Louise Nevelson

Informazioni Evento

Luogo
MUSEO FONDAZIONE ROMA - PALAZZO SCIARRA COLONNA
Via Marco Minghetti 22, Roma, Italia
Date
Dal al

10.00 > 20.00
La biglietteria chiude un'ora prima

Aperture Straordinarie
25 aprile 10.00 > 20.00
1 maggio 10.00 > 20.00
2 giungo 10.00 > 20.00
29 giugno 10.00 > 20.00

Vernissage
16/04/2013

ore 12 per la stampa, su invito

Contatti
Email: info@fondazioneromamuseo.it
Biglietti

Intero € 10,00 Ridotto € 8,00 Ridotto gruppi € 8,00 Scuole € 4,50 (ad alunno) Famiglia € 20,50 (dai 3 ai 5 componenti) Ridotto speciale (l’adulto che accompagna 1 minore paga ridotto)

Patrocini

Promossa dalla Fondazione Roma e organizzata dalla Fondazione Roma-Arte-Musei con Arthemisia Group - in collaborazione con la Nevelson Foundation di Philadelphia e la Fondazione Marconi di Milano

Editori
SKIRA
Artisti
Louise Nevelson
Curatori
Bruno Corà
Uffici stampa
STUDIO LUCIA CRESPI, ARTHEMISIA
Generi
arte contemporanea, personale
Loading…

La Nevelson occupa un posto di rilievo nella scultura del Novecento e si inserisce a pieno titolo tra le avanguardie storiche del secolo, dal Futurismo al Dadaismo, in particolare tra gli artisti che hanno utilizzato oggetti prelevati dalla vita quotidiana per le loro creazioni, come Duchamp, Picasso e Schwitters.

Comunicato stampa

La Fondazione Roma inaugura la stagione primaverile 2013 del Museo Fondazione Roma – Palazzo Sciarra riportando la propria
attenzione alla grande arte statunitense, alla quale nel corso del tempo ha dedicato importanti mostre quali “La gloria di New York.
Artisti americani dalla Collezione Ludwig 1960-1990” (2001-2002), “Edward Hopper” (2010) e “Georgia OʼKeeffe” (2011-2012), a
testimonianza dellʼinteresse che essa rivolge alla ricchezza culturale di quel paese.
In tale contesto, la Fondazione Roma ha inteso quindi promuovere la mostra su Louise Berliawsky Nevelson, scultrice americana di
origine russa, nata a Pereyaslav presso Kiev nel 1899, figura tra le più eminenti dellʼarte del XX secolo. Louise Nevelson ha sempre
affermato la sua fierezza di essere unʼartista donna: si sentiva “donna, tanto donna, da non voler portare i pantaloni”. “Gli uomini non
lavorano in questo modo, – afferma lʼartista – diventano troppo attaccati, troppo impegnati nel mestiere o nella tecnica. [...] Il mio lavoro
è delicato; può sembrare vigoroso, ma è delicato. La vera forma è delicata. In esso cʼè tutta la mia vita, e tutta la mia vita è al
femminile”.
Le opere di Louise Nevelson rivelano una stretta relazione con lʼarte europea della prima metà del Novecento e in particolare con le
nuove formulazioni delle avanguardie storiche del cubismo, dadaismo e surrealismo. A queste Nevelson unisce la visione pragmatica
dellʼarte statunitense di quegli anni e un nuovo sguardo verso lʼarte dei nativi americani e delle civiltà precolombiane. La sua ricerca
compositiva è basata sullʼidea dellʼassemblaggio e della sovrapposizione prospettica di forme geometriche e si caratterizza per
lʼimpiego del legno e di parti di mobilio recuperato per le strade di New York. Questa singolarità della Nevelson rende espliciti molti temi
che uniscono ancora oggi lʼAmerica e lʼEuropa, quali la memoria domestica e il ricordo. Attraverso il prelievo di oggetti quotidiani, dipinti
di nero, bianco e oro, Nevelson eleva un semplice manufatto a opera dʼarte, collegandosi in questo alla poetica dadaista di Marcel
Duchamp che, negando la possibilità di delimitare lʼarte entro strette definizioni, affermava che lʼarte poteva essere fatta con qualsiasi
cosa. Questi elementi costituiscono la chiave per comprendere lʼarte di Louise Nevelson, che possedeva una forte, complessa e
anticonvenzionale personalità. Emigrata giovanissima con la famiglia negli USA, nel 1905, stabilendosi a Rockland nel Maine e dal
1920 in poi a New York, manifesta una precocissima inclinazione allʼarte. Frequenta le grandi scuole dʼarte di New York, lʼArt Students
League, e viaggia in Europa, prima a Monaco di Baviera, dove studia con Hans Hofmann, poi in Italia e a Parigi, e dal suo ritorno a
New York, negli anni trenta, decide di dedicarsi interamente alla scultura per tutta la vita, fino al 1988, anno della sua scomparsa.
La mostra, a cura di Bruno Corà, segna il ritorno di Louise Nevelson a Roma, dopo lʼultima retrospettiva tenutasi al Palazzo delle
Esposizioni nel 1994 curata da Germano Celant: a venticinque anni dalla morte della Nevelson, le opere ripercorrono le maggiori tappe
della sua produzione artistica. Ciò è stato possibile grazie anche allʼattiva partecipazione della Fondazione Marconi, che costituisce
lʼossatura portante della mostra, e che negli anni ha avuto lo straordinario merito di tutelare e valorizzare molte delle opere della
scultrice statunitense, purtroppo non presenti, come meriterebbero, nei musei pubblici italiani. Lʼesposizione, a prova della riconosciuta
qualità del lavoro fin qui svolto dalla Fondazione Roma e dalla Fondazione Roma-Arte-Musei, suo braccio operativo nei settori della
cultura e dellʼarte, annovera inoltre il Patrocino dellʼAmbasciata degli Stati Uniti dʼAmerica, la collaborazione della Louise Nevelson
Foundation di Philadelphia, che ha prestato per lʼoccasione unʼopera, e la partecipazione di alcuni importanti musei stranieri quali il
Louisiana Museum of Modern Art in Danimarca, il Centre national des arts plastiques di Parigi, la Menil Collection di Houston in Texas
e la prestigiosa Pace Gallery di New York.
Nel percorso espositivo le opere della Nevelson si susseguono per nuclei omogenei: le terrecotte e i disegni degli anni trenta; tre rare
opere bianche degli anni cinquanta; tre splendide opere oro degli anni sessanta; le serigrafie degli anni settanta; i collages degli anni
settanta-ottanta e soprattutto le opere nere, dagli anni cinquanta agli anni ottanta. Tra queste è presente una delle opere più grandi mai
realizzate dalla Nevelson, Homage to the Universe (1968), che esemplifica il periodo delle monumentali installazioni per gli spazi
pubblici di New York. Tutte le opere di Louise Nevelson sono accomunate dalla ricerca di armonia: lʼocchio non è disturbato dalla folla
di forme o oggetti che popolano le sue scatole, scaffali o contenitori, ma viene rassicurato dallʼequilibro delle masse. Ad arricchire la
mostra ci sono fotografie originali che ritraggono lʼartista nel suo studio o in occasione di mostre italiane di importanti fotografi quali
Robert Mapplethorpe, Pedro. E. Guerrero e dellʼitaliano Enrico Cattaneo. Lʼallestimento è stato curato nei minimi dettagli e nel rispetto
della poetica della Nevelson, in particolare per quanto riguarda lʼuso del colore, al quale lei stessa ha affidato lʼimportante compito di
trasmettere un altro valore simbolico dellʼopera dʼarte, come il bianco in relazione alla dimensione nuziale o lʼoro in collegamento
allʼorigine antica e sacra dellʼarte (il fondo dorato delle icone russe indica la quarta dimensione, da lei stessa sempre perseguita).
Un evento raro e prezioso che testimonia ancora una volta il ruolo della Fondazione Roma nello sviluppo e nella promozione
dellʼofferta culturale della città di Roma e la sua passione per lʼarte dʼoltreoceano, stavolta focalizzata su Louise Nevelson che, con le
sue importanti opere, evidenzia il mondo artistico femminile e il legame da sempre esistente tra lʼAmerica e lʼEuropa. È quindi motivo di
profonda soddisfazione per la Fondazione Roma aver con questa mostra indagato ancora una volta le “radici” della storia artistica
contemporanea e averle portate allʼattenzione del grande pubblico, con la speranza di riuscire ad avvicinarlo, tramite il linguaggio
universale dellʼArte, allʼattuale riflessione sulle nostre origini e sulla dimensione del passato come fonte primaria per costruire un futuro
migliore.
