Claudio Bassani – Viaggio nelle suggestioni della pittura

Informazioni Evento

Luogo
CASA DEL MANTEGNA
Via Giovanni Acerbi 47, Mantova, Italia
Date
Dal al

mattino, da martedì a domenica 10.30 /12.30,
pomeriggio, mercoledì e giovedì 15.00/17.00 - sabato e domenica 15.00/18.00
lunedì chiuso
In occasione di Festivaletteratura apertura straordinaria da mercoledì 3
a domenica 7 settembre 2014 mattino 10.00/12.30 - pomeriggio 15.00/22.00

Vernissage
02/09/2014
Biglietti

ingresso libero

Artisti
Claudio Bassani
Curatori
Gianfranco Ferlisi
Generi
arte contemporanea, personale
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L’antologica dedicata a Claudio Bassani (Borgoforte, 1933), allestita alla Casa del Mantegna, approfondisce e mette a fuoco un segmento dell’indagine sul territorio inaugurato con la rassegne dedicate alla Pittura & Paesaggio del Mantovano.

Comunicato stampa

L’antologica dedicata a Claudio Bassani (Borgoforte, 1933), allestita alla Casa del Mantegna, approfondisce e mette a fuoco un segmento dell’indagine sul territorio inaugurato con la rassegne dedicate alla Pittura & Paesaggio del Mantovano. Tocca, parallelamente, un dialogo – in realtà mai interrotto - con la varietà delle esperienze artistiche virgiliane.
Una ricca selezione delle opere dell’artista mette a fuoco una attività pittorica interrotta – per quanto concerne le uscite pubbliche – nel 1964 e poi perseguita in silenzio, in appartato romitaggio, fino ad ora. Le opere lentamente accumulatesi sono comunque sotto i nostri occhi, a testimoniare la dimensione felice del suo costante esercizio.
Dalle piccole nature morte degli anni Cinquanta cariche di riferimenti casoratiani e morandiani, attraverso le Venezie degli anni sessanta in cui si colgono i riferimenti dell'artista alle esperienze di Mafai e Scipione si snoda un percorso legato alla inquadratura più ricercata, in un equilibrio lentamente studiato e in cui tutto pare composto come per un connaturato calcolo.
Una svolta importante nella sua pittura avviene alla fine degli anni Sessanta quando, conosciuto Carlo Levi, Bassani resta affascinato dal suo personalissimo espressionismo, dal modo in cui l’artista prosegue, controcorrente, il suo personale percorso tramite le istanze realistiche. Bassani si addentra così nella rappresentazione della povera gente, in un immaginario popolato da figure cupe, da persone talvolta macilente e scheletriche.
Quando infine ci addentriamo nelle pitture della tarda maturità, nelle opere seniles, per usare un termine desunto da opere petrarchesche, la narrazione si fa più tenue, mentre le immagini catturano l’essenzialità delle cose e, parallelamente, si modifica anche la tavolozza che ora riluce di toni più caldi, più lievi e delicati, meno introversi. Compaiono numerosi, in questo periodo, i soggetti sacri mentre un malinconico senso di ripiegamento sembra essere la cifra dominante di fondo.
Alla fine, nell’appassionato circuito che rimanda a un pittore intento a riflettere sulla transitorietà delle illusioni pittoriche e sulla caducità della vita, dalle prime prove giovanili, tutte assicurate ancora al respiro della natura, a questo più recente affioramento di una diversa riflessione istintivo-pulsionale, ciò che emerge è l’autenticità di una vocazione pittorica, vocazione che si è articolata parallela a quella dell’architettura. Perché Claudio Bassani è stato, a Mantova, una delle figure più rilevanti dell’architettura del dopoguerra.

