Digiditale 1

Informazioni Evento

Luogo
XS GALLERY
XS Gallery by B-house Art Company, via Milano 72, Como, Italia
Date
Dal al

Fino al 20 dicembre, apertura solo il giovedì e il venerdì dalle 15.00 alle 19.00 o su appuntamento scrivendo al 334 7940335.

Vernissage
01/12/2019

ore 17

Artisti
Michael Rotondi, Marlo Montoya
Curatori
Pablo Bermudez
Generi
arte contemporanea, doppia personale
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Michael Rotondi e @art_fabrique by Marlo Montoya.

Comunicato stampa

L’aggettivo “digitale” deriva dalla parola latina “digitus” che corrisponde all’italiano “dito”. Il digitale, nella sua accezione letterale, è un linguaggio iconico in cui ha un grande peso l’azione del dito. Sia il lavoro di Michael Rotondi (Bari, 1977) sia quello di Marlo Montoya (Medellin, 1986) nascono entrambi dal gesto di intervenire su immagini preesistenti con un “dito computerizzato” (ovvero un’applicazione del computer che permette di ritoccare immagini come se lo si facesse con un dito): in questo senso sono “digiditali”. Per certi versi quindi entrambi questi artisti riportano il digitale alla sua condizione primaria, basilare, tattile. Rotondi trasforma immagini fotografiche in situazioni pittoriche, Montoya cancella parti di immagini come se le “sbavasse”.

Qui di seguito i testi introduttivi alla mostra di Pablo Bermudez e Francesca Lucioni.
En plein air digitale
di Pablo Bermudez

La tecnica dell’en plein air non fu di certo applicata per la prima volta degli impressionisti. Ciò che ne facilitò l’utilizzazione tra i pittori della seconda metà dell’Ottocento, e che probabilmente ne influenzò i risultati, fu quella che per l’epoca risultò essere un’innovazione tecnologica: i tubetti per i colori a olio. Cioè una cosa che oggi diamo per scontata, così come iniziamo a dare ormai per scontato farci un selfie per strada, fotografare un paesaggio che vediamo dal treno, condividere su Instagram una “storia” della vita di 24 ore.
Avere una fotocamera in tasca sempre a portata di mano in ogni secondo ci ha costretto nell’ultimo decennio a riconsiderare molti parametri della fotografia come arte, come comunicazione e come diffusione della realtà. Nel bene e nel male stiamo ancora cercando una risposta a tutto questo: sarà positivo o negativo? La fotografia oggi può essere on-line un secondo dopo lo scatto… Giovanni Sartori ci aveva già messo in guardia sulla diffusione dei nuovi media: là dove domina l’immagine e viene lasciata da parte la lettura, “la lettura quella vera”, si genera un decadimento del processo cognitivo dell’homo sapiens. Gli artisti oggi si trovano letteralmente in mano la possibilità di sperimentare gli scatti dello smartphone, la fotografia del quotidiano, il paesaggio urbano durante una giornata qualsiasi spostandosi in metro, la foto da inviare su chat a un’amico, il selfie per ricordare una serata o un compleanno. Per Rotondi, abituato nella sua ricerca artistica a sperimentare nuovi media sia plastici sia digitali, questi scatti diventano materiale artistico da post-produrre, attraverso programmi per computer come la tavoletta grafica o in modo ancora più immediato e diretto: con applicazioni per lo smartphone che permettono di modificare attraverso un segno pittorico lo scatto iniziale. Un passaggio per lui semplice e veloce, date le sue doti artistiche, che lascia però il tempo per riflettere e trasformare in arte la superficialità digitale alla quale siamo costretti: generando una nuova “impressione”.
D’altronde anche il segno digitale, generato attraverso algoritmi per imitare i segni reali dei pennelli, ricorda le grosse e decise pennellate degli impressionisti. Un programma che imita il segno umano per permettere all’uomo di riprodurre la pittura attraverso un oggetto tascabile: mi ricorda il tubetto di pittura a olio. L’uso del tubetto, così come ora la fotocamera tascabile, permetteva allora di immortalare un preciso momento. Nel XIX secolo quindi un semplice tubetto contribuì a sovvertire il sistema rigoroso delle accademie d’arte rivoluzionando completamente l’estetica pittorica. La domanda è: fino a dove ci porterà lo smartphone, l’informazione audiovisiva tascabile?
Una partecipazione inconsapevole
di Francesca Lucioni

Sono lavori di una generazione mediatica, quelli presentati dalla B-House Art Company, società nata nel 2013 e composta da sei artisti Pablo Bermudez, Marlo J. Montoya, Daniel Devila, Javier Blanco, David Linarte, Blito B. che basa il suo operato su un modello economico/aziendale assumendo i meccanismi di marketing e le strategie aziendali come tecnica di produzione artistica. Il modello economico stesso, quindi, entra nei processi artistici trasformando l’arte in un fattore di immagine. Per questo progetto, Marlo Montoya (Colombia, 1986), rielabora fotografie prese dai media, immagini come tali e dunque simulacri. In un’epoca in cui avviene la digitalizzazione dei dati, lo statuto dell’immagine subisce un mutamento e la perdita del rapporto con l’originale; tendenza diffusa dagli anni Ottanta, che oggi trionfa nel mondo delle nuove generazioni. I dispositivi che abbiamo attualmente in uso, infatti, permettono di poter salvare il vissuto in ogni momento e la possibilità di divulgarlo attraverso ogni canale; ciò che emerge è la supremazia della diffusione a discapito della qualità. E’ all’interno di questo meccanismo che lavora Montoya; egli si appropria di immagini che trova sul web, le rielabora e le diffonde ulteriormente. Il materiale manipolato, dunque, non è più primario, ma si basa su elementi già in circolazione.
Tale processo è stato indagato da Nicolas Bourriaud, critico e curatore francese, in un libro del 2004 dal titolo Postproduction, dove l’autore analizza un tipo di arte diffusa dagli
anni Ottanta in cui le opere sono create sulla base di lavori già esistenti. In questo contesto l’arte risponde ed è frutto del caos proliferante della cultura nell’età dell’informazione.
Ricollegandosi e questo scenario, Montoya, si appropria di immagini prese dai social network tramite uno screenshot, fotografia di una fotografia, da questo avviene poi un’ulteriore rielaborazione attraverso segni che dissolvono l’immagine stessa, alcune volte solo in parte, altre volte sull’intero scatto. Una volta effettuata questa operazione la fotografia viene “ripostata” su altri canali social. Il processo, dunque, consiste nel ripresentare, sotto altri filtri, scatti presi dal caos proliferante prodotto da un eccessivo utilizzo di questi social. In questo modo l’artista si inserisce in una zona d’attività che ha lo scopo di generare ulteriori relazioni e processi nella produzione di immagini. Un’”estetica relazionale” che ribadisce l’aspetto interattivo di quest’ultima rivoluzione mediatica. L’opera si identifica con il processo atto a rielaborare una rete di segni e gli artisti entrano all’interno di questo flusso di produzione esaltando forme pre-esistenti.