Feliscatus – La torre di Babele
Un vocio indicibile viene dal mare / da ogni spugna che è dentro tutte le cose / sotto e sopra l’acqua / innumerevoli parole danzano e galleggiano / da lunghi viaggi tornano / e ripartono / nell’umore labiale / di lingue di spuma.
Comunicato stampa
Un vocio indicibile viene dal mare / da ogni spugna che è dentro tutte le cose / sotto e sopra l’acqua / innumerevoli parole danzano e galleggiano / da lunghi viaggi tornano / e ripartono / nell’umore labiale / di lingue di spuma.
Quando ero giovane facevo pesca subacquea. D’estate, alle cinque di pomeriggio, dopo aver smesso di lavorare, prendevo lo zaino con muta, maschera, pinne, zavorra, gancio, fucile e via al mare. Un quarto d’ora di strada sotto il sole ancora caldo, qualche minuto di discesa lungo il sentiero sulla costa, dallo slargo in alto dove parcheggiavo la macchina, per arrivare alla “casetta” sugli scogli, e, dopo essermi preparato, finalmente in acqua. Lì passava tutta la stanchezza.
Non era granché importante pescare; sì, ci andavo anche per quello, era la motivazione di partenza, e certamente capitava di prendere, a seconda dei giorni, cefali, saraghi, scorfani, lappane, raramente cernie. Polpi, sì, tanti, una volta anche una murena. Già, i polpi, con quei rifugi talvolta improvvisati, in oggetti (o quel che ne era rimasto) insospettabili, anche fondi di bottiglie di vetro che rilucevano sul fondo sabbioso chiazzato di luce solare; oppure, mossi da curiosità e sporgendosi dalle loro tane – adornate, da grandi esteti quali essi sono, di valve di conchiglie, i resti dei loro pasti – mi osservavano guardinghi, con la testa incassata tra i tentacoli raggomitolati.
Volentieri prendevo i ricci, impreziositi da quell’incredibile varietà di colori, quando erano sott’acqua, dal blu al rosso scuro, dal viola al nero, che in superficie si uniformavano ad un unico colore bruno van Dyck spento o, similmente, umida terra di Cassel. Quando aperti, però, quale delizia quelle uova arancioni con un po’ di limone!
Se c’erano, mi fermavo a guardare le meduse (ne trovavo tante quando al mare andavo, nei giorni in cui non lavoravo, di mattina), di quel meraviglioso e trasparente azzurro; elegantissimi animali, fatti di nulla, che spiaggiati, sotto il sole, diventavano una massa informe, viscida e gelatinosa.
Ma, ripeto, non era indispensabile prendere qualcosa, mi rendeva già soddisfatto stare a pelo d’acqua, andare giù di tanto in tanto; prima di ogni cosa – di ogni pensiero, di ogni decisione sull’itinerario da seguire, su quali zone soffermarmi, a quale profondità arrivare, se dedicarmi alla veloce esplorazione in larga scala o alla meticolosa insistenza su piccoli punti –, muovendo appena i piedi e procedendo lentamente, mi lasciavo incantare, ondeggiando inerte, a mia volta, come acqua sull’acqua, dal rallentato ondeggiamento della posidonia, e ciò mi rilassava; e guardavo, cosciente di essere in un luogo dove stavo a mio agio, attraverso le lenti graduate della maschera, bagnate di saliva prima di metterle per impedirne l’appannamento, il mondo verde-azzurro sottomarino e nello stesso tempo l’increspatura delle onde in superficie, ascoltando la cadenza del respiro portata dal tubo agganciato alla cinghia della maschera, con l’orizzonte che era diventato, tanto appariva vicino, domestico e facilmente raggiungibile con le mani.