Emmanuele Francesco Maria Emanuele
Presidente Fondazione Roma
COMUNICATO STAMPA
Sarà aperta al pubblico dal 16 aprile al 21 luglio 2013 presso il Museo Fondazione Roma, nella sede di Palazzo
Sciarra, la mostra Louise Nevelson, promossa dalla Fondazione Roma e organizzata dalla Fondazione Roma-Arte-
Musei con Arthemisia Group. Lʼesposizione, realizzata con il patrocinio dellʼAmbasciata Americana e in
collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano e la Nevelson Foundation di Philadelphia, annovera oltre 70
opere della scultrice americana di origine russa Louise Berliawsky Nevelson (Pereyaslav-Kiev, 1899; New York, 1988).
«Con la mostra dedicata a Louise Nevelson – dichiara il Presidente della Fondazione Roma, Prof. Avv. Emmanuele
F.M. Emanuele – il Museo Fondazione Roma conferma il proprio impegno per la diffusione della cultura internazionale,
offrendo la possibilità di avvicinarsi a realtà meno note al grande pubblico, ma non per questo meno importanti per lo
sviluppo dellʼarte del ventesimo secolo».
«Lʼomaggio alla scultrice americana – prosegue il Prof. Emanuele – costituisce lʼulteriore tappa di un viaggio al di là dei
confini artistici del nostro Paese, che rappresenta a pieno lʼidentità della Fondazione Roma, i suoi valori, la sua apertura
agli altri, lʼattenzione costante per la circolazione delle idee e il dialogo tra le culture».
«Questo progetto – conclude il Presidente della Fondazione Roma – rivolge unʼattenzione particolare al mondo
femminile, focalizzandosi sulla personalità e sul tratto figurativo di alcune donne che hanno apportato un contributo
significativo allʼarte contemporanea. Il percorso, infatti, è iniziato nel 2009 con lʼesposizione dedicata a Niki de Saint
Phalle ed è proseguito con la mostra che ha visto protagonista Georgia OʼKeeffe, nel 2011».
La retrospettiva, a cura di Bruno Corà, narra il contributo che lʼartista ha dato allo sviluppo della nozione plastica: nella
scultura del secolo scorso la sua opera occupa un posto di particolare rilievo, collocandosi tra quelle esperienze che,
dopo le avanguardie storiche del Futurismo e del Dada, hanno fatto uso assiduo del recupero dellʼoggetto e del
frammento con intenti compositivi. La pratica dellʼimpiego di materiali e oggetti nellʼopera dʼarte, portata a qualità
linguistica significante da Picasso, Duchamp, Schwitters e altri scultori, nonché lʼassemblage – spesso presente anche
nellʼelaborazione della scultura africana – esercitano una sensibile influenza sin dagli esordi dellʼattività della giovane
artista, che emigra con la famiglia negli U.S.A nel 1905, stabilendosi a Rockland nel Maine. La Nevelson, insieme a
Louise Bourgeois, ha segnato in maniera imprescindibile lʼarte americana del XX Secolo.
La mostra racconta, attraverso un percorso emblematico, lʼattività della Nevelson, che prende avvio dagli anni Trenta,
con disegni e terrecotte, consolidandosi poi attraverso le successive sculture: gli assemblage in legno dipinto degli anni
ʼ50, alcuni capolavori degli anni ʼ60 e ʼ70 e significative opere della maturità degli anni ʼ80. Le opere presenti in mostra
provengono da importanti collezioni nazionali e internazionali di istituzioni e musei, quali la Louise Nevelson
Foundation, il Louisiana Museum of Modern Art di Humlebaekin in Danimarca, il Centre national des arts plastiques in
Francia, The Menil Collection, la Pace Gallery di New York e la Fondazione Marconi.
Nel 1986 la collettiva Quʼest-ce que la Sculpture Moderne?, presso il Centre Georges Pompidou a Parigi, consacra
Louise Nevelson tra i più grandi scultori della sua epoca. Lʼartista seguita a lavorare sino alla sua scomparsa,
sopravvenuta a New York il 17 aprile del 1988, mentre le sue opere vengono acquisite da noti musei e collezionisti
privati negli Stati Uniti e nel mondo.
Il catalogo, edito da Skira, accanto alle immagini delle opere, include il saggio critico del curatore Bruno Corà e alcuni
testi storico-critici di Thierry Dufrêne, Thomas Deecke, Aldo Iori, oltre ad un testo di Louise Nevelson del 1972 e uno di
Maria Nevelson – nipote della Nevelson – e una conversazione con Giorgio Marconi, Presidente della Fondazione
Marconi, che ha diffuso in Italia l'opera della Nevelson.
LʼARTISTA
Leah Berliawsky nasce il 23 settembre del 1899 in Ucraina, a Pereyaslav, cittadina a sud-est di Kiev.
A causa della partenza del padre per gli Stati Uniti, a 5 anni smette di parlare per sei mesi e riprende quando, allʼinizio
del 1905, la famiglia si ricongiunge in America. Il suo nome viene cambiato in Louise. Durante lʼadolescenza coltiva
lʼinteresse per la cultura in generale grazie alla mentalità aperta del padre, che ritiene di dover dare a tutti i suoi figli,
indipendentemente dal sesso, unʼadeguata istruzione.
Determinata sin da giovane a non sposarsi per dedicarsi interamente allʼarte, a soli diciassette anni incontra Charles
Nevelson, che chiede la sua mano. Accetta di sposarsi perché il matrimonio può garantirle la cittadinanza americana,
stabilità economica e perché il fidanzato non si oppone al suo progetto di divenire unʼartista. Nel 1920 i coniugi
Nevelson si trasferiscono a New York. Nel 1922, da una gravidanza non voluta, nasce Myron Irvin Nevelson, poi detto
Mike.
Nel 1924 la coppia si trasferisce a Mount Vernon: la lontananza dallʼambiente newyorkese causa i primi dissidi di
coppia. In questo periodo Louise si dedica a studi metafisici e di spiritualismo. Nel 1928 i coniugi tornano a Manhattan e
Louise inizia a prendere lezioni da Hilla von Rebay, che le mostra le opere di Kandinsky e di Klee e la spinge a recarsi
in Europa.
Nellʼottobre 1931 visita Monaco, Vienna, Berlino, Salisburgo, Parigi, quindi lʼItalia, dove ammira i lavori di Giotto. A
Monaco e a Parigi vede quadri del periodo cubista, che rappresentano per lei una vera e propria rivelazione.
Nel 1933 conosce e lavora con Diego Rivera e diventa amica della moglie, Frida Kahlo.
Nel 1935 insegna pittura murale e inizia a esporre in piccole gallerie del Greenwich Village. Dello stesso anno, la prima
importante prova pubblica nellʼesibizione annuale della Society of Indipendent Artists, organizzata dal Rockefeller
Center; la seconda è ancora una collettiva.
La critica inizia ad accorgersi della sua presenza, ma nonostante i primi riconoscimenti, vende pochissimo e ciò è fonte
di sconforto.
Donna intelligente e molto bella, ma anche volubile e anticonformista, tra alti e bassi di umore, Louise è incostante nelle
amicizie, non aderisce a nessun gruppo artistico ed è sempre concentrata su se stessa. La necessità di una vita libera
da legami, alcune avventure sentimentali e gli incoraggiamenti di maestri e amici a dedicarsi interamente allʼarte, la
distaccano dal marito da cui divorzierà nel 1941. La sua stravaganza e il suo carattere contribuiscono a determinare un
giudizio negativo sulla sua persona che si riflette sul suo lavoro, escluso da rassegne artistiche e non compreso.
Allʼinizio degli anni ʼ40 New York è piena di artisti in fuga dalla guerra europea e la Nevelson ne conosce molti, tra cui
Piet Mondrian. Ad agosto del 1941 decide di modificare lʼatteggiamento nei confronti del mondo dellʼarte e si reca nella
prestigiosa galleria di Karl Nierendorf per chiedere una personale, che il gallerista organizzerà, con un impatto
favorevole sulla critica.
Il figlio Mike parte per la guerra. Nel 1942 inaugura una seconda personale presso la stessa galleria Nierendorf: le sue
opere sono ora il risultato di assemblaggi che anticipano il lavoro degli anni seguenti e sempre più spesso compare il
nero come unico colore dominante.
Nel gennaio del 1943 partecipa alla mostra Thirty-One-Women presso Art of This Century, la galleria di Peggy
Guggenheim.
Il suo equilibrio emotivo muta grazie al miglioramento del rapporto con il figlio e alla sua relazione con lʼartista Ralph
Rosenborg, durata più di cinque anni. Matura così in lei una nuova coscienza del lavoro e dellʼimportanza
dellʼesposizione delle proprie opere.
Ma il suo lavoro è letto ancora come una deriva surrealista. La critica sarà invece positiva nei suoi confronti nel 1946,
grazie allʼopera Young Bird, inclusa nellʼannuale esposizione del Whitney Museum of American Art di New York.
