One day we must meet
La cultura al servizio del potere, al fine di mitigare l’immagine bellicosa del regime fascista agli occhi della nazione americana, è il tema del libro di Sergio Cortesini dedicato alle mostre e alle grandi fiere ed esposizioni internazionali che hanno visto l’Italia in prima linea nel periodo interbellico.
Comunicato stampa
La cultura al servizio del potere, al fine di mitigare l’immagine bellicosa del regime fascista agli occhi della nazione americana, è il tema del libro di Sergio Cortesini dedicato alle mostre e alle grandi fiere ed esposizioni internazionali che hanno visto l’Italia in prima linea nel periodo interbellico.
Prendendo in esame il periodo compreso tra il 1933 e il 1941, dall’inizio della presidenza di Franklin Delano Roosevelt all’ingresso degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, Sergio Cortesini ripercorre la parabola della cultura italiana in America e ci fa rivivere il clima di un’epoca, segnata dalla sfavillante industria cinematografica hollywoodiana, dai cantieri che ridisegnano il volto di metropoli in continua espansione, dall’avanzamento tecnologico con le sue infrastrutture simili a ginnasti giganti, dall’alto tenore di vita simboleggiato dal fiume di automobili lungo Park Avenue.
Animati da una vocazione modernista, gli intellettuali italiani di quegli anni, fascisti o apolitici che fossero, incoraggiano scambi sempre più intensi con gli Stati Uniti, intuendo l’opportunità che tra il mito dell’America come civiltà agli albori e quello del fascismo come ringiovanimento spirituale della nazione potesse crearsi una sorta di comunanza etica, basata sui valori di dinamismo, attivismo, volontà di conquista e ascesa, culto della giovinezza.
Pur in mancanza di un vero e proprio programma di diplomazia legato all’arte, Mussolini ne incoraggia implicitamente l’uso con l’obiettivo di guadagnarsi le simpatie e il consenso degli americani, ben consapevole di poter contare su gran parte delle comunità di emigrati italiani come gruppi di opinione e pressione politica. Figura popolare già dal 1925, quando Margherita Sarfatti aveva dato alle stampe il best seller The Life of Benito Mussolini, il Mussolini di cui l’America si invaghisce è un misto di qualità tipiche dell’eroe americano e di stereotipi associati al carattere latino: il redentore della nazione, il patriota, il self-made man, l’atleta, il Rodolfo Valentino in camicia nera, capace di liberare gli italiani dalla stagnazione del loro destino. Tanto che il presidente Roosevelt, a margine di un fruttuoso colloquio alla Casa Bianca nell’ottobre del 1937, rivolge a Vittorio Mussolini l’auspicio di incontrare presto il padre Benito: «One day we must meet». Ma la storia è andata diversamente, e con la dichiarazione di guerra le ambizioni propagandistiche del regime sono rimaste frustrate. I padiglioni vengono demoliti e le opere d’arte rinchiuse nei depositi: né le grandiose mostre dei contemporanei né il clamoroso successo del tour dedicato ai grandi maestri sono stati abbastanza per colmare il profondo divario per filosofie politiche, ragioni storiche e schieramenti diplomatici che separa Stati Uniti e Italia.
Sergio Cortesini insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università di Pisa. Tra i suoi interessi, il ruolo dell’arte moderna nella costruzione dell’identità nazionale italiana, in particolare nel contesto degli Stati Uniti del New Deal. Ha scritto anche su artisti del XX secolo, tra cui Emilio Vedova e Damien Hirst. È membro del CIRQUE (Centro interuniversitario di ricerca queer).