Viaggio nelle suggestioni della pittura di Claudio Bassani
Gianfranco Ferlisi

Mi imbattei la prima volta nel nome di Claudio Bassani mentre scrivevo un saggetto sulla Rotonda di San Lorenzo in Mantova. Ebbi allora tra le mani i vecchi rilievi che erano stati eseguiti da lui nel 1955 (in collaborazione con Adolfo Poltronieri), quando - sotto la guida di Bruno Zevi - era studente presso lo I.U.A.V. di Venezia.
Rammento ancora meglio (perché letto e riletto) l’intervento, a più mani, sul San Sebastiano, messo a punto per un convegno organizzato in occasione del quinto centenario della morte di Leon Battista Alberti, intervento poi pubblicato in un volume divenuto oramai di culto. Ebbi infine modo di incontrare direttamente Claudio Bassani, e di farmi una opinione più approfondita sia della persona sia del personaggio, in occasione del restauro e della sistemazione della antica masseria di Mantova, quando furono riportati in vita gli affreschi quattrocenteschi della «sala della città e dei castelli».
Ero assai giovane quando lo incontravo, agli inizi degli anni ottanta, e lo trovavo perennemente affannato a dare forma, insieme ad Alfonso Galdi e ad Adolfo Poltronieri, al «centro culturale polivalente» di Palazzo Te.
Non immaginavo allora che Claudio, vero protagonista dell’architettura mantovana del secondo dopoguerra, fosse anche un pittore.
Tale scoperta risale solo a tempi recentissimi: fu lui un giorno a invitarmi nella sua bella casa di Dosso del Corso e a qualificarsi come l’artista autore degli innumerevoli quadri che l’arredavano. L’esperienza visiva imprevista, esaltata da un insospettato bagaglio sensoriale, produsse, come per magia, una sorta di lunga strip con l’intero suo vissuto emozionale/espressivo: il lavoro di una vita.
Mi chiedevo perché mai avesse tenuto celata per tanti anni un’esperienza intensa come la sua. La risposta, di fronte a un esercizio di qualità rimasto pressoché inedito, era tutto sommato semplice.
La professione d’architetto, i tanti progetti, gli studi lo avevano assorbito completamente. Fu così, infatti, che il suo iniziale e giovanile approccio con le arti figurative fu costretto, precocemente, a un progressivo ridimensionamento, tanto che la sua ultima esposizione è datata al 1964. Quasi cinquant’anni di silenzio sono trascorsi da allora. Ma l’artista non ha mai interrotto questa attività espressiva praticata, negli anni successivi, in appartato romitaggio. Semmai l’astinenza da occasioni espositive pubbliche dona oggi una patina quasi archeologica al suo lavoro: le opere lentamente accumulatesi - nello scorrere degli anni che sono volati via - sono comunque sotto i nostri occhi a testimoniare la dimensione felice del suo costante esercizio.
In quel passaggio degli anni Sessanta si maturava, in effetti, la sua affermazione come architetto. E, come racconta Claudio: «la testa non poteva stare più, in quel contesto, tra le nuvole: la mente doveva essere sgombrata dal coinvolgimento emotivo e totalizzante del dipingere».
Recentemente ho avuto modo di parlare con l’artista ripetutamente, di ascoltare le sue narrazioni, di discutere sulle opere da proporre in mostra. Così Claudio ha cominciato a dipanare il racconto delle sue vicende.
Rammento le considerazioni spontaneamente emerse mentre mi mostrava due piccole nature morte del 1952. Nella prima tela le uova della poetica casoratiana, insieme a una scodella e a una sedia, offrono il senso di una inevitabile geometrizzazione dello spazio fisico, di un introverso antirealismo figurativo, in cui una spessa pittura materica si svolge su una tavolozza tonale scura. È il tentativo giovanile di un omaggio simultaneo sia a un maestro novecentesco sia (assai più blandamente) alla pierfrancescana Pala di Brera. Il giovane Bassani optava da subito per una scelta cromatica antiretorica, volta ad alleggerire l’aura carismatica del soggetto pittorico, a sgombrare il genere da vacui compiacimenti edonistici e sensuali, per fare emergere, sotto le opache tracce d’una pasta pittorica plebea e malinconica, l’orizzonte dei suoi sentimenti, delle sue riflessioni, della verità dei suoi gesti.