A partire dal 1947 Louise studia le nuove tecniche di stampa presso Atelier 17 di Stanley William Hayter.
Dopo la guerra molti artisti rientrano in Europa. Nevelson frequenta assiduamente i colleghi dellʼespressionismo
astratto, tra cui Rothko, ma è esclusa dalle loro mostre. Parte per il Messico dove ritrova Rivera e rimane affascinata
dallʼarte precolombiana.
Negli anni ʼ50, accettata come membro della Federation of Modern Painters and Sculptors, è oramai nota come Lady
Lou.
Giungono i primi riconoscimenti pubblici e nel 1952 è accolta alla National Association of Women Artists. Le sue opere
cominciano ad avere un mercato, sono anni di intenso lavoro, durante i quali la critica la sostiene, e nel 1958 Life le
dedica un servizio.
Nel 1959 il Museum of Modern Art di New York acquista una sua opera e altre entrano nelle collezioni del Whitney
Museum e del Brooklyn Museum di New York, dellʼAlabamaʼs Birmingham Museum, del Museum of Fine Arts di Huston
e del Fansworth Museum di Rockland.
Jean Arp vede lʼopera del MoMA e le dedica un poema.
Negli anni ʼ60 Nevelson meraviglia il mondo dellʼarte con grandi sculture monocrome bianche, nere e oro, esponendole
nella personale Royal Tides alla Martha Jackson Gallery e alla Biennale di Venezia del 1962. In seguito la sua arte
approda da Cordier a Parigi, alla Kunsthalle di Baden-Baden in Germania e al Whitney Museum. Si interessa a inedite
esperienze professionali e i suoi lavori raggiungono dimensioni sempre maggiori, in sintonia con le grandi opere
dell'Espressionismo Astratto.
In questi anni è più che mai attiva: amplia il suo studio e la presenza di assistenti le permette di lavorare molte ore al
giorno e di riprendere l'attività grafica, rispondendo alle richieste di un mercato ormai internazionale.
Numerose sue personali sono ospitate in musei pubblici e gallerie private. In Italia – dopo aver esposto nel 1970 alla
galleria Lolas-Galatea di Roma – inaugura nel 1973 una mostra di ottanta lavori eseguiti tra il 1955 e il 1972 presso lo
Studio Marconi di Milano, con cui inizia un felice e duraturo rapporto; nel 1976 partecipa nuovamente alla Biennale di
Venezia.
Anche la critica la osanna come la più grande scultrice vivente. Nevelson cura molto la sua immagine, dai toni sempre
eccessivi, tra il drammatico e il fatale, con foulard e ciglia finte e vestiti ricercati, quasi lei stessa fosse una creazione
artistica.
Negli ultimi anni della sua vita – ancora prolifica e attiva – le diagnosticano un cancro polmonare. Le cure la violentano
e la indeboliscono; nel febbraio 1988 smette di parlare e il 17 aprile muore nella sua casa newyorkese. Il mondo
dell'arte le tributa i massimi onori, mai prima riservati ad un'artista donna.
LA MOSTRA
Strutturata in un percorso che riunisce nuclei di opere, la mostra permette di comprendere lʼevoluzione artistica della
Nevelson cronologicamente e tematicamente.
Nelle prime sale sono collocati manufatti di piccole dimensioni che documentano l'uso del colore nero fin dai primi anni
Quaranta. Subito dopo alcuni lavori dei primi anni Cinquanta – come Moon Spikes n. 112 (1953) e Moon Spikes IV
(1955) –, sono presenti opere del periodo più maturo dell'artista, tra la fine degli anni ʼ50 e lʼinizio degli anni ʼ60, come
Night Sun I (1959), Royal Tide III (1960, Louisiana Museum of Modern Art, Humlebæk, Danimarca) e Ancient Secrets II
(1964). Queste rivelano come la libertà compositiva, dovuta allʼassemblaggio di elementi geometrici non pienamente
lavorati, muta nell'uso di frammenti di mobilio inseriti in strutture scatolari. Il colore nero omogeneo domina in tutte le
opere.
In mostra sette disegni, datati dal 1930 al 1933: questi sono essenziali nella poetica della Nevelson, perché dal disegno
nasce lʼidea portante del suo lavoro. Il suo tratto mimetico diviene sicuro nella ricerca di nuove spazialità e la figura
femminile ritratta – come in Untitled (Female Nude, 1933) – appare emblematica di una libertà compositiva. Evidenti
anche le adesioni alle istanze delle avanguardie scoperte nei suoi viaggi in Europa (1931-1932), nelle scuole d'arte che
frequenta e attraverso contatti diretti con gli artisti europei a New York.
In questi stessi anni, ceramiche come lʼopera Untitled – terracotta dipinta del 1935 – ribadiscono l'interesse per il
Cubismo e il Surrealismo, e anche per soluzioni antropomorfe proprie delle culture precolombiane, trasmesse da Diego
Rivera e da Frida Kalho, frequentati dallʼartista nel 1933 a New York.
Accanto ai disegni tre serigrafie realizzate a metà degli anni Settanta documentano l'interesse di Louise per la grafica,
che studia fin dal 1947 presso il famoso Atelier 17 di New York di Stanley W. Hayter. È un'esperienza importante per
lei, durante la quale elabora tecniche di stampa anticonvenzionali, con procedure personali e sperimentazione
compositiva.
Nel 1963 lavora anche presso la Tamarind Lithography Workshop di Los Angeles, dove lʼartista è ospite dello studio.
Qui sviluppa modalità esecutive per cui gli elementi materici – quali ritagli, trine, elementi traslucidi – vengono aggiunti a
piani cromatici creando stampe sempre più preziose.
Sempre di questo periodo sono le opere orizzontali e verticali di legno nero, esempi di accumulazione su supporti
bidimensionali rettangolari, come Untitled del 1976-1978, in cui gli oggetti, elementi geometrici di mobilio, sono
accostati secondo una ricerca di equilibrio tra le masse.
Accumulazioni verticali dei primi anni ottanta chiudono la prima parte del percorso. Più che in altri casi in cui l'artista ha
utilizzato la forma verticale, queste sculture mostrano una spazialità nei volumi che accentua la tridimensionalità. Nella
sala del museo che ospita queste sculture, una luce blu illumina le opere, creando una particolare visione della materia
e accentuandone la valenza metafisica.
Nella quinta sala, al costante utilizzo da parte dellʼartista del nero, si contrappongono alcune opere completamente
bianche, colore che rende maggiormente evidenti i rapporti tra luce e ombra: la scultura intitolata Dawnʼs Host (1959),
un vistoso disco bianco, testimonia il passaggio a questo colore, avvenuto negli ultimi anni Cinquanta.
Le sue opere bianche vengono presentate per la prima volta al pubblico nel 1959 con lʼinsieme Dawn's Wedding Feast
presso il Museum of Modern Art di New York: una grande installazione dedicata al tema nuziale, composta da più
elementi. Le varie parti dellʼopera verranno nel tempo acquisite da più collezionisti, nonostante Nevelson le avesse
concepite come un unico lavoro. La mostra romana riunisce due pezzi dal titolo Columns from Dawn's Wedding Feast
del 1959, provenienti da The Menil Collection della città di Houston.
Il colore nero dà alle sculture un senso di monumentalità. Il bianco invece indica un punto di vista più sereno per
lʼartista, che afferma: «Quando mi sono innamorata del nero, per me conteneva tutti i colori. Non era una negazione, al
contrario, era un'accettazione [...] per me è il massimo», ma poi aggiunge: «Per me, il nero contiene la forma, l'essenza
dell'Universo. Ma il bianco esce fuori nello Spazio con più libertà».
Nella stessa sala la produzione degli anni settanta e ottanta – come lʼopera Sky-Zag IX (1974) – è messa a confronto
con le fotografie di grandi installazioni realizzate negli stessi anni all'aperto quali Dawn Shadows (1982), che si erge in
Madison Plaza a Chicago e Frozen Laces-Four (1976-80) in Madison Avenue a New York.
Nonostante l'avversione per l'assenza di manualità diretta, dovuta alla monumentalità di queste installazioni in metallo,
la Nevelson inizia comunque a produrre una serie di opere pubbliche – anche in omaggio alle vittime dell'Olocausto –
ancora oggi visibili in tutto il mondo.
Lʼambiente successivo accoglie il più grande lavoro di Louise Nevelson in mostra – Homage to the Universe (1968) –
che, con i suoi otto metri di lunghezza, è il protagonista assoluto dello spazio. Il passaggio di scala operato dall'artista in
opere come queste è influenzato dalla realizzazione delle grandi installazioni pubbliche.
