In una foto

Informazioni Evento

Luogo
DIECI.DUE!
Via Volvinio 30, Milano, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

da martedì a venerdì dalle 1530 alle 19 e su appuntamento

Vernissage
24/05/2012

ore 19

Generi
serata - evento

Un viaggio per le vie di Brera negli anni Sessanta, il punto di partenza è una foto di gruppo scattata nel 1964 da Uliano Lucas, in cui sono ritratti una ventina di artisti seduti ai tavolini del Genis Bar. Attraverso le loro voci si ricostruisce vita, arte e bevute in quello che era il centro vitale della Milano artistica e intellettuale dell’epoca.

Comunicato stampa

giovedì 24 maggio 2012 ore 19 (65')

proiezione del film

"IN UNA FOTO"

di Giuseppe BARESI e Simonetta FADDA

fotografie di Uliano LUCAS

Un viaggio per le vie di Brera negli anni Sessanta, il punto di partenza è una foto di gruppo scattata nel 1964 da Uliano Lucas,

in cui sono ritratti una ventina di artisti seduti ai tavolini del Genis Bar.

Attraverso le loro voci si ricostruisce vita, arte e bevute in quello che era il centro vitale della Milano artistica e intellettuale dell'epoca.

in occasione della mostra personale di Adelio Maronati

"letture"

a cura di Maria Rosa Pividori

presentazione di Lorella Giudici

aperta fino a sabato 26 maggio compreso

Un’armonia incommensurabile

Lorella Giudici

“Armonia di parti diverse: questa è la definizione greca dell’ordine. E non è cambiato niente a tutt’oggi, quella definizione rimane per sempre…”

Mario Radice, 1986

Michelangelo era solito dire che il mestiere di scultore lo aveva succhiato con il latte dalla sua balia di Settignano, moglie e figlia di scalpellini, in un paese dove quasi tutti svolgevano quell’attività da generazioni. Sono aneddoti che colorano le vite dei grandi personaggi, storie che, anche se hanno qualche vago fondamento di verità, non sono certo provate. Eppure, episodi simili li ritroviamo in tante biografie di artisti. Anche il racconto della vita di Adelio Maronati potrebbe cominciare pressappoco così: aveva già la strada segnata quando il 2 agosto del 1939 vedeva la luce proprio tra le mura della più prestigiosa accademia di Belle Arti d’Italia: Brera. Il padre vi lavorava come custode e Adelio è cresciuto tra quelle aule, respirando l’odore della trementina, giocando sotto la bella statua del Canova e imparando a riconoscere i maestri che in quegli anni davano lustro alla scuola: Carpi, Messina, Marino Marini, Funi. Ma gli anni più intensi saranno quelli in cui Adelio, ormai completamente votato all’arte, parteciperà attivamente alla vita della scuola (che intanto vede succedersi alla direzione due grandi maestri: Cascella e Varisco) e della città, con la frequentazione di giovani promesse, come Fontana e Manzoni (che lavorava qualche metro più in là, in via fiori chiari), dei nuovi spazi espositivi, come la Galleria del Naviglio o la galleria Pater (crocevia di talenti nostrani e stranieri) e voce attenta negli accesi dibattiti tra i tavoli dei mitici Genis e Giamaica, i caffè degli artisti.

Verrebbe quasi da dire che sia stata l’arte ad aver trovato Adelio e che poi sia stato per lui del tutto naturale lasciarsi andare tra le sue braccia, suggellando un sodalizio che prosegue ancora oggi. Un rapporto che negli anni si è cementato in un percorso sincero, indipendente, rigoroso, con una predilezione per la scultura, ma anche con qualche incursione negli altri linguaggi del fare.

Questa mostra, ad esempio, racconta la sua ricerca più recente e la sua scelta di utilizzare materiali domestici e decisamente inusuali, che Adelio recupera e assembla in modo da renderli praticamente irriconoscibili. Bustine del te, tovagliolini di carta, cilindri di cartoncino hanno preso il posto del legno, della ceramica e del ferro e hanno guadagnato un’eleganza e una geometria che prima non conoscevano.

Prendiamo ad esempio la serie dei Rotolanti, ovvero decine di palline di carta che Adelio racchiude in quadri-scatola, lasciandole però libere di rotolare nello spazio della cornice per ricomporsi in nuovi accostamenti. È una serie nata negli anni ottanta, ma allora erano “sculture dalle forme tonde, gonfie, accattivanti, concepite senza piedistallo, ossia senza una base fissa, come sassi, che spostandole assumevano posizioni diverse, senza modificare la loro iniziale immagine” [E. Bonfanti 2002]. Ora quelle sfere nascono da coriandoli strappati da banali tovagliolini, impastati con acqua e poi, con la sola pressione delle dita, arrotondati in biglie che, la lunga manipolazione e il progressivo stillicidio, rende compatte e coriacee come la pietra, ma leggere e carezzevoli come le foglie. Un lavoro paziente e meticoloso, esattamente come quello che potrebbe fare un solerte monaco se dovesse forgiare i grani del suo rosario: uno alla volta, con dedizione, perizia e calma. Da un materiale umile e di scarto, Maronati ricava perle dalle superfici lievemente increspate e un poco irregolari, granelli di una strana clessidra che portano con sé i sospiri, le emozioni, le idee, la passione delle mani che li ha modellati.

A guardarle quelle palline sembrano festose, come il gioco di un bimbo: è sufficiente muovere la cornice per farle cambiare di posto e tentennare come nocciole in una scatola. Eppure dietro quell’apparente casualità c’è sempre un ordine, c’è sempre un equilibrio, un senso di armonia che sembrerebbe innato: in qualsiasi modo le si mescoli il risultato è perfetto, come se per istinto ubbidissero alle segrete leggi del cosmo, non solo a quella di gravità.

Del resto per Maronati l’armonia ha un significato preciso, ha un valore etico, coincide con il mettere ordine, con la volontà di razionalizzare le forme, di pulire lo sguardo, per cui i colori e la materia vengono ridotti a minimi termini, per arrivare all’essenza, alla verità ultima (o prima che dir si voglia), all’armonia appunto.

Basta guardare l’altra serie esposta, con quei delicati e meravigliosi rettangoli di carta (impalpabili e immacolati come le ali di una farfalla), scanditi in file la cui geometria ammette solo poche deroghe. I bianchi si allineano equidistanti su fondi neutri e delicati dal vago ricordo morandiano, alla ricerca di equilibri, di quel sentimento della bellezza della geometria profetizzato da Licini (“Dimostreremo che la geometria può diventare sentimento”, aveva scritto il marchigiano agli amici del Milione nel lontano 1935). L’accordo nasce dalla sostanziale affinità della materia e delle forme, del colore e dello spazio, da quel lavoro originario di composizione che li rende incommensurabili.