Ma i discorsi, quasi sempre, dissotterrano antiche passioni: ecco così il «lievito emotivo» che il Bassani di quel tempo cercava di far attecchire nelle sue pitture: emerge con chiarezza in una veduta di piazza San Marco a Venezia (1956), immersa in una invernale luce cupa e priva di splendori, una veduta colta sotto l’ammassarsi improvviso di nuvole grigie cariche di pioggia. La sensibilità artistica modella i rapporti tra architettura e laguna, caricando il mare di un soprassalto di verde marcescente, concentrandosi sulla superficie della pavimentazione del sagrato con tonalità di terre spente e malinconiche. Si colgono qui i riferimenti dell'artista alle esperienze di Mafai e Scipione. Le pennellate guizzano timide prima di depositare un colore che pare sfibrato e macerato da mille dubbi e mille meditazioni. Claudio mi parla del «silenzio morandiano», del suo ripensamento di un’esperienza in cui il colore sembrava diventare espressione dei digiuni e delle mortificazioni di chi aveva vissuto la giovinezza tra le vicende belliche appena concluse: cercava così, nelle sue stratificate note di colore, la musica intensa e segreta del geniale bolognese. Voleva far emergere il mormorio delle cose.
È senz'altro una pittura già interessantissima quella che Bassani realizzava in questi anni. Un tonalismo inquieto, sostenuto da emozioni contemplative, si rapprende prima nelle sue nature morte e poi nei ritratti delle sue Venezie. Claudio traduce così la sua sfera intima e personale in opere come il Rio Veneziano (1954), il Campiello (1955), la Riva degli Schiavoni (1956), il Canal Grande (1957), la Nebbia in laguna (1959), la Punta della Dogana (1957), la piazza di San Marco (1963) e Santa Maria della Salute (1964).
Il paesaggio si materializza attraverso l’inquadratura più ricercata e prolungate introspezioni, in un equilibrio lentamente studiato e in cui tutto pare composto come per un connaturato calcolo, per una perfetta equazione formale. I colori bruciano come l’incenso sulle ceneri dei turiboli. La sua Venezia, priva di presenze umane, cerca di rappresentare una quiete e una assenza di suoni che rimandano a ciò che la scrittura non riesce mai a dire del tutto, a un tentativo di poesia pittorica che vuole portare alla luce i sentimenti più insondabili, l’eco dei dolori dell’anima più occulti. Affiorano, nelle atmosfere, le sensibilità e i trasalimenti di chi ha vissuto le tragedie della guerra.
Claudio lavora spesso, in questi anni, accanto a Walter Mattioli e mette a punto, insieme a lui, la capacità di cogliere con straordinaria ed emozionante immediatezza i toni, i colori, gli angoli di una città storica. Venezia, come abbiamo visto, diventa, per qualche anno, il luogo elettivo della sua ricerca espressiva: è la città in cui ha condotto gli studi, lo seduce con la sua incomparabile magnificenza. Tra la città lagunare e il pittore scatta dunque una sorta di relazione affettiva: come un’amante esigente la città dei Dogi lo assorbe quasi completamente. E la sua pittura davvero cresce e si fa sempre più colta, sempre più ricca di riferimenti, costantemente rinnovata in un lungo e rigoroso percorso.
Ma il tempo delle prove più difficili maturava velocemente tra il 1960 e il 1964. Se si osserva quanto accade tra le due Biennali, che vedono prima l’affermarsi dell’informale, col veneziano Emilio Vedova e i francesi Fautrier e Hartung, e poi l’avvento della Pop Art americana, si ha chiaro l’orizzonte dei cambiamenti risolutivi in atto. Eppure nessuna radicale novità formale seduceva nel frattempo l'operazione pittorica di Bassani. Anzi, lo spartito paesistico, come nei melanconici pittori del «Ducato Mantovano», tante volte narrati da Emilio Faccioli, cercava più spesso di insinuarsi nell'ispirazione dell'artista per dar corpo al compiacimento di un raffinato descrittivismo, espressione di una componente tecnica effettivamente ben appresa, dato che mancava a volte il tempo necessario alla ricerca, allo studio. In ogni caso un gusto estetico innato e una personalità forte permettevano quasi sempre a Bassani di sottrarsi ai trabocchetti della maniera mantovana; il mestiere dell’architettura toglieva, comunque, l’ossigeno alla pittura: l'artista, infatti, investiva altrove il grosso della propria energia creativa.
Bruno Zevi, che, nel 1951, proprio a Venezia aveva incontrato il maestro americano dell'Architettura Organica Frank Lloyd Wright, lo orientava verso tale corrente: e Claudio Bassani si esaltava nell’inseguire la libertà dell’artista, la poetica del frammento, la discontinuità, la scoperta dei metalli, al di là dell’antica eloquenza della tradizione, per mettere a punto creazione sperimentale e varietà formale. La sua architettura, osservando quando realizzavano Carlo Scarpa o Luigi Piccinato (solo per fare un esempio), lasciava sempre spazio all'imprevedibile, alla crescita, alla poesia della vita e all’essenza dei materiali. Coniugava anche la sua professione d’Architetto, e ciò non sembri contraddittorio, con un pizzico del razionalismo di Le Corbusier.