Esposti anche sei grandi collages di differenti dimensioni, come il Untitled del 1980 circa e il Untitled del 1985 circa, che
rappresentano una particolare serie. La bidimensionalità, l'assenza di una colorazione uniforme, le forme ritagliate,
rivelano la particolare attenzione ai piani prospettici che si determinano nelle sovrapposizioni. Affiora la lezione cubista
per coniugarsi con l'esperienza pluridimensionale.
Nella sala seguente, la poeticità e il lirismo dei volumi e delle forme di opere come Tropical Landscape I (1975) sono
affiancati da una gigantografia di New York, città sempre amata dall'artista. La composizione geometrica e la semplicità
di questi lavori avvicina la Nevelson alle contemporanee esperienze della generazione minimalista statunitense.
Chiudono il percorso opere di colore oro quali The Golden Pearl (1962), Royal Winds (1960) e Golden Gate (1961-70)
che risalgono ai primi anni sessanta. Lʼartista riconduce il suo interesse per questo colore principalmente al detto degli
emigranti russi, in base al quale le strade americane si pensava fossero lastricate dʼoro, ma anche allʼalchimia e al
lusso dellʼarte antica: «L'oro è un metallo che riflette il grande sole. [...] Di conseguenza penso sia giunto naturalmente
dopo il nero e il bianco. In realtà era per me un ritorno agli elementi naturali. Ombra, luce, il sole, la luna».
Nella vita della Nevelson il nero, il bianco e lʼoro hanno un ruolo fondamentale: lei stessa mantiene separati
cromaticamente i suoi lavori, negli insiemi e nelle installazioni, oltre a dividere il suo studio secondo il colore delle
opere. Anche quando partecipa nel 1962 al Padiglione Statunitense della XXXI Esposizione Internazionale dʼArte della
Biennale di Venezia decide di creare tre spazi differenti, uno nero, uno bianco e uno oro, realizzando tre installazioni
disposte in base ai colori nellʼingresso e nelle due sale adiacenti. La sola luce naturale illumina lʼambiente, filtrando da
velari posti sul soffitto, creando una particolare atmosfera che stupisce ed entusiasma la critica.
Molte fotografie storiche originali accompagnano il percorso, come il famoso ritratto di Louise Nevelson realizzato da
Robert Mapplethorpe nel 1986, e gli scatti di Enrico Cattaneo eseguiti nel 1973 durante la mostra presso lo Studio
Marconi di Milano e di Pedro E. Guerrero nel 1979-80. Fruibile dal pubblico è anche un documentario-intervista che
mostra l'artista in azione nel suo studio e approfondisce alcuni aspetti interessanti dellʼaffascinante lavoro della
scultrice.
Ufficio Stampa di mostra Arthemisia Group
Adele Della Sala | [email protected] | T. +39 06 69380306 | M. +39 345 7503572
Barbara Notaro Dietrich | [email protected] | M. +39 348 7946585
[email protected] - T. +39 06 69380306
Fondazione Roma
Comunicazione e Relazioni Esterne
Paola Martellini | [email protected] | T. +39 06 697645.111
Davide Vannucci | [email protected] | T. +39 06 697645.109
Valeria Roggia | [email protected] | T. +39 06 697645.139
Catalogo Skira
Lucia Crespi | [email protected] | T. +39 02 89415532 | T. +39 02 89401645
SCHEDA TECNICA
Titolo
Louise Nevelson
Sede
Museo Fondazione Roma
Palazzo Sciarra
Via Marco Minghetti, 22 - 00187 Roma
T +39 06 697645599
www.fondazioneromamuseo.it
Date al pubblico
Dal 16 aprile 2013 al 21 luglio 2013
Con il patrocinio di
Ambasciata degli Stati Uniti dʼAmerica
Mostra promossa da
Fondazione Roma
Organizzata da
Fondazione Roma Arte Musei
con
Arthemisia Group
in collaborazione con
Fondazione Giorgio Marconi
Nevelson Foundation di Philadelphia
con il contributo tecnico di
Decos Roma
Mostra a cura di
Bruno Corà
Coordinamento scientifico
Aldo Iori
Biglietteria e ufficio gruppi
Civita
Progetto didattico
Francesca Valan
Servizi educativi
WorkInProject
Audioguide
Start
Catalogo
Skira
Orario apertura
Tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00 - lunedì chiuso
la biglietteria chiude unʼora prima
Biglietti
Intero € 10.00
Ridotto € 8.00
Giovani fino a 26 anni; adulti oltre i 65 anni; forze dellʼordine e
militari con tessera di riconoscimento; studenti universitari con
libretto e docenti delle Facoltà con indirizzo Storia dellʼArte;
dipendenti Ministero per i Beni e le Attività Culturali; adulto
che accompagna un minore.
Ridotto gruppi € 8.00 (massimo 25 persone, prenotazione
obbligatoria).
Scuole € 4.50 (ad alunno)
Famiglia € 20.50 (dai 3 ai 5 componenti)
Omaggio
Studenti universitari con libretto (il mercoledì dalle 14.00 alle
19.00); adulti oltre i 65 anni (il martedì dale 14.00 alle 19.00);
bambini fino a 6 anni; visitatori diversamente abili (incluso 1
accompagnatore); 1 accompagnatore per ciascun gruppo
prenotato; 1 accompagnatore ogni 10 studenti; possessori
Tessera Amici del Museo; Giornalisti muniti di tessera di
riconoscimento; soci ICOM; Confesercenti; Federagit - Guide
Turistiche Roma
Convenzioni
FAI
Possessori Bibliocard
Feltrinelli Carta Più
Dipendenti Agenzia delle Entrate - Direzione Regionale
Lazio
Archeoclub dʼItalia
Avis
Roma Pass
ATAC - METREBUS
CTS
IED Istituto Europeo di Design
Pagine Bimbo
Associazione Dimore Storiche Italiane
Mondadori Card / Selecard
Upter (Università Popolare Terza Età)
Informazioni e prenotazioni
T +39 06 69205060
da lunedì a venerdì ore 9.00-18.00 - chiuso sabato domenica
e festivi
www.fondazioneromamuseo.it
www.louisenevelsonroma.it
Visite guidate per singoli
(tutte le domeniche ore 16.00, massimo 25 persone,
prenotazione consigliata, biglietto di mostra escluso)
€ 5.00
Visite guidate
(minimo 10 massimo 25 persone, prenotazione obbligatoria,
biglietto di mostra escluso)
Gruppi
Italiano e lingua straniera (inglese - francese - spagnolo)
€ 100.00
Scuole
(minimo 10 massimo 25 persone, prenotazione obbligatoria,
biglietto di mostra escluso)
€ 80.00
Visita giocata per famiglie – Totem di famiglia
(tutte le domeniche ore 11.00, massimo 25 persone,
prenotazione obbligatoria, biglietto di mostra escluso)
€ 6.00 (a bambino)
gratuita ogni prima domenica del mese
Audioguide
Adulti € 5.00 (italiano - inglese)
Doppia € 8.00 (italiano - inglese)
Sistema di microfonaggio
Incluso nel costo del biglietto, per gruppi e scuole con guida
interna ed esterna.
Ufficio Stampa
Arthemisia Group
Adele Della Sala - [email protected]
M +39 345 7503572
Barbara Notaro Dietrich - [email protected]
M +39 348 7946585
[email protected] - T +39 06 69380306
Fondazione Roma
Comunicazione e Relazioni Esterne
Paola Martellini - [email protected]
T +39 06 697645111
Davide Vannucci - [email protected]
T +39 06 697645109
Valeria Roggia - [email protected]
T +39 06 697645139
Catalogo Skira
Lucia Crespi - [email protected]
T +39 02 89415532
T +39 02 89401645
Louise Nevelson: forme e immagini della memoria
Bruno Corà
“Forse i miei occhi hanno
una grande memoria di tanti secoli”1
Louise Nevelson
Quanto siano state intense e complesse la vita e lʼarte di Louise Nevelson risulta ormai evidente non solo dalle
numerose importanti opere presenti in questa mostra e in molte collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, ma
soprattutto per il succedersi di significativi episodi espositivi e da una ripresa crescente negli ultimi anni di studi e
pubblicazioni2 che ne celebrano il lavoro e la personalità, fino a renderla emblematica ed esemplare negli sviluppi
dellʼarte contemporanea e in quelli stessi della cultura e del costume odierno, soprattutto in relazione alla condizione
della donna oggi, dopo le esperienze del femminismo e lʼintensificarsi della presenza artistica femminile in quasi tutti i
paesi del mondo.
