Marco Federico Cagnoni – Polahole
Polahole, termine che deriva dalla fusione di Polaroid e Pinehole – in inglese macchina stenopeica – sintetizza il progetto da cui nasce questa mostra. In un’epoca in cui si scatta e si condivide l’immagine su Instagram o su altri social network senza neanche fermarsi a guardarla, il designer/artista riprogetta un oggetto del tutto manuale sia nell’uso che nella costruzione.
Comunicato stampa
Marco Federico Cagnoni torna all’origine della fotografia ridisegnando per la sua tesi di laurea all’ISIA di Firenze una macchina a foro stenopeico che combina la possibilità di scattare senza obiettivo alla volontà di imprimere l’immagine su una pellicola autosviluppante, in modo da ottenere fotografie il cui risultato è lasciato volutamente al caso: Polahole, termine che deriva dalla fusione di Polaroid e Pinehole - in inglese macchina stenopeica - sintetizza il progetto da cui nasce questa mostra.
In un’epoca in cui si scatta e si condivide l’immagine su Instagram o su altri social network senza neanche fermarsi a guardarla, il designer/artista riprogetta un oggetto del tutto manuale sia nell’uso che nella costruzione: la macchina è anche sostenibile in quanto composta per l’83% da legno e per il 17% da metallo, materie facilmente smaltibili e che quindi non inquinano l’ambiente. Le fotografie ottenute sono in questo modo irripetibili, e il lavoro di questo artista diventa una riflessione sul controllo della tecnologia da parte dell’uomo e contro la standardizzazione delle immagini.
L’imprevedibilità dello scatto, sia nell’inquadratura che nell’esposizione, in quanto lo strumento non è dotato di lente né di mirino né di esposimetro, si unisce al fascino della manualità di ogni singola operazione e a caratteristiche tecniche particolari come un angolo di campo estremamente grande, assimilabile a quello dell’occhio umano (circa 140 gradi), e una profondità di campo illimitata dato che il fuoco tende all’infinito, portando ad un risultato finale poco descrittivo ma del tutto artistico.
Gli effetti che si vedono sulle foto sono reali, non creati in post produzione, infatti l’aspetto interessante di questa ricerca è l’incertezza, non si conoscono i risultati fino al momento dello sviluppo. Anche se l’immagine che si ottiene è poco visibile, sfocata, rovinata, l’artista, in contrapposizione all’alta definizione delle immagini di oggi, ne accetta sempre i risultati, perché ciò che più lo interessa è il processo che c’è dietro ogni scatto: il controllo della luce e dei tempi di esposizione in tutte le condizioni atmosferiche; la chimica dello sviluppo; l’inquadratura non definibile con certezza durante lo scatto; la prospettiva grandangolare che cambia la percezione dei soggetti. L’imperfezione diventa quindi l’elemento che tira fuori un’anima agli oggetti, che siano essi monumenti, architetture, ritratti, spazi aperti o chiusi.
Quando poi il fotografo indaga spazi misti che da un interno fuggono verso l’esterno, scopre anche la “democrazia” dello strumento: dai mobili della casa, alle persone, a fuori della finestra tutto è nitido allo stesso modo, tutto è a fuoco, tutti i soggetti hanno la stessa importanza. La fotografia stenopeica infatti amplifica lo spazio e dilata il tempo, fa sì che le storie di tutti i giorni diventino storie monumentali, che il ricordo diventi Memoria.
Annalisa Filonzi