Feliscatus – Quadri naufraghi e Belfagor

Informazioni Evento

Luogo
11DREAMS - ART GALLERY
Via Rinarolo 11/c, Tortona, Italia
Date
Dal al

tutti i giorni 16-19

Vernissage
22/03/2015
Artisti
Feliscatus
Generi
arte contemporanea, personale
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Mostra personale

Comunicato stampa

Era il tempo delle zucche svuotate di una parte della polpa e dei semi incastrati tra grovigli di filamenti. Intagliate e internamente illuminate con candele, lumini o ciotole con olio d'oliva e stoppino di canapa da botti, facevano avanzare, nel buio, occhi quadrati o triangolari e spettrali ghigni, con espressioni che cambiavano anche al variare del loro profilo esterno, oltre che della dimensione delle orbite oculari e delle bocche minacciosamente aperte.
Parigi era Belfagor e il mare era il mare.
La lunga estate siciliana di lì a poco si sarebbe diluita verso il tepore della prima aria settembrina, nell'odore diffuso e persistente dei cumuli di vinacce, addossati ai muri esterni delle macine dentro le quali veniva scaricata e torchiata l'uva. Da questi odorosi e punzecchianti monti color terra di Siena bruciata, che, man mano si asciugavano, si arricciavano in superficie e si saturavano di colore, prendevamo i semi da lanciare con cerbottane di giummi di canne. Ci raggruppavamo in tanti, per sciamare poi lungo le strette e allora ribollenti vie dei dintorni. Talvolta in compagnia del Fantasma del Louvre, che arrivava quando, non voluto e nello stesso tempo atteso, dopo un fiammante rossore del cielo, la sera scivolava velocemente verso il buio, indugiando nelle pieghe di neri e inconsapevoli panneggi, e invogliando ombre impenetrabili che velocemente si spostavano svolazzando da un luogo all'altro.
Parigi era lontana, ma era anche Belfagor.
Era i film in bianco e nero, la televisione in bianco e nero, Aznavour in bianco e nero, i colori dei fascicoli che iniziavo a comprare, Mireille Mathieu, Dalida, Johnny Hallyday, la bionda Sylvie Vartan con la voce seducente come pure la pronuncia, e gli attraenti incisivi distanziati. Parigi era Sylvette David; nella copia da Picasso che ne feci, nel '66 o '67, a olio bruno van Dyck e bianco di piombo, misi due firme a distanza di qualche giorno una dall'altra, una chiara, una scura; continuo a non capire il perché. Anche della posizione, una vicina al bordo superiore, l'altra a quello inferiore.
Distese interminabili di semi di zucca (ricordi, denti, pensieri, unità di misura di progetti, fantasia e pittura) vedevo lungo marciapiedi di assolate balate, dove il cinema naufragava, talora, su teloni, una volta bianchi, che avvampavano mentre quei buchi, come di Burri, sparivano con le luci aperte della sala, nel rumore di sedili sbattuti e percossi, e nelle urla dei presenti bruscamente strappati a un sogno già pagato.
La televisione naufragava, si pensava, si era certi, sempre sul più bello, con l'action painting nel dripping di una miriade di coriandoli grigi.
Alla fine della proiezione del film o con l'interruzione plurima, irreparabile della pellicola – quando non si era costretti a uscire per la rottura del proiettore o la mancanza di corrente – , varcato il confine tra il mondo in cui l'incredibile diventava possibile e quello di una “normalità” che con l'immaginazione si faceva in fretta a cambiare e capovolgere, il mare naufragava, sotto gigantesche lampade incandescenti a bulbo, su un piatto piano fumante, dove “convivevano” un pezzo di limone e alcuni tentacoli di polpo. La grande piovra aveva affondato la nave, ma era perita nello scontro.
