Omaggio a Andrea Di Marco
La mostra è un sentito e doveroso omaggio a Andrea Di Marco, artista scomparso lo scorso 2 novembre, all’età di 42 anni. Con Alessandro Bazan, Francesco De Grandi e Fulvio Di Piazza aveva dato vita alla Scuola di Palermo, sodalizio che tra la fine degli anni novanta e gli inizi del 2000 si era affermato sulla scena italiana.
Comunicato stampa
La mostra è un sentito e doveroso omaggio a Andrea Di Marco, artista scomparso lo scorso 2 novembre, all’età di 42 anni. Con Alessandro Bazan, Francesco De Grandi e Fulvio Di Piazza aveva dato vita alla Scuola di Palermo, sodalizio che tra la fine degli anni novanta e gli inizi del 2000 si era affermato sulla scena italiana. La consacrazione, che coincise con la mostra Palermo Blues inaugurata nel 2001 ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, lo aveva portato all’attenzione della critica e del pubblico per le sue emblematiche epifanie, che l’artista associava a periferie malinconiche e oggetti abbandonati. In modo pacato, curioso e minuzioso, Andrea Di Marco ha osservato la quotidianità, cercando di raccontarci la nostra realtà, la nostra vita, attraverso uno “sguardo incantato sul mondo”. Sguardo che si fissava sui cascami della vita, sulle cose che rischiavano di non essere più viste, per troppa dimestichezza o per scarsa indulgenza. L’artista dipingeva oggetti impotenti, paralizzati, lasciati in balia di se stessi, che Marco Di Capua aveva descritto «senza lusso né lustro», perché umili, dimessi, oziosi, intrisi di un sereno patetismo. La pittura di Andrea Di Marco si caratterizzava inoltre per l’abbondante spremitura dei tubetti, per una pennellata larga e densa che conferiva solidità plastica alle immagini; il severo rigore formale dava a ogni suo soggetto un’evidente concretezza, gli restituiva profondità e luminosità, ponendosi in continuità con la storia dell’arte e la storia dell’umanità.
Di Marco aveva compreso che la perenne obsolescenza del tempo presente sconfina spesso in un’archeologia del moderno, disseminando intorno a noi dei “relitti” monolitici-mitologici, usurati e logori. Lo stesso artista teneva a precisare che «di solito estraggo quei soggetti che hanno perso il loro valore di mercato: il loro progressivo abbandono mi rende piacevolmente malinconico». Mezzi di trasporto, cantieri edili, pompe di benzina, cisterne, cassonetti, saracinesche, giocattoli e cabine elettriche erano solo alcune delle immagini da lui predilette. Ma tutte queste “cose” dipinte da Di Marco non possono essere soltanto ciò che mostrano, descrivono infatti la realtà della pittura così come veniva da lui percepita. Alla resa dei conti, il soggetto dell’opera era (pur) sempre il pittore, il quale si dissimulava nei quadri, fin quasi a immedesimarsi negli oggetti: «La cosa più importante – confessava anni or sono – è il lavoro, dietro il quale io posso sparire». Sparire forse, ma non senza farsi sentire, non prima di farsi intendere, anche ora che la morte l’ha ghermito alla nostra presenza.
Qualcuno ha tenuto a ricordare che l’artista amava definirsi un realista, ma la sua pittura apparteneva a un Realismo esente da impegni politici, sociali o ideologici; difficilmente sarebbe stato annoverato tra i Naturalisti, poteva semmai entrare nella cerchia dei Vedutisti, in virtù di quella sua “osservazione del vero” che era una necessità intima, personale. Ma a rigor di logica dovrebbe essere accreditato in un Verismo avulso da qualsivoglia retorica o propaganda, un Verismo tutto italiano – profondamente meridionale – che sapeva comunicare non la verità del mondo ma la verità del pittore, e dunque della pittura stessa. Questo è stato il senso, la scelta e l’impegno di Andrea di Marco.
La mostra, allestita al pianterreno del Museo, presenterà un corpo di opere in cui sarà possibile scorrere alcuni dei temi prediletti da Di Marco, artista scomparso troppo prematuramente che ha sempre creduto nei valori della pittura.