Unʼattenta lettura degli avvenimenti che hanno segnato il suo percorso esistenziale e professionale, come si può
rilevare in quel tracciato puntuale offerto dal saggio di Aldo Iori in altra parte di questʼopera, pone in evidenza tanto la
congenita inquietudine della Nevelson emersa sin dallʼadolescenza, quanto la tenacia della sua personalità, esercitata
inarrestabilmente nel corso di anni difficili, avversi, entro ambienti tuttʼaltro che disponibili alle sue esigenze spirituali
e culturali, fino a conseguire il pieno dispiegamento della sua vocazione di artista, che la Nevelson concepisce
ineluttabile alla stregua di un vero e proprio destino. “Fin dalla primissima infanzia ero sicura che sarei diventata
unʼartista”3. Lʼepisodio, rievocato da lei stessa, della visita compiuta allʼetà di nove anni, in compagnia di unʼamica
coetanea, alla biblioteca di Rockland nel Maine – dove la famiglia era emigrata da Kiev –, è un eloquente riscontro di
quella convinta previsione di vita: “Ricordo di essere andata in biblioteca, non potevo avere più di nove anni. Ci andai
con unʼaltra bambina per farmi dare un libro. La bibliotecaria era una donna piuttosto colta, e chiese alla mia piccola
amica: ʻBlanche, che cosa farai da grande?ʼ e Blanche rispose che avrebbe fatto la contabile. Cʼera una grande statua
in gesso di Giovanna dʼArco al centro della biblioteca, e io la guardai. A volte rimanevo spaventata dalle cose che
dicevo perché sembrava che le dicessi così, automaticamente. La bibliotecaria mi chiese che cosa avrei fatto io, e
naturalmente dissi: ʻSarò unʼartistaʼ. ʻNo – aggiunsi – voglio fare lo scultore, non voglio che il colore mi aiutiʼ.
Rimasi così spaventata che tornai a casa piangendo. Come potevo saperlo se non ci avevo mai pensato prima?”4
Nonostante la pianificazione della propria vita, quasi geneticamente predeterminata, risultano frequenti i momenti di
sconforto e cedimento, le drammatiche oscillazioni tra la tentazione di rinuncia allʼazione artistica e la volontà di
superamento delle difficoltà. Le testimonianze che la riguardano, come le sue stesse dichiarazioni, tracciano un profilo
delle sue vicende personali e di chi lʼha frequentata in quegli anni eroici ma dolorosi, che sembrano averla più volte
condotta ai limiti del fallimento e dellʼabbandono della propria avventura5.
Nel susseguirsi degli eventi e degli episodi che coinvolgono nella propria affermazione artistica altre identità e altri
destini, la Nevelson ha proceduto in modo rabdomantico, obbedendo a un imperativo interiore categorico da lei stessa
denominato, con una similitudine tecnologica, blueprint, quasi a significare che ogni sua intuizione e decisione era
in rispondenza e attuazione di qualcosa fatidicamente già “previsto” e predestinato. Una tale concezione, oltretutto
resa nota attraverso scritti autobiografici, interviste e statements negli anni in cui, superate le maggiori prove e i più
duri ostacoli, il successo iniziava ad arriderle, ha suscitato nella riflessione critica di taluno perplessità
e considerazioni differenti6.
In realtà, proprio lʼaccresciuto interesse per la sua opera, lʼintensificazione degli studi e la frequenza crescente delle
mostre dedicate al suo lavoro hanno reso simbolica, agli occhi di molte giovani artiste, ma anche di intellettuali e
donne protese a obiettivi di affrancamento individuale o anche di semplice realizzazione di sé, la storia di Louise
Nevelson, come peraltro quella di Louise Bourgeois o di Georgia OʼKeeffe e di altre grandi figure femminili dellʼarte
del XX secolo7.
A seguito di tale fenomeno, lʼattività critica e le esegesi sviluppate attorno allʼopera e alla vita della Nevelson si sono
divise in differenti fronti volti a sottolineare alcuni dati distintivi della sua esperienza. Anzitutto lʼessere stata unʼartista
donna e pertanto sinonimo di quel riscatto femminista che la Nevelson esplicitamente però non sembra aver mai
rivendicato, salvo più semplicemente aver individuato la sua come “sensibilità femminile” nel pensare il lavoro artistico
e lʼopera dichiarandola diversa da quella maschile; inoltre attribuendole comportamenti e poteri sciamanici, in quanto
interprete di una creatività e ritualità mutuata da culture native del Nord e del Centro America; infine, elaborando
ipotesi ermeneutiche che, a partire dai colori con cui la Nevelson ha rivestito nel tempo le sue opere, si è giunti ad
attribuirle una “sapienza” alchemica che, se la si vuole sostenere, bisognerà convenire che è stata esercitata con
discrezione e intuitivamente, certamente a livelli diversi da quelli attribuiti ad artisti come Marcel Duchamp,
riconosciuto da molti studiosi come moderno alchimista8.
A tali ottiche critiche si può in parte aderire, poiché la Nevelson stessa ha accreditato, nel corso degli anni, la loro
diffusione, favorendo con un abbigliamento flamboyant, con azioni e dichiarazioni oracolari e medianiche e un
behavior degno di uno stregone, la propria immagine.
Il problema critico più interessante, tuttavia, a mio avviso ineludibile, non può prescindere dal confrontarsi con la cifra
linguistica dellʼopera della Nevelson. È la sua inconfondibile morfologia, infatti, più di ogni altro dato agiografico pur a
lei ascrivibile, che consente di poter giungere al nucleo di senso più profondo ed essenziale del lavoro di questa
artista.
Per una nuova lettura della sua opera si deve dunque riosservarne non solo le forme, ma le modalità costruttive e
i principi strutturali e di concezione che presiedono a esse. è alla soglia di tali contenuti che ci si trova a dover
constatare quella complessità di cui si è accennato allʼinizio e che il lavoro della Nevelson effettivamente possiede.
Lʼopera e il vissuto
Quando si ha lʼimpatto con lʼazione plastica della Nevelson così come si è venuta definendo alla metà degli anni
cinquanta con opere come Moon Garden Reflections, 1956 circa (cat. 18), o ancor più verso la fine di essi con opere
come Royal Tide III, 1960 (cat. 26), allorché lʼartista ha raggiunto una maturità linguistica e la dimensione dei suoi più
grandi assemblages, definiti in altri casi “cattedrali” – alla stregua di quel Merzbau, 1933, di Schwitters (fig. 2), da lui
definito “cattedrale della mia passione erotica” – si ha la sensazione di trovarsi effettivamente di fronte a “muri”
monocromi neri, costellati di forme recanti insiemi di decine, centinaia, talvolta migliaia di frammenti di legno
diversamente accostati, inseriti in cassette di legno che li rinserrano in un ordine tanto casuale e arbitrario quanto
essenziale. Dallʼimpressione che si riceve, non si può fare a meno di interrogarsi sulle origini e sulle ragioni di quella
struttura plastica che si erge di fronte allo sguardo, gremita di morfologie diverse e attigue, “ordinate” entro moduli
geometrici dalla forma di parallelogrammi, cubi o rettangoli, ma anche ovali e triangoli, assemblati tra loro e resi
uniformi da un unico colore, il quale, se tende ad annullare la varietà morfologica, in realtà ne omologa le differenze,
liberando contestualmente un fantasmagorico sciame di ombre che, allʼistante, influenzano percettivamente la vista e
il pensiero.
A un esame più approfondito, gli aspetti che si evidenziano maggiormente su ogni elaborato sono numerosi. Il primo di
essi riguarda la frontalità della costruzione realizzata dallʼartista e insieme a essa la verticalità di quella frontalità. Se
si torna a esaminare quel considerevole risultato rappresentato da Moon Garden Reflections, 1956 circa, si può
facilmente desumere la grammatica e la sintassi del modo costruttivo della Nevelson. Le tre cassette di legno, poste
una sullʼaltra a formare il volumetrico innalzamento delle forme, scandiscono al proprio interno differenti
“composizioni” eseguite con materiali lignei residuali. In ogni caso, ciò che suscita interesse è la cura e la sapiente
sensibilità con cui resti apparentemente insignificanti di inidentificate forme, appartenute un tempo a oggetti
sicuramente definiti ed elaborati con abilità da mani esercitate, giacciono affiancati o sovrapposti tra loro rassegnando
una cavità – quella della cassetta – che, in tal modo, attraverso la loro giustapposizione, attraverso le ombre di parti
inaccessibili e insondabili, ma soprattutto mediante rapporti formali di imprevedibile valenza, si qualifica come
spazialità plastica inedita, poiché il suo modello – probabilmente – risiede nellʼoblio della coscienza stessa del suo
artefice.
