Giuseppe Agnello – Memorie: vedute laterali e oblique

Informazioni Evento

Luogo
TORRE DI CARLO V
Via Francesco Crispi , Porto Empedocle, Italia
Date
Dal al

tutti i giorni dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 17.00 alle 21.00

Vernissage
22/06/2013
Contatti
Sito web: http://www.giuseppeagnello.com/
Artisti
Giuseppe Agnello
Curatori
Lorenzo Rosso
Generi
arte contemporanea, personale
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La mostra Memorie: vedute laterali e oblique, personale di Giuseppe Agnello, presenta 40 opere, frutto della ricerca creativa sperimentata dell’artista negli ultimi quindici anni. Un omaggio alla ricca attività dello scultore siciliano.

Comunicato stampa

La mostra Memorie: vedute laterali e oblique, personale di Giuseppe Agnello, presenta 40 opere, frutto della ricerca creativa sperimentata dell’artista negli ultimi quindici anni. Un omaggio alla ricca attività dello scultore siciliano.
Agnello esplora il tema ancestrale della metamorfosi, e lo fa attraverso la creazione di figure eteree, straniate dal contesto in cui si trovano, ma terrene allo stesso tempo, come dimostrano le tante radici che emergono dai corpi scolpiti nei diversi materiali: gesso, resina poliestere e terracotte.
Il suo è un viaggio tra il sogno e la realtà, tra il mondo onirico e quello della tradizione che lo lega alla terra: “Sono figure ctonie, mitologiche, – scrive Giulia Ingarao nel testo critico in catalogo – che appartengono alla terra e ai suoi elementi. Personificazioni della natura e dei suoi ritmi”. Le opere di Giuseppe Agnello si alimentano della ricerca contemporanea (vedi: Matthew Barney; Kiki Smith) e in esse si legge la consapevole conoscenza della storia della scultura con riferimenti che spaziano dal surrealismo alla pop art e all’arte novecentista.
Il fil rouge dell’esposizione è l’elemento materico che detta il ritmo della fruizione delle opere in mostra. Il percorso pensato dall’artista non segue un iter cronologico ma cromatico: “Il colore protagonista del primo piano espositivo è un nero metallico, enfatizzato dalla superficie liscia e opaca in cui le sculture sono levigate – spiega G. Ingarao – mentre nelle sale del secondo piano l’artista sceglie come tema dominante un bianco abbacinante che racconta l’anima calda dell’isola”.
Aprono il percorso espositivo le sculture a dimensione reale Corpi nuvolosi (1999) e Anima e corpo 3 (2012), uniche eccezioni cromatiche dell’itinerario in bianco e nero proposto da Giuseppe Agnello. Nelle ampie sale della torre Carlo V si sussegue una ricca rassegna della produzione dell’artista che attesta dal 1999 ad oggi la sua ricerca formale e di contenuto. Conclude la mostra una suggestiva installazione di 20 pecore in gesso disposte disordinatamente su una distesa di gesso e sassi di sale: un bianco arido che rimanda a una visione onirica pur rimanendo ancorata alla matericità della natura.
La mostra è a cura di Lorenzo Rosso
con un testo critico di Giulia Ingarao
Comunicazione: Virginia Glorioso
Progetto grafico: Roberto Miata
Fotografie: Gianmarco e Lillo Conte
Torre Carlo V, Città di Porto Empedocle (Ag)
22 giugno > 30 dicembre 2013
Metamorfosi della memoria
di Giulia Ingarao
«[...] il tenero petto si fascia di una fibra sottile,
i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;
il piede, poco prima così veloce,
resta inchiodato da pigre radici,
il volto svanisce in una cima.
Conserva solo la lucentezza».
Ovidio, Metamorfosi, libro primo, vv. 549-552¹
Le sculture di Giuseppe Agnello, installate nei grandi spazi della Torre Carlo V di Porto Empedocle, hanno il difficile compito di restituire al presente un luogo carico di memoria e di aspettative per il futuro. Una scelta senza dubbio azzeccata, quella di riempire le ampie e spoglie sale dell’edificio del XVI secolo, con le opere in gesso, resina poliestere e terracotta, realizzate da Giuseppe Agnello (Racalmuto, 1962).
La felice coincidenza è prima di tutto tematica perché le sculture di Agnello comunicano, attraverso un’evidente e calibrata sapienza tecnica, un vissuto che è al contempo biografico e archetipico: le sue creature sono personificazioni del tempo, del suo fluire e dell’inevitabile nostalgia per la memoria del passato.
