche e facilitare la raccolta di fondi, mostrando i manufatti dei “pagani “ convertiti, come la London Missionary Society - la cui collezione si disperse a partire dal 1890, confluita in parte cospicua nelle raccolte del British Museum – o la Methodist Missionary Society che invitò i missionari a promuovere la raccolta e la vendita di prodotti locali anche a fini di beneficenza. Alcuni oggetti presenti in mostra provengono da collezioni di questa natura come le due pregevoli sculture antropomorfe dell’isola di Pasqua che adesso appartengono alla Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria di Roma.

Il mondo museale comunque nella seconda metà dell’Ottocento vide emergere figure chiave che promossero l’acquisizione di materiale etnografico sviluppando rivalità sul piano personale ed istituzionale come August Francks al British di Londra, Hanry Balfour al Museo di Oxford, il barone von Hugel a Cambridge e, per l’Italia lo zoologo e antropologo Enrico Giglioli, le cui raccolte sono oggi il nucleo centrale delle collezioni sull’Oceania dei musei di Roma e Firenze.

Insomma, l’Europa cominciava a conoscere, ammirare e studiare questi incredibili oggetti, ma era ancora lontana dal comprenderne la valenza plurima, i messaggi, la grande bellezza, lasciando solo alla avanguardie artistiche il compito di farsi ispirare.

IN MOSTRA

Gli usi, le funzioni, i manufatti più importanti Il valore scultoreo dei bastoni del comando esposti in mostra è componente fondamentale della loro identità. L’abilità scultorea degli intagliatori di questi straordinari manufatti è talvolta impressionante, ma non si trattava di semplici esperti: nelle lingue oceaniche i termini “esperto” o “specialista” includevano anche il nostro concetto di “sacerdote”, alludendo a una dimensione religiosa di queste figure.

Si trattava cioè di soggetti cui veniva anche riconosciuto un importante ruolo di mediazione tra l’ordinaria esistenza quotidiana e il regno delle potenze superiori, responsabili della prosperità e produttività della vita dell’uomo. E’ in parte quello che molti isolani del Pacifico intendono per “mana”: un potere che trascende le qualità umane o la casualità meccanica. Inoltre trattandosi di un prodotto della natura, il processo di realizzazione di questi manufatti, interrotto più di un secolo fa, richiedeva un iter attento e i materiali da cui erano ricavati - alberi e ossa di mammiferi marini a cui a volte si aggiungevano pietre e conchiglie - dovevano essere acquisiti e modificati seguendo un rituale tradizionale.

Molte informazioni, conoscenze e saperi ormai sono andati perduti, cancellati dalla colonizzazione europea e dall’azione dei missionari nei secoli scorsi; persino la terminologia usata dagli indigeni per indicare le diverse tipologie di mazze, considerata anche l’eterogeneità dei luoghi di produzioni e l’enorme numero di lingue dell’Oceania (all’inizio dell’Ottocento persino Vanuatu, un arcipelago relativamente piccolo, aveva oltre duecento lingue attive su una popolazione di nemmeno 150.000 abitanti, mentre si stima che la Nuova Guinea abbia oltre mille lingue distinte), appare oggi di difficile ricostruzione. Ciò che risulta evidente e sorprende è in ogni caso l’eccezionale equilibrio di molte di queste sculture che spaziano dai 50 cm agli oltre 3 metri, la fluidità delle forme, la meticolosità dell’intaglio, della lucidatura e degli ornamenti, la varietà delle tipologie.

I bastoni erano anche armi – altro tema su cui si sofferma la mostra - e molti furono fabbricati pensando a questa funzione, anche se non tutti furono usati in combattimento. Bastoni di diversi tipi erano diffusi ovunque in Oceania per far fronte alle tante guerre che tra Sette e Ottocento animarono anche il Pacifico.
Dalle corte clave patu di Aotearoa Nuova Zelanda, alle mazze di media lunghezza presenti in molti luoghi, fino alle lunghe lance delle isole Australi e Cook, la maggior parte di queste era congegnata per adattarsi a differenti tecniche di combattimento che in alcuni casi prevedevano mosse e finte codificate. In Aotearoa Nuova Zelanda, per esempio, l’uso di bastoni da combattimento come taiaha, tewhatewha e pouwhenua ammirabili in mostra, implicava velocissimi movimenti atletici che oggi ritroviamo nella sfida del wero, rivolta come saluto formale ai visitatori di riguardo.

Che fossero o meno impiegati in combattimento, moltissimi bastoni venivano comunque usati come accessori di costumi e in esibizioni di vario genere, talvolta grandiose e impressionanti come quelle riportate dalle cronache di alcuni missionari della seconda metà dell’Ottocento.
Qui brandire questi bastoni del comando era segno di forza, di potere e di prestigio e anche a questo aspetto viene dedicata una sezione della mostra. La letteratura marchesana accenna a danze e parate con bastoni, organizzate sia prima di un combattimento sia per festeggiare una vittoria.

“È in queste occasioni – scrive Steven Hooper - che ùu e parahua, troppo ingombranti e preziose per essere messe a repentaglio in scaramucce sulle montagne, sarebbero apparse nella loro forma migliore, tirate a lucido e splendenti.”

Non solo: le danze erano occasione per sfoggiare manufatti ispirati alle mazze. Nelle danze marziali organizzate a Makira nelle isole Salomone si usava per esempio una mazza-scudo di forma ricurva che era in grado di deviare le zagaglie e servire anche da arma offensiva. Dalla stessa area provengono “bastoni da danza” ricurvi, di dimensioni minori, spesso fittamente decorati con intagli e/o intarsi, ma troppo fragili per qualsiasi funzione in combattimento e dunque chiaramente realizzati esclusivamente per la danza.