Successivamente, ma non con minore rilevanza, appare significativa lʼestensione in senso spaziale e orizzontale
dellʼorganismo composto dai frammenti inseriti con criteri compositivi entro le scatole lignee. Il volume della
“costruzione” compiuta mediante assemblaggi successivi ostenta unʼunità, esito di molteplici componenti scatolari
difformi per grandezza e foggia. Nellʼopera Royal Tide III, 1960, realizzata in legno dipinto nero, come molti lavori
della Nevelson a partire dagli anni quaranta in poi, si può ben osservare tale processo di strutturazione plastica. Sul
basamento che eccede di poco la volumetria dellʼopera si ergono quattro allineamenti verticali di forme scatolari le cui
modalità costruttive sono analoghe a quelle osservate in Moon Garden Reflections, cioè di alveoli irregolari accostati
tra loro fino a formare unʼunica più grande struttura composita. Ciò che si riscontra in ogni alveolo-scomparto è
lʼaccurata ed empatica associazione di forme recate da frammenti impiegati secondo una tradizione visiva e
compositiva che risale alla raffigurazione della “natura morta”. Diversamente dal genere storico riconosciuto come
tale, negli insiemi della Nevelson la “natura” non è rappresentata né da un animale né da frutta, né da oggetti recanti
una forma totalmente qualificata come un vaso, una bottiglia o altro oggetto elaborato, ma da elementi in legno
derivati dalla frattura di tavole o da altre precedenti elaborazioni di suppellettili, mobili, steccati o residui di lavorazioni
industriali del legno. Che questi siano anchʼessi delle “nature” non vi è dubbio, essendo il legno un vegetale; che
siano altresì “morte” si potrebbe perfino convenirne poiché si tratta di scarti oggettuali destinati allʼoblio ma “salvati”
da recuperi effettuati dalla Nevelson in discariche urbane. La colorazione in nero di ogni singola parte, compiuta
dallʼartista precedentemente allʼassemblaggio entro le cassette di legno, anchʼesse dipinte con lo stesso colore prima
dellʼintera costruzione dellʼopera, avvalorerebbe, peraltro, quellʼattribuzione alchemica conferita allʼattitudine
“officiante” della Nevelson nella fase della “nigredo” della materia, quando cioè essa, dopo lʼabbandono dallʼuso,
giunge alla morte necessaria prima della rinascita, contraddistinta dalla successiva fase dellʼ“albedo” attuata mediante
la stesura del colore bianco.
Sulla “natura morta” quale genere iconografico e sulla metamorfosi dellʼoggetto, aspetto pur presente nellʼopera della
Nevelson, si tornerà tuttavia più avanti. Intanto le osservazioni compiute su unʼopera come Moon Garden Reflections,
che ha già raggiunto la propria definizione linguistica da parte di unʼartista di circa sessantʼanni, quanti ne ha la
Nevelson nel 1956, richiedono di essere approfondite. È necessario infatti domandarsi attraverso quali precedenti
aspetti e modalità siano passate le sue ricerche e le sue elaborazioni prima di giungere a tali risultati e ai successivi
sviluppi, come pure da quali profonde esigenze abbia ricavato i principi semiotici e formativi del suo linguaggio.
Una scultura in cerca di identità
Il lungo tirocinio nelle diverse forme dʼarte svolto in gioventù dalla Nevelson, con lʼassiduo interesse per il disegno e
la pittura, ma anche per il canto (con Estelle Liebling), il teatro (con Frederick Kiesler) e la danza, sfociato infine nella
frequentazione della Art Students League (1929) e, successivamente, nei corsi tenuti da Hans Hofmann sia a Monaco
(1931) alla Schule für Moderne Kunst sia a New York, portano lʼartista, in quegli anni, alla scoperta dellʼesperienza
cubista e soprattutto dellʼopera di Picasso, vero fattore rivelatore per la giovane Nevelson di quello che sarebbe
divenuto il suo cammino. Lʼinfluenza esercitata dallʼopera di Picasso sullʼarte della Nevelson è dichiarata da lei
stessa. Nondimeno la frequentazione a New York, negli anni quaranta, dellʼambiente che circondava la galleria Art of
This Century (progettata dallʼarchitetto Kiesler per Peggy Guggenheim) e suscitato da Marcel Duchamp, Max Ernst,
Francis Picabia, Man Ray, André Breton e altri capifila del Dada e del surrealismo, accresce la sua conoscenza delle
maggiori conquiste linguistiche delle avanguardie dellʼinizio del secolo, accanto alla quarta dimensione e al cubismo,
al ready-made, al collage, al fotomontaggio, alla lezione neoplastica di Mondrian e al polimaterismo cubo-futurista,
munendola di ulteriori stimoli al cambiamento delle sue prime esperienze pittoriche e plastiche.
Si ha motivo di ritenere infatti che alla Art Students League e sicuramente nei viaggi a Parigi e a Monaco la Nevelson
abbia gradualmente preso conoscenza delle esperienze dellʼarte africana, di De Stijl, del costruttivismo, del futurismo
e della stessa metafisica di de Chirico, Savinio e Morandi, movimenti e artisti peraltro noti anche allʼintera comunità
culturale europea di quegli outsiders prima nominati e riuniti attorno a Peggy Guggenheim. Si ripropone, infatti, con
necessità di maggiore approfondimento, il problema di accertare da quali stimoli estetici e poetici abbia preso avvio il
processo di formazione linguistica del lessico della Nevelson.
Così, se i suoi esordi in scultura sono sensibilmente influenzati dallʼarte nativa precolombiana e indoamericana, anche
a causa dellʼincontro e della collaborazione a New York con Diego Rivera e Frida Kahlo in occasione dellʼesecuzione
del murale Portrait of America (poi andato distrutto), esperienza successivamente approfondita con reiterati viaggi in
Messico e in Centro America – dove nello Yucatán nel 1950 visita le rovine archeologiche dei siti maya di Uxmal
e Chichén Itzá e i vecchi totem guatemaltechi –, è tuttavia in seguito allʼosservazione della danza libera praticata da
Martha Graham e alla frequenza ai corsi tenuti da Ellen Kerns che la sua cifra plastica prende decisamente corpo. Le
opere Untitled degli anni trenta (cat. 1-7) in terracotta dipinta insieme al Female Nude, 1932 (cat. 10), a disegni e altri
studi di nudo femminile di quegli stessi anni, rivelano una elementarità primaria al limite di una certa arcaicità. Le
terrecotte dipinte di piccole dimensioni in taluni esempi, come i disegni dei nudi, evocano la figura femminile reclinata
(cat. 3); in altri casi la loro morfologia appare come studio di volumi semplici (cat. 1 e 2), che nonostante la vicinanza
formale con i successivi Feuille de vigne femelle, 1950, e con Coin de Chasteté, 1954, di Marcel Duchamp non ne
anticipano e non ne condividono però le sottili e provocatorie fonti ispiratrici. Queste terrecotte, al contrario, sono
attraversate da una “solidità immanente e tenebrosa”, non priva di echi primigeni, di tipizzazioni che mutuano i loro
stilemi tanto dalle culture mesoamericane che dalla lezione cubista. In alcuni casi, infine, nella scultura di terracotta si
evidenziano alcune parti in pietra e in legno e soprattutto lʼassociazione di materiali e forme che risultano mobili e in
grado di ruotare su un perno che evidentemente le attraversa in verticale. Tale risulta lʼUntitled, s.d., con forme
cubiche e ovoidali (cat. 8) che, se si fa riferimento per alcuni dettagli ad Ancient City, 1945, potrebbe essere databile
anchʼesso negli anni quaranta.
Verso l ʼassemblage
Allorché Louise Nevelson, nei primi anni quaranta, svi luppata già ampiamente l ʼesperienza del la creazione
plastica a base di terracotta, pietra, “tattistone” e bronzo, inizia a usare i l legno, un autentico risvegl io sembra
pervadere tutta la sua azione. Diversamente che in passato, i l suo interesse verso questa materia semplice,
economica, non è rivolto al la sua model lazione, quanto piuttosto al la sua valenza di “vissuto”, poiché la
Nevelson ne considera l ʼ impiego soprattutto dopo frequenti recuperi nel le strade di New York. “La prima volta
che ho usato del legno vecchio – dichiara la Nevelson – ero per strada e vidi un grande pezzo di legno nel
fango e dissi : ʻMio dio, è magnifico! Lo porterò a casaʼ . Poi trovai altre cose con dei chiodi , girovagando. A un
certo punto mi chiesi: ʻPerché l i devo prendere? Lo farò io, martel lare un chiodoʼ”9.
Le sue prime real izzazioni con assemblages di legni usati non trovano immediate acquisizioni. Tuttavia
suscitano l ʼ interesse di Karl Nierendorf, gal lerista newyorkese a cui la Nevelson si era rivolta direttamente e
che sin dal 1941 (e poi sino al 1947, anno del la sua scomparsa) aveva deciso di occuparsi del suo lavoro.