Una volta decisi di fermarmi fino a tarda sera, nuotando pigramente coi piedi e muovendo appena le braccia, intorpidite dalla permanenza prolungata nell’acqua che, da baldanzosa qual era stata durante il giorno, meno nel pomeriggio, verso sera si era rasserenata, ma ugualmente, dopo alcune ore di ammollo, la percepivo come fredda sulla pelle rattrappita delle mani. E mi vidi, a poca distanza, illuminato dalla poca luce che, tra i tanti riflessi e le semoventi, fantastiche ombre, ancora c’era, e che si mescolava, con fare spedito e ad imprevedibile scansione, a quella pallida e prossima della luna. Ero vestito, in piedi, sospeso nell’acqua che mi arrivava fin sopra le ginocchia; mi trovavo davanti al cavalletto che da tempo non utilizzavo e che lì vedevo coperto di muschio e licheni. La postura era quella di Ingres nell’autoritratto a ventiquattro anni (uguale età avevo allora), con lo stesso soprabito terra d’ombra, le cui abbondanti e ben organizzate pieghe, ricevuto il comando tattico dalla larga manica sinistra, dinamicamente divergevano per ricongiungersi, fermandosi di colpo, sul bordo di una pausa scura posta obliquamente sulla spalla, e cadere a cascata dietro la schiena – fino a raggiungere e superare la superficie dell’acqua immergendosi pesantemente in essa – lasciando indenne e poco mosso il biancore della camicia, dal rigido colletto della quale usciva il mio teschio felino. Nella mano sinistra, questo ottocentesco duplicato del pittore che in quel periodo ero e non ero, nel senso che dipingevo con l’immaginazione, senza perciò lasciare una traccia fisica di quello che mi passava per la testa (disegnavo però tanto), aveva un cartiglio, un foglio: degli appunti o un disegno, pensai. Sentendomi arrivare si voltò di scatto (e fu così che lo dipinsi molti anni dopo) interrompendo per un attimo la valutazione della tela, che percepii come compiuto dipinto, posta sul cavalletto la cui base d’appoggio stava nell’acqua alla stessa altezza dei miei piedi chiusi da scarpe.
La scrupolosa lettura del quadro che gli stava davanti, e che avveniva con gli occhi inesistenti delle feline orbite vuote, era indirizzata a carpirne la verosimiglianza (giacché di autoritratto certamente si trattava) attraverso il confronto con la pietrificazione, l’incantamento, la morte della pittura nell’immagine di sé restituita dalle lenti degli occhiali, le cui asticciole erano per metà conficcate nella tela. Questa potevo vederla però solo di profilo, su quel sostegno una volta bianco (comprato nell’aprile del ’73) i cui pilastri laterali erano immersi nell’acqua, come le mie gambe, fino a una certa altezza, facendo sì che il dipinto ne rimanesse fuori.
Decisi di nuotare in direzione di quella inquietante e attraente scena, che sul vicino orizzonte si proiettava come surdimensionata sotto, per rifrazione, e monumentale sopra la superficie dell’acqua per la visione che ne avevo dal basso, muovendomi impercettibilmente, evitando di disturbare, più di quanto avevo già fatto, l’artista in cui mi riconoscevo. Ma, man mano avanzavo, cercando, arrivato in prossimità di essa, di ruotargli attorno, anche quella plurale apparizione si muoveva, ruotando su se stessa a eguale velocità, o, meglio, lentezza, cosicché mi fu impossibile vedere il dipinto; né mai riuscii a intuirne l’aspetto e la forma risvegliando il ricordo e ricostruendo l’accaduto più volte a distanza di tempo e pittura: Così volano le meduse.
La torre di Babele sta, con egual peso per ognuno di essi, anche negli altri trentuno quadri che l’hanno, uno dopo l’altro, costruita: Wie ein naturlaut, Torre di Babele, Torre di Babele II, Torre di Babele III, Amara torre nelle acque biforcute, Herzog verso la torre di Babele, L’occhio lungo di Gertrude, Le mani fredde dei Carpazi, Herzog di ritorno dalla torre di Babele, La torre di Babele o il bianco di Mahler, L’invenzione del fuoco, Vite e morte, Wie ein naturlaut II, Prima del crepuscolo, Torre di Babele IV, Orfeo ed Euridice, Goletta, Quadrato rosa, Lapis scarnificato, Felis silvestris, Lince, Lo scudo, Torre di Babele V, Ancòra una scure per l’ennesimo tiro, Rosa senza senso, Cenotafio, L’acrobata illuminato alla ricerca del nulla, Ogni varo, Ogni varo II, Wie ein naturlaut III, Ungird.
F.C.
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