Porto Empedocle dedica all’autore della statua del commissario Montalbano, oggi opera identitaria della città marinara, un’ampia antologica che rende omaggio alla sua poliedrica e ricca attività di scultore. La mostra Memorie: vedute laterali e oblique, illustra, attraverso un percorso più tematico che cronologico, la ricerca creativa condotta dall’artista negli ultimi 15 anni.
L’iter espositivo segue prima di tutto una tematica cromatica; il colore e la materia utilizzata dettano l’ordine di lettura delle opere in mostra. I Corpi nuvolosi, in gesso policromo del 1999, e l’installazione Anima e corpo, del 2012 in gesso monocromo, aprono il viaggio attraverso le sculture a dimensione reale create da Giuseppe Agnello. L’unica nota pastello dell’intera esposizione, l’azzurro polvere delle due installazioni in mostra nella prima sala, ha la funzione di attivare quel senso di godibile straniamento che marca tutto il percorso espositivo.
I corpi iperrealisti, a tratti grotteschi, attraversati da nuvole, sembrano affidarsi, ad occhi chiusi, al fluire del tempo, scandito dal lento movimento delle macchie nuvolose sulle figure, che appaiono nello stesso tempo presenti, per la loro tangibile matericità, e fuggevoli, eteree, come le nuvole che le abitano.
Un iperrealismo che potrebbe definirsi “sognato”: figure comuni, sgraziate, con le pieghe degli abiti (jeans, cinture, maglie attillate) che, impietose, sottolineano le brutture delle forme dei corpi raccontando le anatomie che nascondono. Eppure se il gesso ammicca alle fantasmali apparizioni segaliane nella società del boom economico americano, l’aspetto straniante è rafforzato dalla sintesi, caratteristica che ritroviamo in tutta la produzione di Giuseppe Agnello, tra individuo e natura, tra paesaggio e figura umana.
Gli ibridi a cui l’artista dà vita si collocano lontano dalle inquietanti metamorfosi contemporanee che rendono il corpo terreno di sperimentazione. Penso per esempio ai personaggi misti, preumani, concepiti da Patricia Piccinini o al complesso repertorio mitologico di Matthew Barney², con cui però Agnello condivide il potenziale onirico radicato nell’individuo e nella società. Le sue sculture attingono ad un immaginario ancestrale che prende le distanze dagli esperimenti di genetica delle ultime generazioni di creativi per acquistare invece una dimensione di sacralità, di misterica comunione con il divenire.
La compresenza dell’elemento naturale lo avvicina alla ricerca di Kiki Smith che nelle sue opere attinge ad un repertorio tribale e mitologico, pur sviluppando una cifra caratteristica propria che garantisce alle opere di Agnello originalità e riconoscibilità.
Gli ibridismi uomo-natura vengono messi in scena già nella seconda sala con la coppia scultorea Anima e Corpo, in resina poliestere ed elementi naturali, dove un uomo e una donna in posizione frontale esibiscono le loro germinazioni naturali: capelli di rovi intrecciati e radici appena divelte che, come naturali protuberanze, emergono dal capo, ovvero da uno dei due estremi del corpo. Ci eravamo lasciati alle spalle l’installazione Anima e Corpo in gesso monocromo dove una coppia in tuta celeste con cerniera in plastica, racconta una fisicità contemporanea resa nella cura ossessiva del singolo dettaglio, contraddetta però dagli occhi chiusi e dal colore che ricopre abiti e corpo fino a creare un tutt’uno innaturale che impone alle due sagome una staticità funerea. Siamo lontani dal celeste sognante dei Corpi nuvolosi, qui l’azzurro polveroso mummifica i corpi.
Le sculture di Giuseppe Agnello abitano le sale presentandosi al pubblico come creature eteree, poiché straniate dal contesto in cui si trovano e, allo stesso tempo, terrene, come testimoniano le radici appena divelte che emergono dai corpi.
Sono figure ctonie, mitologiche, che appartengono alla terra e ai suoi elementi. Personificazioni della natura e dei suoi ritmi. Una linfa surrealista le anima concedendo loro il dono dell’ubiquità: nessuna delle figure che Agnello rappresenta apre gli occhi, restano tutte in un territorio limbico tra sonno e veglia. Anche quando l’artista intitola l’opera Il Risveglio (2013) o dispone le sue sculture a testa in giù in equilibrio perfetto su alte e sottili basi in metallo, le ritrae a occhi chiusi, dimentiche della loro fisicità, in un transito senza movimento. La serie di sculture su basi di metallo hanno misure più ridotte (100 x 30 cm) compensate, però, dai longilinei piedistalli che invece di accentuarne l’instabilità ne rinnovano l’armonia compositiva facendole svettare verso l’alto. Le radici, questa volta, emergono dai piedi e, come fulmini dopo l’impatto al suolo, si irradiano completando la composizione.