Queste prime opere in legno assemblato dischiudono nel l ʼazione del la Nevelson una serie di fondamental i
intuizioni e aperture. Pochi mesi prima della sua morte, infatti, Louise Nevelson ha modo di affermare: “È
possibile che io mi sia interessata al legno perché mio nonno in Russia aveva boschi e legname. Io non credo,
ma potrebbe essere così”10. Peraltro, comʼè noto, anche i l padre della Nevelson, Isaac, dopo l ʼemigrazione negl i
USA, svolge numerosi lavori, tra cui i l taglialegna e i l rigattiere. La considerazione dei reperti e degl i oggetti di
legno recuperat i nella strada dalla Nevelson risveglia nella sua coscienza e nel suo immaginario più di un flusso
attivo, per quanto riguarda l ʼentità mnemonica, e in noi stessi per quel lo che era stato sino ad al lora i l percorso
del l ʼoggetto entro l ʼarte plastica e pittorica.
Una riflessione sul la presenza del l ʼoggetto nel la pittura e nel la scultura del XX secolo non sembra dunque
inutile in questa circostanza.
Lʼoggetto morto, cubista, metafisico, dada
Se già Gustave Courbet considerava realtà quel rapporto che scaturisce tra lʼio del l ʼumano e i l tu del l ʼoggetto,
portando la coscienza a una comprensione diversa del mondo e a una considerazione nuova del l ʼuniverso degl i
oggetti, in ciò seguito poi dagl i impressionisti, da Van Gogh e Cézanne e successivamente da Picasso e
Matisse, nondimeno la sua pittura aveva anche costituito la base del pensiero plastico per la metafisica di de
Chirico e Morandi e, in seguito, per i surrealisti stessi.
Col trascorrere del tempo e nel susseguirsi del l ʼattività ermeneutica riguardante l ʼopera del la Nevelson, si fa
sempre più viva la sensazione che, se i l suo interesse per l ʼ invenzione l inguistica cubista risulta basi lare ai fini
del la creazione del la sua opera plastica, non meno importante sia stato tuttavia i l contributo derivatole
dal l ʼesperienza metafisica di Giorgio de Chirico e di Giorgio Morandi, ancorché gli esiti del la straordinaria
invenzione spaziotemporale “metafisica” dei due pittori ital iani le siano pervenuti più o meno indirettamente per
i l tramite dei surrealist i Max Ernst e René Magritte (fig. 3) e poi Joseph Cornel l (fig. 4) (peraltro più giovane
del la Nevelson di quattro anni) o, addirittura inconsapevolmente, come sembra sia stato nei confronti del l ʼopera
di Kurt Schwitters, di cui Jean Arp ebbe a dichiarare: “Louise Nevelson ha un nonno, probabi lmente senza
saperlo: Kurt Schwitters”11. Così, non sono solo gl i assemblages di Picasso e le sue opere plastiche Mandol ine
et clarinette, 1913 (fig. 5), o Violon et boutei l le, 1915, e simi l i ad aver sicuramente acceso l ʼ immaginario del la
giovane Nevelson, ma anche, probabi lmente, opere come gli “interni” dechirichiani a base di oggetti quotidiani
portati a monumento in Le grand Métaphisicien, 1916 (fig. 6), o le “scatole” metafisiche come quella Natura
morta, 1918 (fig. 7), di Morandi , antenata emblematica di molte altre spazialità modularmente scatolari
destinate a contenere oggetti real i fino al Nouveau Réal isme e dopo di esso.
Nel le opere dei due pittori ital iani “l ʼoggetto mantiene quindi ogni suo attributo veristico in sé, ma perde la
concatenazione logica con gl i altri oggetti e l ʼambiente, disponendosi in una giustapposizione assurda e onirica
di elementi in uno spazio pur sempre naturale, sovvertendo le leggi del la convenzione del l ʼesperienza sensibi le
e storica. La sua metamorfosi è di ordine simbolico, ma è simbolo dell ʼ inconscio e del magico. I dati del la
memoria e quell i dell ʼesperienza presente dell ʼartista si accaval lano, si confondono – ed evocazione e
rivelazione si congiungono nel momento dell ʼenigma. Lʼoggetto è estratto dal repertorio delle cose apparse
all ʼartista nel corso del la sua esistenza e offerto tal quale, nel la tranquilla e insensata bellezza del la sua
conformazione materiale e ottica”12.
De Chirico stesso aveva sottol ineato la seconda vita degl i oggetti e i l loro aspetto spettrale: “Noi che
conosciamo i segni del l ʼalfabeto metafisico sappiamo quale gioie e qual i dolori si racchiudano entro un portico,
l ʼangolo di una strada, o ancora in una stanza, sulla superficie di un tavolo, tra i fianchi di una scatola”13.
Lʼ iconografia dell ʼoggetto metafisico di de Chirico e Morandi resta nella bidimensionalità della pittura e nella
“rappresentazione” evocativa, mentre Duchamp (fig. 8), Schwitters e Arp con i l ready-made e gl i assemblages
sconfinano nel l ʼoggettual ità reale presentando i l vissuto del la materia nel la sua fisicità concreta. Opere come
Trousse dʼun Da, 1920-1921 (fig. 9), di Jean Arp costituiscono stimolazioni sensibi l i per l ʼ immaginario
impegnato nelle prime composizioni della Nevelson a base di framment i di legno (fig. 10). In tutti i casi , sia
l ʼoggetto metafisico sia quello dada, e la stessa azione intrapresa dalla Nevelson all ʼ inizio degl i anni quaranta,
non possono prescindere da una loro fonte che trae origine nel la dimensione del la memoria trattandosi di
oggetti obsoleti e dimenticati che l ʼatto artistico rivital izza, immettendoli nell ʼopera.
La memoria
Comprendere la semanticità espressa dallʼopera della Nevelson diviene a questo punto essenziale, poiché con essa lʼartista ci parla
del suo mondo interiore, del suo “vissuto” e dellʼesperienza viva dello spazio e del tempo. Si deve in tal modo osservare che, se uno
dei moventi essenziali dellʼopera della Nevelson proiettata al recupero e alla composizione di oggetti obsoleti, dunque carichi di una
storia che dai loro utenti si è riversata su loro stessi e di cui lʼartista percepisce e immagina usi, atti e gesti liberatori, equivale a
conferire a quei “resti” una vita nuova, futura, con la quale lʼartista stessa si identifica. Dunque, la riflessione sul vissuto e sulla
memoria assume uno degli aspetti centrali nella sua opera, nella quale, insieme alla elaborazione della forma e dello spazio,
si evidenzia il tempo, con tutte le sue dimensioni di passato, presente e futuro, compreso lʼoblio.
Lʼopera della Nevelson, infatti, ostentando un insieme di elementi residual i di oggetti e materie l ignee
precedentemente già elaborati da altre mani ma da lei organizzati e ordinati in nuove forme, mostra in modo
simultaneo e complanare un quid di vissuto e di “superato”, ma anche di “presente” qual ificato e vivo, infine di
“futuro” che l ʼopera pretende di acquistare attraverso la sua qual ità artistica.
I l processo di semantizzazione messo in atto dal la Nevelson comprende le fasi di riconoscimento dei frammenti
oggettual i, di scelta, di omogeneizzazione cromatica delle loro forme, attraverso una pittura monocromatica
(con i l colore nero, bianco o oro) dell ʼassemblaggio e composizione, fino al l ʼelevazione del la forma a organismo
verticale e per lo più frontale, dotato di astanza. I frammenti ordinati sensibi lmente in forme, già investite dal
vissuto, sono sottoposti dal lavoro pittorico e di composizione plastica del la Nevelson a una risignificazione. È
attraverso di essa che le forme riottengono una nuova vita, predisposte perciò ad assumere gl i aspetti nuovi e
diversi di essa che l ʼartista vi suscita.
Come un minatore che scava per estrarre mineral i preziosi e portarli al la luce, così la Nevelson trae dal la
“massa del dimenticato” non solo i reperti altrimenti destinati al l ʼobl io, ma soprattutto i loro segreti contenuti
poetici. Il lavoro più essenziale concepito e svolto dal l ʼartista, insieme a quel lo del componimento dei frammenti
necessari alla sua creazione pittorico-plastica, è i l risvegl io mnemonico esercitato su di sé e sul la coscienza
col lettiva. La retrospezione che la Nevelson compie con la sua opera è rivolta al passato e al lo spazio dietro di
noi, tuttavia l ʼesito del suo lavoro reca i l continuo presente del l ʼopera e con l ʼanel ito di essa i l superamento,
l ʼattraversamento e i l raggiungimento del futuro, di cui è già premonizione riflessa. “Quando guardiamo dietro di
noi – afferma Eugène Minkowski – scopriamo prima di tutto la forma generale del passato nella sua tonalità
particolare, i l regno del le ombre, del l ʼoblio e del si lenzio. In esso ci smarriamo, perché è buio. Qui non cʼè
chiarezza, non cʼè orizzonte, tuttʼal più una prospettiva che va a perdersi nel le tenebre del l ʼ infinito. Sembra
quasi che le tenebre crescano nel la misura in cui tentiamo di squarciarle: […] lo sguardo vi affonda come in una
massa sol ida, ma non vi scopre nul la. È una prospettiva scura, senza orizzonte e anche senza l imiti poiché i l
nostro sguardo […] fugge senza ostacol i verso l ʼ immensità del l ʼ infinito. Il passato individuale si confonde, senza
transizione sensibile col passato in generale”14.