Quindi, a casa, dopo cena, Belfagor e l'impareggiabile suggestione del bianco e nero che dava spago, come a un aquilone, alla paura. Nei quadri, per tutti gli anni dell'adolescenza, questi due colori utilizzai principalmente, escludendo quasi tutti gli altri che non trovavo necessari in pittura; non sentivo il bisogno di utilizzare altre tinte fuorché un'estesa gamma di grigi, che potevano andare ora verso i bruni, ora intorno ai verdi, oppure sulle tonalità azzurrate di una giornata di pioggia in prossimità del mare o di una lagunare successione di venete tempeste coi denti spaziati.
Di quell'illusione sullo schermo rimaneva più di una maschera egizia e picassiana di cuoio e di un abito scuro, lungo; non da bianco fantasma, pensai allora. Sedici anni dopo, in un ologramma di pochi centimetri con Tutankhamon di coloratissimi riflessi, ho raggruppato e con le dita circumnavigato Parigi. Le stesse dita di prestigiatore che, sotto il Meopta Opemus III, di lì a breve avrebbero mascherato ombre soverchie, mentre accanto, dentro la vasca di Neutol, prendeva forma, nel silenzio e nel sufficiente giallo della lampada a parete, il bianco e nero della memoria e di immagini che avrei forse utilizzato, per quadri, in un futuro più remoto che prossimo, comunque successivamente e non a brevissima scadenza. Tante di quelle carte di sviluppati frammenti e di ricordi naufraghi sono rimaste a vagare per anni, e sono ancora qui, oggi, in un chilo e qualche etto di roba molliccia grigia, come quadri importanti nel momento in cui ne sorgeva l'urgenza, ma rimasti allo stadio di progetti, di desideri, semplice routine, in parte scaltro e necessario mestiere; dipinti che mai più realizzerò e che dondolano, si muovono, galleggiano come onde sull'acqua.
Bisognerebbe avere la possibilità di tornare indietro, bissare la propria vita, recuperarle quelle carte e quella memoria, moltiplicare lo spazio della pittura, ma col cervello e le mani di allora, non quelli di adesso, né quelli di vent'anni fa, neanche quelli di ieri.
Pittura naufraga, essa, si chiama.
Dovrei, per contro, trovare il modo di farla, questa pittura, così come la “sento” oggi, mentre gironzola senza meta nella testa.
Quella che espongo ora, suddivisa in tele e tavole, tutte intercomunicanti malgrado la reciproca – da parte loro intenzionale – lontananza che le separa, si trova in un luogo della memoria che frequentemente cambia posizione, ha un'agrodolce e irrequieta collocazione, col sapore di fegato veneziano, difficile da seguire, cui per di più mi costa fatica dare limiti e definizione, tranne che in giorni speciali e in una o due sale del Palazzo Farnese; ma se devo essere sincero, mi capita di incontrarla – la convinzione è totale, perciò ne parlo – in compagnia di quelle tele e supporti altri, incorniciati o meno, protetti da vetro o no, davanti ai quali vive e si muove Belfagor.
Pur essendone stato quasi dirimpettaio, mai andai in Egitto. Pur essendo distante un'ora di strada, il Museo Egizio di Torino lo vidi alcuni anni dopo il trasferimento a Tortona.
Un disegno che non ho più, ma che mi piacerebbe mettere insieme a questi quadri, si riforma a più riprese nella mente, quasi progredisse sui gradini di una ripida scala verso una notturna pausa sottratta alla vertigine, o come un paesaggio circolare visto dall'alto e illuminato da un faro che gira. Un autoritratto a penna, sopra i tetti del Louvre, con camice da pittore, tavolozza e pennelli, e certamente il muso felino. Gaspagor lo chiamai, e lo inviai all'amica Marika che mi aveva organizzato una mostra alla Scuola dei Calegheri di Venezia. Sui gatti.
Perciò, in sintesi, sono quadri, quelli di questa inusitata esposizione, che per un motivo o per l'altro ho lasciato incompiuti. Molti di più erano i dipinti rimasti a metà strada, alla sola fase iniziale o quasi arrivati a destino, prima del duemila; ma poi è passato Dracula e li ha chiamati a raccolta, trascinati con sé. E tra quell'anno e il successivo, il primo del terzo millennio, se n'è impossessato mordendoli, rinnovando in loro identità, dignità, sogno e ragione, compiutezza, vita e futuro.

