Luca Pancrazzi
Nella fretta di rallentare il passo ho provato a non distrarmi troppo dal paesaggio, ma ho inevitabilmente lasciato scivolare dalle braccia, troppo piene, dei pezzi che non saprei dire cosa fossero. Voglio concentrarmi sul paesaggio per questo rallento.
Comunicato stampa
LUCA PANCRAZZI
Mi disperdo e proseguo lasciandomi indietro un passo dopo l’altro. (la mostra, il film)
Nella fretta di rallentare il passo ho provato a non distrarmi troppo dal paesaggio, ma ho inevitabilmente lasciato scivolare dalle braccia, troppo piene, dei pezzi che non saprei dire cosa fossero. Voglio concentrarmi sul paesaggio per questo rallento. Erano pezzi importanti? Erano pezzi preziosi?
La mia preoccupazione non intralcia il cammino, e provo anche a non pensarci troppo.
Erano pezzi vecchi, o pezzi nuovi?
Strada facendo il paesaggio cambia, ed anch’io di conseguenza cambio, mi interesso a nuovi dettagli che si intensificano e si diradano, che lasciano il passo a dettagli nuovi. Lunghi agglomerati ritmano il cammino come blocchi di pensiero vicini che abitano palazzi omogenei e apparentemente grigi ed uguali, solo la luce li modella e li rende bidimensionali, altrimenti sembrerebbero dei cubi di cemento e basta. Muovo i passi lentamente, ma la velocità è sempre la stessa, così provo a concentrarmi meglio sui bordi, che mi restituiscono il senso della marcia. Sono quelli più frastagliati ad indicare il movimento, proprio perché sono marginali e perché sono frastagliati. Margini marginali e frastagliati. Erano pezzi miei o erano pezzi in prestito? Sono chilometri che guardo anche se non ricordo niente, nessun dettaglio esterno, guardavo il paesaggio ma il suo flusso entrava dentro di me senza essere codificato, senza essere filtrato dal cervello sono entrati chilometri di paesaggio direttamente nel corpo come se la sete si fosse placata dopo aver bevuto attaccato alla bottiglia un litro di acqua a garganella. Guardo il paesaggio a garganella senza sorseggiarlo. Ma qualcosa però è cambiato, anche se non ricordo cosa ho visto, il mio umore è diverso. So di aver attraversato dei momenti indimenticabili ed altri più tristi, mi pervade un senso di melanconia per non ricordare di averli vissuti, me li sono goduti a garganella e basta consumandoli all’istante. So di essere stato felice in quei momenti, e la consapevolezza è una sensazione netta. Sono minuti che penso, anche se non ricordo niente di quello che ho visto, ho solo negli occhi il paesaggio ed il mio passaggio che ritma i corpi verticali. I miei pensieri hanno modellato il paesaggio in un flusso opposto a quello dello sguardo. Lo si potrebbe chiamare flusso endogeno attivo. Una rimessa a dimora dello sguardo, una restituzione al paesaggio, una proiezione simmetrica e speculare che proietta fuori pezzi interni di me. Una proiezione cosmica e intestinale al tempo stesso. Erano tanti pezzi? Quanti erano? Passano dei bei momenti per i miei occhi, il paesaggio adesso si intensifica, la mia attenzione anche, il paesaggio non è più un’onda fluida e dolce, ipnotica e monocromatica, adesso sto entrando in un centro, mi avvicino a qualcosa di denso e fitto e spezzettato, e intrecciato, scorci di palazzi lontani e alti e lontani e bassi, alcuni in primo piano li sfioro, li potrei toccare, li tocco, e cammino vicino a quei muri ruvidi e lisci e antichi che costeggiano orti e incorniciano palazzi e ponti e premono tutti insieme a serrare il cammino. Zillate di luce e ponti d’ombra sembrano infittirsi sempre di più, invece si diradano. Ma sto ancora perdendo qualcosa? Che pezzi potrei aver lasciato sfuggire dalla mia presa senza che, attribuendone tutta l’importanza, li avessi lasciati troppo generosamente scivolare dalle mie braccia? Se li avessi amati veramente non sarebbe dovuta essere sufficientemente la colla della mia presa? Vengo attratto da qualcosa, che mi fa accelerare il passo. Voglio concentrarmi sul paesaggio per questo accelero. Aumento la frequenza della leva ma la velocità non cambia molto, un rumore meccanico mi fa pensare ad una grossa macchina cigolante che assomiglia al mio corpo. In pratica è il mio corpo che cigola e si muove inesorabilmente avanti attraversando un paesaggio a volte indimenticabile altre dimenticabile. Erano pezzi che componevano qualcosa di più complesso del pezzo stesso? A volte mi distraggo dal paesaggio e a volte mi concentro sulla velocità. Ma più spesso conto i pali verticali delle linee elettriche oppure impazzisco vedendo le piantagioni di alberi da taglio lungo gli argini dei fiumi piantati in perfetto ordine, che confondono lo sguardo coi loro movimenti immobili e cinetici. In realtà sono loro, immobili, che hanno lo spettacolo migliore, mi vedono attraversare l’orizzonte tagliando la verticalità ritmata e militare, che gli appartiene, come uno spezzatino dello sguardo, e ammirano i movimenti come li vedeva Eadweard Muybridge. Non ho fretta di arrivare e neppure di tornare, è solo necessario muoversi da qui e poi da qui, ed ancora da qui. La velocità è sempre la stessa non provo più a cambiarla, non otterrei nessun risultato. Di alcuni pezzi di paesaggio riesco a ricordare ogni singolo frame, ne ho stampato l’immagine nella mente, negli occhi le imperfezioni dei dettagli e l’armonia generale si fondono, i passaggi monocromatici si accendono dei colori dello spettro mentre ancora cerco di ricomporre l’immagine totale dei pezzi persi, scivolati, lasciati cadere. Che immagine andavano a comporre? Dovrò perderne altri, forse tutti per poterla vedere completamente. Luca Pancrazzi, 2014