Gianfranco Carrozzini – Sono solo pixel
Sono in mostra nella Sala espositiva dell’Auditorium dei Musei di Strada Nuova a Palazzo Rosso le affascinanti immagini realizzate da Gianfranco Carrozzini che esplorano i labili confini tra pittura, fotografia e grafica.
Comunicato stampa
Gianfranco Carrozzini e i labili confini tra pittura, fotografia e grafica
Da lontano, sembrano dipinti.
Più ti avvicini, più si individuano i pixel, e la texture denuncia la matrice tecnologica dell’immagine.
Così agisce Carrozzini: non è un fotografo, almeno non nel senso più tradizionale del termine. Non usa cioè la “camera oscura” e neppure la sua aggiornata versione digitale.
Non è un pittore, anche se dimostra padronanza della tecnica pittorica.
Le sue immagini nascono dall’uso di un altro strumento, un banale scanner senza particolari peculiarità tecniche, presente in quasi ogni casa e certamente in ogni ufficio.
Lo scanner, tutti lo sanno, è un dispositivo atto alla digitalizzazione di immagini bidimensionali analogiche. Qui sta la differenza rispetto a un apparecchio fotografico digitale: solitamente sul suo piano (il suo “obiettivo”) si pongono dei fogli, pieni di parole o di colori più o meno organizzati in immagini.
Carrozzini sul piano vitreo pone invece se stesso, il suo volto e le sue mani, agisce direttamente o manipolando oggetti.
Il tempo richiesto dall’azione, e il corrispondente tempo di memorizzazione necessario allo strumento, determinano la deformazione dell’immagine.
L’esito finale è la traduzione in pixel di un’azione. Digital painting, potremmo forse chiamarlo.
Certo, esistono significative tangenze con l’uso della macchina fotografica. Innanzitutto la ricerca di un equilibrio tra creatività soggettiva e automatismo tecnologico. Non c’è, non può e non vuole esserci un completo controllo nella produzione dell’immagine: accettare le specificità del mezzo, capire il ruolo del tempo e della luce, saperlo piegare al proprio progetto, accogliendo l’inevitabile casualità come elemento potenzialmente arricchente, sono elementi che appartengono alla migliore tradizione fotografica.
Ciò che differenzia profondamente l’uso dei due mezzi è forse proprio la presenza invadente del corpo: la perizia nel calibrare il contatto fisico, la pressione diretta sullo strumento si sostituiscono alla capacità di “cogliere l’attimo”, e avvicinano il modo di agire di Carrozzini ad alcune correnti artistiche contemporanee.
Volutamente più tradizionale, almeno all’apparenza, l’incontro con le opere d’arte.
Su Vermeer Gianfranco divaga, ludicamente: copia il dipinto, con rigore, seguendo una consolidata tradizione accademica, e a partire da questo dichiarato “falso d’autore” scompone l’icona, ne lascia intatta la struttura ma modifica i rapporti cromatici, isola dei particolari e li esaspera, ingrandendoli fino alla caricatura, ci invita a entrare dentro il dipinto che incombe: un gioco, un virtuosismo, delle “variazioni” appunto, condotte quasi con leggerezza, con un sorriso. Che scompaiono, drasticamente, di fronte al San Sebastiano di Guido Reni, capolavoro del pittore emiliano esposto nelle sale “alte” di questo stesso palazzo.
Carrozzini fa dichiaratamente “sua” la tela: cerca di riproporre il più fedelmente possibile l’incarnato e il ductus, ma frantuma con nettezza il corpo del santo, e gli giustappone una struttura essenziale, una sorta di ombra nera che richiama la composizione, sulla quale un icastico commento contraddice radicalmente il mistico significato dell’opera, riconducendolo in una dimensione profondamente, e dolorosamente, umana.
Solo l’arte può, a volte, sublimare il dolore. Non la vita.