Dopo aver individuato i l punctum da cui ha avuto origine i l suo l inguaggio mnemonico successivo al la scultura
degli anni trenta, diviene ora significativo riflettere sul la modal ità con cui prende forma la sua nuova
affermazione e i l suo slancio vitale. Se osserviamo le prime opere di quegl i anni quaranta a partire da Exotic
Landscape, 1942-1945, e fino a quel le esposte nel la mostra “Sculpture Montages” presso la Nierendorf Gallery
di New York nel 1944, gli elementi di legno trovati e dipinti di nero subiscono accostamenti elementari e
col locazioni per lo più su basi più ampie della loro organizzata relazione volumetrica. La maggior parte di
queste prime sculture in legno assemblato è posta l iberamente nel l ʼambiente, ma talune già sono col locate
entro vetrine o contenitori come nel caso di Exotic Landscape, una cassetta da carpentiere dotata di un lungo
manico orizzontale, un legno ricurvo e un piccolo cubo sormontato da due sfere.
Alcuni anni prima della conclusione di quel decennio, a seguito della morte di suo padre (1946), del suo gallerista Nierendorf
(1947) e dellʼannuncio di una sua grave malattia conclusasi con unʼoperazione, la Nevelson cade in una forma depressiva.
È a partire dal 1950 pertanto che si assiste a una ripresa dellʼattitudine assemblativa dei recuperi lignei rinvenuti nelle strade
di New York. In questa mostra di Roma, si possono osservare alcuni importanti esempi di tali sculture, in particolare le opere
Moon Spikes n. 112, 1953 (cat. 16), e Moon Spikes IV, 1955 (cat. 17), appartenenti a un ciclo articolato di composizioni con
le quali si rendono dialettici gli altri cicli Night Presence, 1955, Moon Garden Forms, 1955, e Black Majesty, 1955. Tutte
queste opere pongono in risalto, su basi costituite da semplici assi, sia il serrato insieme di frammenti lignei dipinti in nero,
sia lʼalternanza tra elementi verticali acuminati e parti ovali, stondate o sferiche. Una geometria solida a base lignea e dalle
definizioni formali casuali, priva di ogni volontà simbolica, nonostante le titolazioni evocative di ciascuna opera, si affaccia
alla ribalta della scena artistica americana, ponendosi in dialogo alternato tanto con lʼesperienza plastica europea di Arp,
Miró e Giacometti, quanto anche con la scultura americana di David Smith e della stessa Louise Bourgeois.
Spesso, osservando un criterio di accostamento tra loro di gruppi di sculture nellʼambiente, la Nevelson tende a
ottenere unʼulteriore valenza spaziale. Già nella mostra “The Circus: The Clown is the Center of His World” (1943)
presso la Norlyst Gallery di New York, dove aveva fatto uso nella tematica del circo di materiali lignei di recupero per
costruire le numerose forme animali e lo stesso clown, la Nevelson aveva ottenuto un grado di relazione spaziale tra
le opere tale da suscitare unʼembrionale qualità dʼenvironment. Questa attitudine le derivava da modalità di
aggregazione di sculture e maschere osservate nellʼarte africana durante le sue visite al Musée de lʼHomme a Parigi,
allʼinizio degli anni trenta.
Dopo l ʼ intensa attività rivolta al la creazione degl i assemblages “liberi” della prima metà degl i anni cinquanta, da
lei defini t i table-top landscapes15, a partire dal 1955 le sculture in legno sono sistematicamente inscritte dal la
Nevelson entro forme scatolari, cassette e altri contenitori che hanno la proprietà di definire, quasi
modularmente, lo spazio a cui essa si dedica. Le nuove strutture evidenziano sostanzialmente la propria
frontalità e distinguono una spazialità fortemente determinata dal l ʼombra che si intensifica in rapporto ai piani
che l ʼelaborazione plastica del la Nevelson ottiene entro ciascun contenitore.
La considerazione dell ʼombra, accentuata dal rivestimento col colore nero di ogni elemento impiegato negl i
assemblages, la sua valenza di segretezza e di intimità, i l suo effetto di teatralizzazione delle forme, rese
ancora più vivide dal contrasto con la luce, fornisce al la Nevelson unʼentità tanto impalpabi le quanto
straordinariamente efficace nel la drammatizzazione del l ʼopera.
Nel le ripetute mostre presso la Grand Central Moderns Gal lery (nel 1955, 1956, 1957, 1958) la modal ità
costruttiva degl i assemblages contenuti nel le “scatole” si sviluppa in direzione di organismi architettonici
vertical i che tuttavia assumono anche estensione orizzontale fino quasi a evocare complessi tabernacol i, veri
muri, la cui serrata struttura a grigl ia appare colma di frammenti di legno e parti di oggetti avvolti dal lo stesso
muto timbro del nero e del si lenzio.
Nel la sua originale riflessione sul lo spazio, Gaston Bachelard, distinguendo tra la metafora e l ʼ immagine
nel l ʼanalisi del la poetica del l ʼ intimità, evoca – qual i organi del la vita psicologica segreta – l ʼarmadio e i suoi
ripiani, i l secrétaire e i suoi cassetti, la cassapanca e i l suo doppio fondo, perfino i l cofanetto: “Senza questi
ʻogget t i ʼ e alcuni altri così valorizzat i – afferma i l fi losofo – la nostra vita intima mancherebbe di modello di
intimità. Sono oggetti misti, ogget t i-soggetti, hanno come noi, attraverso noi, per noi, unʼ intimità. Esiste un solo
sognatore […] che non sentirà risuonare dentro di sé la parola armoire (armadio)?”16
Più volte la Nevelson si è applicata a sculture che non solo traggono forma da armadi e astucci come le opere
Untitled, 1985 (cat. 65), Untitled, s.d. (cat. 66), e la stessa Royal Tide III, 1969 (cat. 26), tutte present i in
questa mostra, ma anche a “cofanetti” come la serie dei Cryptic degli anni 1969-1970, in cui le valenze
del l ʼaperto e del chiuso, del l ʼesterno e del l ʼ interno, suscitano, secondo Bachelard, la funzione e la psicologia
del segreto. E, se a sostegno del le proprie attraenti immagini evocate da quei contenitori, Bachelard chiede
aiuto alla poesia di Arthur Rimbaud – che in Les étrennes des orphelins (1869) aveva scritto: “Lʼarmoire était
sans clefs !… sans clefs, la grande armoire ! / On regardait souvent sa porte brune et noire… / Sans clefs
!…”17–, nel definire invece la valenza del segno del cofanetto, afferma: “Nel cofanetto si trovano le cose
indimenticabi l i, indimenticabi l i per noi , ma indimenticabil i anche per coloro cui doneremo i nostri tesori. Il
passato, i l presente, un avvenire sono condensati lì: i l cofanetto diventa in tal modo la memoria
del l ʼ immemoriale”18.
Opera come teatro della memoria
La tenace, straordinaria esperienza della Nevelson giunge nel frangente degl i anni cinquanta a mostrare di
avere raggiunto unʼoriginalità l inguistica destinata a svi lupparsi sul la base di quegl i elementi sin qui posti in
evidenza: i frammenti di legno e di oggetti recuperati dal la strada, la monocromia di essi a base del colore nero,
la struttura scatolare e le morfologie del “paesaggio da tavolo”, del “totem”, della “colonna”, del “muro”; tale
struttura l inguistica lentamente sfocerà in complessi plastici assai più articolati come le instal lazioni che
caratterizzano tra i l 1959 e i l 1960 veri e propri environments, qual i Moon Garden + One, 1958, alla Grand
Central Moderns Gal lery di New York, Sky Columns Presence, 1959, alla Martha Jackson Gallery di New York, e
Dawnʼs Wedding Feast, 1959, al MoMA per la mostra “Sixteen Americans”. Va ricordato che nel 1958 i l Museum
of Modern Art di New York, per la sua riapertura dopo un incendio, aveva acquisito ed esposto Sky Cathedral,
1958, uno dei primi grandi “muri” che forniva una completa, raggiunta e indiscutibile maturità lessicale della
Nevelson. In quel l ʼoccasione un osservatore dʼeccezione come Jean Arp non esitò a sottol ineare i l suo interesse
e la sua ammirazione con un breve poema dedicato al la Nevelson. Ma intanto, proprio opere come Moon Garden
Reflections, 1956, e le successive Sky Cathedral, 1958, Sky Cathedral – Moon Garden Wal l, 1956-1960, Sky
Cathedral ʼs Presence I, 1959-1962, e Night Sun I, 1959, avevano contri