Voglio andare a Parigi, diceva il Fantasma del Louvre. E poi: sono tornato l'altro ieri da Parigi.
Dovetti aspettare anni per vederla.
Non mi deluse questa città che per la prima volta vidi – dopo aver sgombrato mente e mani dal quesito “luogo dell'abitazione?” e dall'ingombro delle valigie, con braccia non più tese dal peso (non ricordo se tremanti per lo sforzo, oggi di sicuro lo sarebbero) e piedi rilassati da passeggio – vidi, dicevo, valutai e assaporai, riflessa nelle vetrine pomeridiane dei negozi, dalle parti di Les Halles, sovrapposta a brancusiani manichini, illuminati di sguincio, dall'aria gotica, in alcun modo dechirichiana metafisica. La doppia, anche tripla trasparenza, buia come il Louvre di notte del '66, annullava le distanze che separavano quel momento, nel quale anch'io facevo parte del riflesso, dai quadri siciliani di gioventù, e fu ciò che fotografai prima, con l'HP5 da 400 asa, e prima sviluppai e stampai, tornato al mio paese, dove l'uva veniva chiamata come sentivo chiamarla in francese, o similmente: racina.
Questo sviluppo, e la seguente stampa, feci in modo di ottenerli con un contrastato e granuloso nitore di neri e bianchi, verniciati e modellati da echi come lo è l'abisso, con una purezza lineare che poteva ricordare un ritratto o un nudo di Modì, stare gomito a gomito (arrotondato) con il segno liquido fluttuante di Fujita, poco spesso e scorrevole, deciso; come tracciato con la mina H seguita da un numero a piacere.
Ritrovai la tempera su compensato con “Un uomo e una donna al chiaro di luna” dopo decenni, addossata alla parete del sottoscala a piano terra, in una casa oramai vuota e con la polvere stratificata.
Tutti questi quadri interrotti, incompiuti, li sento internamente arroventati; anche se sembrano fermi da tanto a metà di un guado che è svaporato nell'indotto spegnimento di vecchia data, bloccandoli né di qua né di là, mi si scottano le dita quando le avvicino ad essi, come se l'incompletezza della pittura avesse un fuoco perenne acceso sotto che non c'è modo di spegnere, motivo della sostanziale instabilità. Forse, se tornassi indietro nel tempo – ma questo è possibile solo al cinema – metterei più ordine in quello che ho fatto. O meglio, in quello che farei; chissà poi se farei le stesse cose, se la pittura sarebbe quella che già conosco o altra.
Daguerre, Nadar, Lumière uno e due; il nero di seppia doveva essere illuminato da entrambi i lati, come la vernice, a quarantacinque gradi, fotografato e stampato senza artifizi sulla carta politenata della Ilford. Burattini di carta chiamavo i fili di ferro con terminazioni nervose di varie forme geometriche, quadrati, rettangoli, cerchi, triangoli.
Il giubbotto felpato, verde, Stone Island, i pantaloni di velluto a coste che piacevano a Danielle, la fila al Jeu de Paume con Mariella. Una delle fotografie che le feci in quell'occasione, la utilizzai per il quadro “Appunti di viaggio da Roma a Parigi”, che dipinsi, senza mai completarlo, qualche mese prima di andare via dalla Sicilia. Una grande foto di Fellini di profilo, tubi attorcigliati attaccati a caschi sonori; il parquet di legno chiaro in una casa con soppalco e una trapunta sul letto; il Centro Pompidou.
L'orologio d'Orsay non era ancora en plein air, da non molto, di lì, ripetutamente passava Gae Aulenti. Ora non passa più da nessuna parte. Dietro i grappoli d'uva che dipinsi, esattamente dieci anni dopo, a Mombisaggio, molto dietro, c'erano le Alpi; dopo, molto dopo, nella stessa direzione, un TGV stava entrando in una stazione di Parigi.
I colori erano del cinema, i pugni e i dollari di Leone, L'infinito era di Leopardi. Il Bellini, un luogo in cui accadeva di tutto, l'Excelsior era più centrale e più di classe, lì ci andavano anche le donne, le signore.
Spesso anche due film per cinquanta lire, al Bellini, dalle tre alle sette e mezza lo spettacolo pomeridiano, guardando la stessa pellicola più di una volta. Nel buio fumoso, in compagnia dei sogni di Méliès, che sarebbero stati anche di Scorsese, in compagnia di ceci abbrustoliti e semi di zucca tostati e salati (le arachidi mi piacevano poco, meno ancora i lupini), non pensavo ai marciapiedi, su cui la gente passava e su cui poteva essere buttata qualsiasi cosa, dove questi venivano stesi a seccare. Alla fine c'era qualche sogno in più che s'era fatto miseria, come le valve dei semi sotto i sedili di legno, e labbra arrossate che bruciavano per il sale dei semi di zucca; lo stesso sale che, salendo in un tubo, col fumo imbiancava le caldarroste, quand'era il loro tempo. Le castagne secche, disponibili tutto l'anno, avevano bisogno di dentature forti. Ma, allora, i denti possedevano per davvero quella forza e quella durezza, tali da rompere anche il guscio di mandorle e nocciole.
Il sax soprano giusto come incipit e la fisarmonica di Parlez-moi d'amour, ben amministrata nei tempi, danno man forte alla sceneggiatura azzeccata e alle sequenze poeticamente surreali di Midnight in Paris. Il movimento della testa di Marion Cotillard, quando dice “molte” riferendosi alle amanti di Braque, è straordinario e memorabile. Vidi una mostra su Braque intorno alla metà degli anni settanta, all'Accademia di Francia o alla Galleria d'Arte Moderna, non ricordo bene. Non mi piacque granché. Mi trovavo a Roma per lavoro, quel giorno, e non mi sentivo in vena di veder mostre.
Una specie di conferenza su Claudel, alla galleria “Il trittico” di Palermo, durante la prima mostra personale.
Qualcuno spaccava lampade che illuminavano le strade e cercava di colpire i pipistrelli con una lunga canna alla cui estremità aveva legato un filo di ferro.
In Sicilia solo il fuoco può attizzare il biancore della neve, dalle parti opposte a quelle delle bianche colonie coniche di Trapani (che non sono Le bianche scogliere di Rügen).
Tra gli altri, qui, adesso, c'è un quadro dell'83 dove la mitologia percorre i viali di Versailles (nella luce di Allen hanno i colori di spiagge mediterranee); ci sono Ulisse e Omero, quindi la testa di bronzo del Rodano col corpo di carne e tela (vera) dell'artista.
Feliscatus