Se nelle opere appena descritte la memoria di Alberto Giacometti si fa sentire in modo patente, confermando dunque la fascinazione per una metamorfosi delle forme di matrice surrealista, la superficie perfettamente levigata rimanda ad un modello che Agnello ha tenuto presente nelle sue creazioni d’esordio: la scultura Novecentista. Dalle composizioni scultoree di Martini e Manzù ha desunto l’interesse per la posa classica, insieme però a quel senso di instabilità antimonumentale, ovvero negazione dell’equilibrio classico, che caratterizza le sue sculture.
Alcune composizioni di matrice tipicamente classica, il dormiente, i lottatori, lo schiavo morente, riecheggiano nei corpi tesi e anatomicamente perfetti di opere come Metamorfosi, dove un uomo nudo in ginocchio si sostiene poggiando a terra la sua lunghissima testa di tronco. La serie Il sonno (2010-2011) presenta una rassegna di corpi dormienti supini e proni, altri appaiono come creature miste, già in decomposizione: metà membra e metà tronco essiccato o bruciato, ridotto a tizzoni di carbone. In queste opere l’idea di morte e rinascita emerge da una serie di allusioni più o meno esplicite: il tronco, simbolo della croce di Cristo, i rovi di spine che compongono il letto inospitale in Il sonno dell’operaio o gli arbusti secchi e angolosi su cui poggia la testa il dormiente di Il sonno. Queste ultime possono leggersi come allusioni al sacrificio dell’Uomo in terra e nello stesso tempo garanzia del successivo riscatto, ovvero la ciclicità dell’esistere e del tempo.
La circolarità della vita e l’alternarsi delle stagioni è raccontata in un altro lavoro del 2010: Estate (terracotta, resina poliestere, elementi naturali), dove il corpo crepato di un uomo, dalla cui testa cava emergono rami essiccati, personifica l’arida estate dell’entroterra siciliano, paesaggio assai familiare all’artista.
Il colore che echeggia come protagonista indiscusso di questo primo piano espositivo, con l’unica eccezione della chiazza cromatica d’incipit, è un nero metallico, enfatizzato dalla superficie liscia e opaca in cui le sculture sono levigate.
Nelle ultime due sale del secondo piano l’artista sceglie come tema dominante un bianco abbacinante che racconta l’anima calda dell’isola. Case candide e diroccate, memoria della tradizione isolana e testimonianza delle sempre più irrazionali realtà paesaggistiche contemporanee, ospitano foreste di arbusti, rese evanescenti dalla luce che le illumina e che ha la funzione di neutralizzare il sapore autunnale dei rami secchi. Accanto alle case una serie di barche in gesso bianco cariche di corpi ammassati, distesi o in piedi, come soldatini, tutti uguali a se stessi, bianchi e anonimi, con lo stesso volto e lo stesso sapore di sale e morte. Le Transumanze del 2007 raccontano per metonimia il mare, confine accogliente e fagocitante che separa la Sicilia dal resto del mondo e che sempre più spesso diventa cimitero per i migranti, volti senza nome.
A completare quest’immagine di un’isola archetipica, mitologica, immersa nel bagliore bianco del sole, un bellissimo Icaro che, ormai privo di vita, giace a terra accanto ad ali di cera e corda.
Chiude la mostra un’installazione di venti pecore in gesso che, come un miraggio, avanzano su una distesa di gesso e pietre di sale. Il sale accentua il riverbero della luce bianca e rende percepibile la calura ferma e asfissiante di certe giornate d’estate in Sicilia. Un omaggio alla memoria personale e collettiva, alle radici della nostra cultura e al ricordo del padre.
1 Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, Einaudi, Torino 1994, p. 31.
2 Cfr. Sally O’Reilly, Il corpo nell’arte contemporanea, Einaudi, Torino 2011.
Giuseppe Agnello: lo scultore che ordina e disordina la materia senza tregua
di Cetta Brancato
Il centro storico di Palermo custodisce l’intero diaframma della storia dell’isola. Se ne sente il respirare ladro che, incessantemente, depreda e ammalia le anime vive che ne godono, attraversandolo.
Con gli occhi svuotati in questa memoria sudicia e insopportabile per la sua bellezza, ho conosciuto Giuseppe Agnello.
In un vano terreno, a due passi dalla strada, ad un palmo dalla morte, teste mozzate di capretti rovinavano una sull’altra.
