Identitas
GAIA, galleria d’arte indipendente autogestita che ha sede all’interno della “Casa di quartiere”, al secondo piano dello storico e da anni occupato Palazzo Cosentini, ospiterà la mostra ĬDENTĬTĀS.
Comunicato stampa
ĬDENTĬTĀS
GAIA, galleria d’arte indipendente autogestita che ha sede all’interno della “Casa di quartiere”, al secondo piano dello storico e da anni occupato Palazzo Cosentini, dal 29 febbraio alle ore 19.00 ospiterà la mostra ĬDENTĬTĀS. Il concetto della mostra - plurale piuttosto che collettiva -, nasce dalla duplice declinazione del termine ‘identità’, la cui semantica, nel contesto contemporaneo, rischia di sfuggire al suo stesso senso: di appartenenza, di uguaglianza, di distinzione.
Il termine latino identĭtas -atis, derivato dalla locuzione idem, ‘medesimo’, si è evoluto fino a indicare, nelle sue accezioni contemporanee, l’opposto. L’identità anagrafica racchiude l’insieme dei dati che consentono il riconoscimento personale. L’identità sociale è composta dalle caratteristiche che rendono ciascun individuo unico, distinto da tutti gli altri, eppure mutabile se sottoposto a cambiamento.
Infine, l’identità diventa plurale e collettiva: quando diventa coscienza della personalità di un popolo, e di ciò che la caratterizza.
ĬDENTĬTĀS nasce da un ossimoro semantico e colloca nel medesimo spazio espositivo quattro artisti, Niccolò De Napoli, Ottavio Marino, Massimo Pastore e Michele Tiberio, le cui ricerche individuali narrano l’Altro, dislocando la loro indagine al confine tra dimensione postcoloniale e narrazione ibrida.
La nozione di identità perde nuovamente di significato, attraverso la raffigurazione dell’alterità data dagli artisti che, sottraendo la presunzione della narrazione occidentale, tracciano un tentativo empatico di riscrivere la geografia umana, delineando una nuova etimologia dell’espressione ‘identità’, stavolta libera da confini geografici e pregiudizi culturali.
GLI ARTISTI E LE OPERE
I protagonisti de “La resilienza” di Ottavio Marino (Cassano allo Jonio, 1974), identificati anche come Survivors, sopravvissuti, emergono dalla pellicola pittorica del fotografo, che li avvolge in una dimensione atemporale e acritica, priva di pietismo e cristallizzata dall’obiettivo che si potrebbe confondere con una tavolozza.
La raffigurazione è restituita con uno sguardo che prende le distanze dal modello occidentale predominante e persistente, tutt’oggi, nella ritrattistica esposta nelle gallerie d’arte di tutto il mondo, caratterizzata da un’ottica di alterità, qui sostituita da una rappresentazione non più dell’’altro’ ma di quello che è riconosciuto e raffigurato come autoctono.
I “Santi migranti” di Massimo Pastore (Napoli, 1971), già presenti a Cosenza in seguito a un’azione performativa che ha collocato Santa Brigida vicino la confluenza dei fiumi, rivolgono il proprio ‘messaggio gentile’ direttamente alla città e alle persone, alle quali vogliono ricordare che se oggi sono protagonisti della pratica devozionale è perché ciascuno di loro ha affrontato il fenomeno migratorio, spesso per sfuggire a persecuzioni razziali, religiose o sessuali. In occasione della mostra ĬDENTĬTĀS troverà il suo volto contemporaneo anche San Francesco di Paola, affiancato da Santi, icone contemporanee e eroi comuni, che col loro sguardo non vogliono esprimere giudizio quanto piuttosto indurre a una riflessione. Protetti dalla metallina, nome con cui è detta altrimenti la coperta isotermica dorata con cui si avvolgono i migranti recuperati dalle imbarcazioni, questi ‘santini’ contemporanei danno un nuovo significante a un elemento che negli ultimi anni ha incontrato la fortuna critica della recente produzione artistica internazionale.
Le opere di De Napoli e Tiberio, estratte dal progetto più ampio “Misconception, a way to (mis)understand reality”, presentato per la prima volta a Palermo in occasione della dodicesima edizione di Manifesta e a cura di Agata Polizzi e Lorenzo Madaro, traducono un’indagine condotta sulle popolazioni Rom e Sinti di Cosenza e Palermo in pellicola e scultura. Con l’intento di decifrare e riprodurre la ‘misconception’, ovvero il pregiudizio che accompagna queste comunità, i due artisti realizzano una serie di opere che, in dialogo tra loro pur mantenendo la propria cifra stilistica, individuano negli elementi cardine del rame e dell’oro la struttura alchemica di un progetto perfettamente bilanciato e allo stesso tempo discostato tra sociologia, reportage e ricerca artistica.
L’identità, in quanto circoscrizione della persona, viene esecrata nelle sculture “It is not flesh” e “Only time makes me invisible” da Michele Tiberio (Palermo, 1987), che dà fuoco ai propri documenti nel tentativo estremo di sottrarsi - attraverso il transfert dato dall’azione tanto artistica quanto dissidente - al controllo documentale cui sono soggetti i migranti e alla delimitazione individuale dei confini e dell’appartenenza.
Nell’opera di Niccolò De Napoli (Cosenza, 1986) l’artista sostituisce la propria pratica scultorea e installativa fino ad astrarla e a sostituirla per interposta persona, trasferendo le qualità dinamiche ed estetiche - che solitamente caratterizzano i suoi lavori - nella dimensione umana e naturale riprodotta nei tre video “Undici Mila circa (#1-#2-#3)”, restituita senza alcuna manipolazione narrativa.