Molti bastoni del comando erano “scettri cerimoniali” e più che essere destinati ai combattimenti erano un’ostentazione con l’intento soprattutto di proiettare un’immagine di autorità e status. Pensiamo all’enorme Siriti, pesante mazza a due mani alta 152 cm. proveniente dal British Museum, tra le più grandi rappresenta nel suo insieme una figura maschile stilizzata.
In tutto il Pacifico le dimensioni e la forma di un bastone, il materiale di cui era realizzato e il suo grado di elaborazione – con intarsi o aggiunte di materiali di grande pregio come conchiglie, piume o avorio di balena - veicolavano messaggi sulla condizione sociale di chi lo possedeva o custodiva.

In molti luoghi la superficie delle mazze veniva decorata con materiali associati
al mare, quali frammenti di conchiglia o denti di capodoglio e in Polinesia il mare e i materiali derivanti da quell’ambiente, considerato sacro, erano associati ai capi e alla loro autorità.

Eccezionale manufatto esposto in mostra, oltre che vera opera d’arte, è una Bulikia di collezione privata, una mazza con 74 intarsi in avorio e osso di balena delle Figi (fine XVIII inizi XIX secolo) prezioso dono diplomatico per sancire un’alleanza. Entrata in possesso del primo governatore residente delle Figi, Sir Arthur Gordon, nel 1875-1876, poco dopo il suo arrivo nell’arcipelago quale rappresentante personale della regina Vittoria nella nuova colonia, è probabile infatti che gli sia stata donata come pegno di fedeltà da un capo locale. Il bastone figura in un acquerello dipinto all’epoca da lady Constance Gordon Cumming ed era esposto nel “museo” della residenza governativa alle Figi.
In ogni caso che si trattasse di armi reali o di mazze da esibire, due elementi appaiono fondamentali in questi affascianti e ancora misconosciuti oggetti oceanici: la relazione con il divino e il mondo degli avi, nonché la ricchezza di “decorazioni” della superficie dei manufatti anche attraverso incisioni e raffigurazioni di cui spesso diventavano incarnazione. Da sempre, in tutti i diversi popoli e culture, i rapporti con le forze soprannaturali - dei, antenati o spiriti – sono stati considerati fondamentali per l’esito di una guerra.

È significativo che molti bastoni realizzati con grande attenzione e materiali pregiati presentino caratteristiche o forme antropomorfe: rappresentazioni di antenati, riferimenti a presenze ancestrali come mezzi per attivare un potere divino e svolgere un ruolo protettivo nei confronti di chi le detiene.
Gli stessi materiali utilizzati sono associati alla divinità e alla messa in atto del potere: in Polinesia la casuarina è una delle essenze più dure del Pacifico tropicale, comunemente detta legno ferro, mentre nelle Marchesi e nelle isole Cook il legno viene chiamato toa, lo stesso termine che si usa per designare i guerrieri di spicco. A Rarotonga, nelle isole Cook, la casuarina era utilizzata per creare immagini di divinità-bastone (pezzi davvero unici quelli provenienti dal British Museum) che a volte prendevano la forma di scettri, come si vede in mostra in un bellissimo esempio.

I bastoni in forma di scettro delle Cook testimoniano come le fogge si siano adattate alle immagini sacre, mentre alcuni speciali bastoni di Tonga venivano chiamati hala e usati dai sacerdoti per la divinazione e come strumenti di comunicazione con le divinità ancestrali.
Anche l’attenzione prestata alla superficie delle mazze ben al di là di qualunque funzione pratica – incise, oliate con olio di kukui o di cocco, levigate, intarsiate, rivestite oppure decorate da ciuffetti di fibre o piume e magari ammantate dal fumo delle lampade durante le cerimonie - mostra il riconoscimento o la volontà di attivazione di un potere “altro”, di un’efficacia particolare, di una protezione superiore. Alfred Gell lo chiamava “avvolgimento nelle immagini”.

Ci sono mazze tonghiane le cui complesse decorazioni esteriori equivalgono ai tatuaggi sui corpi umani. Molte di queste elaborazioni tongane, come nel caso del bellissimo ’akau di Collezione Ligabue, prendono la forma di pannelli di incisioni, che spesso inglobano glifi raffiguranti una serie di forme geometriche, umane e animali. Le figure umane (nell’oggetto conservato a Venezia sono ben 17) sono mostrate nell’atto di compiere varie attività, non tutte di facile comprensione.
In altri casi i disegni superficiali possono essere enigmatici, come nelle celebri lance dai bordi dentellati delle isole Cook realizzate fino agli anni venti dell’Ottocento e del cui motivo distintivo non si conosce né l’origine né la fonte di ispirazione.
In mostra tra i vari esempi possiamo citare l’akatara prestata dal National Museum of Scotland di Edimburgo, una lancia alta quasi 2,5 metri, dalla lama con bordi a tripla seghettatura e colletto, con due occhi su ciascun lato che ricordano da vicino lo stile di occhio con pupilla, due palpebre e un’arcata sopraccigliare tipica delle divinità-bastone.

Molto resta ancora da decifrare delle culture dell’Oceania e delle produzioni materiali che ne sono il frutto. Molto è stato cancellato, ma tantissimo attende d’essere disvelato. Questa mostra e lo studio che l’accompagna, abbandonati i preconcetti del mondo occidentale, sono un passo importante in questa direzione.