Innocenti, senza sangue, feroci, in una fine asciutta, clamorosa, quotidiana, inenarrabile.
Una pena senza odori, di ghigliottina.
Avevano occhi diversi e pupille uguali, ciuffi di lana induriti dalle mani dell’artista e un’assenza di corpi che si poteva presentire nella nostra stessa carne.
In un angolo improbabile dello spirito, nitido di calce, si offrivano a un gesto di pietà definitivo o a una dimenticanza.
Comunque, intoccabili dal mio cuore.
Rimandavano al vento, seppure un’agonia doveva averli attraversati.
Se mai qualcuno avesse avuto il coraggio di offrirmeli, le avrei appoggiate su un vassoio barocco d’argento, dai tanti ceselli.
Perché esistere è questo in Sicilia: un decoro di morte.
O, ancora, erbe di collina, indurite in capelli di fascina che adornano il capo delle donne o che trafiggono, come piaghe metafisiche, i piedi di uomini capovolti in un orrore o in un sogno.
C’è riposo e trasformazione nei rami onirici che invadono i corpi di Giuseppe Agnello. Un’incessante necessità di anima, mai tradotta in lievità, né in sospensione.
Le sue creature appaiono inchiodate da radici sul capo che tendono verso il cielo, da roghi di sonno su giacigli irreparabili e asciutti, da mantelli femminili di pudore e seduzione, in cui tutto sembra prossimo a un fuoco inespresso, ad una fissità senza speranza, al cadere inesorabile del tronco verso l’inevitabile esistere.
Giuseppe Agnello non sa dare anima alla sua materia.
Da questa incapacità nasce la sua grandezza: dalla consapevolezza che il segno non è mai paradiso, né inferno. E’ materia viva, fatta di nuvole e di terra, l’unica possibilità adeguata a riparare il quotidiano, a renderlo sopportabile.
C’è un rogo mai acceso nella sua intuizione, una contemporanea coscienza della sconfitta, il metafisico segno del nulla.
Eppure, tutto è pietà, senza espressione, come una tomba.
Eppure, tutto è materia viva, rubata al cielo.
Egli sa levigare i corpi e dargli disperazione e dolcezza, sa inchiodare l’inespresso nell’ingannevole sentire della carne.
E’ minatore di anime. Dalla terra ricava il suo amore, la sua pazienza di artista, nel carbone di una fucina immaginaria.
Seducenti appaiono i ritratti del corpo quotidiano trasformati in nuvola. Ai visi ne chiude le palpebre, in un segno di visione o di cecità. Assoluti, nella genesi delle membra, sembrano, invero, respirare un’assenza dalla realtà, frutto di rifiuto o d’incapacità, comunque uguali segni dell’irriverente.
E, ancora, tavole di grano e campi bruciati, ciascuno riflesso dell’altro. Identica materia di distruzione e fertilità in esemplari molecole di grazia.
In altre opere, Giuseppe Agnello esprime, intero, il senso del viaggio. Distingue le anime in altezza e sagoma, ma le uniforma nell’unico andare dello scafo. Ne posiziona lo sguardo verso lo stesso orizzonte nell’antico privilegio del sogno o di una nuova aberrante uniformità della visione.
In una piena contemporaneità sembrano proiettarsi, anche, i terrificanti ‘Dialoghi’ abbigliati di crudeltà verista: uomini senza scampo, aggrappati alla propria incapacità di respiro, feriti senza rimedio, sia nel levigato corpo della donna che nella mascolinità animale dell’uomo con la sua pelliccia da lupo, intarsiata di sangue nascosto, proteso verso una carnalità dell’anima.
Nel sonno o nella morte di Icaro ritorna la nuda innocenza della sfinita caducità dell’amore, già espressa nelle teste di agnello, abbandonate una sull’altra. Una lievità struggente e metafisica, un torpore di grazia, irreversibile.
La mano di Giuseppe ordina e disordina la materia senza tregua. La rimanda ad altro, in un percorso estatico di frammenti.
Nelle sue opere si intuisce il futuro dell’impossibilità: l’unica possibile verità per la rivelazione dell’arte.
La sua visione del mondo intimorisce perché evade continuamente la realtà, ricostruendola con mani sapienti e temerarie.
Giuseppe Agnello, in ogni sua opera, continua a suggerire, senza alcuna possibilità di pensiero: i suoi visi sono muti, privi della condanna della parola. Dunque eterni.
L’orizzonte rimandato, la carne stessa del sogno, io credo, siano le incantate illusioni della sua umanità.