Una svolta importante nella sua pittura avviene alla fine degli anni Sessanta. Conosce Carlo Levi, pittore e scrittore, famoso per il suo «Cristo si è fermato a Eboli» (1945), testimonianza amara degli anni del confino in Lucania. Bassani resta affascinato dal suo personalissimo espressionismo, dal modo in cui l’artista prosegue, controcorrente, il suo personale percorso tramite le istanze realistiche. Ammirava la sua intelligenza. Era sedotto dalla sua narrazione pittorica.
Un lavoro sulla memoria alimenta ora il motore di una pittura che si fa narrazione, impegno civile, spesso denuncia, nel suo senso più elevato, di sentimenti, di stati d’animo, di emozioni.
Lo sdegno per le ingiustizie e le diseguaglianze sociali, la condivisione commossa delle altrui sofferenze, la denuncia di ogni sopraffazione costituivano così, per gli anni successivi, le chiavi interpretative di una visione del mondo maturata, si direbbe quasi sedimentata, nel suo animo.
Dalla Bambina con la veste bianca (1967) fino a La Rete (1976) emerge una grande capacità empatica per le altrui sofferenze. Persone toccate dal contatto diretto con la crudeltà del mondo, ritratti di uomini donne e bambini, nelle cui espressioni si intravedono le prove fisiche e morali di cui sono stati di volta in volta testimoni o vittime, sviluppano in Bassani la propensione a recepire, da qualunque direzione provenga, il dolore umano. In maniera assai simile a quanto realizzava nella sua Castiglione delle Stiviere Franco Ferlenga, Bassani dà volto a figure “disumanizzate”, che si direbbero dipinte col miele e col polline, con ombre di tenebre e oscure polveri e terre della banlieue. L’elevata padronanza della tecnica pittorica gli fa prediligere la rappresentazione della povera gente, di un immaginario popolato da figure cupe, da persone talvolta macilente e scheletriche. Emerge così una inaspettata e fortissima carica emotiva, ai limiti dell’angoscia.
Claudio Bassani mi rammenta oggi che la letteratura e l’arte hanno la capacità di svelare molte verità e di gettare una luce inedita e imprevedibile sulla realtà più profonda delle cose. Mi ricorda che affidarsi all’astrazione sarebbe stato - a suo parere - come chiudere gli occhi sulla dimensione sfuggente, ma per lui fondamentale, della narratività e di un suo sensibile statuto del vedere, sedimentato oramai come le antiche scritture.
E intanto ora mi mostra due sue opere più recenti: il Castello Aragonese (2006) e Le traghettatrici (2006). Per il primo dipinto immediato è il richiamo a L’isola dei morti di cui Arnold Böcklin realizzò ben cinque diverse versioni negli anni tra il 1880 e il 1886. Quest’enorme scoglio cantato dall’Ariosto, emblema dell’isola d’Ischia, «lo scoglio ch’a Tifeo si stende, su le braccia, sul petto e su la pancia», dominato da rupi scoscese, avvolto in un’aura di mistero, acceso da un tramonto come scaldato da braci di fuoco, attraverso il gioco dei rimandi di senso, diventa simbolicamente l’isola della morte. Ed è, contemporaneamente, un luogo inquietante e un luogo di immenso incanto. Anche Le traghettatrici (2006), con le due cupe figure femminili vestite di nero che si muovono su due barche, sullo sfondo di una trasognata e padana Valeggio, diventano metafora del trapasso, del viaggio verso le dimensioni sconosciute dell’aldilà. In un’atmosfera misteriosa ed ipnotica, tra i dubbi dell’umano sentire, non stupisce dunque questa decadente associazione tra morte e bellezza che il pittore produce al tramonto della sua vita. Arte e inquietudine, intuizione poetica e meditazione, sapienza pittorica e intensità emozionale sono strumenti perfetti per portarci oltre la barriera della concreta rappresentabilità del reale: occorre anche saper costruire uno speciale silenzio attorno allo sguardo e attendere, attendere che sopraggiungano le giuste trepidazioni e lo stupore. Quello stesso che provo io nel cercare di trovare, faticosamente, la chiave del suo mondo.
Ci addentriamo dunque nelle pitture della tarda maturità: nelle opere seniles, per usare un termine desunto da opere petrarchesche. La narrazione qui si fa più tenue, mentre le immagini catturano l’essenzialità delle cose e, parallelamente, si modifica anche la tavolozza che ora riluce di toni più caldi, più lievi e delicati, meno introversi. Compaiono numerosi, in questo periodo, i soggetti sacri, come la Madonna delle Surfinie (2013), mentre un malinconico senso di ripiegamento sembra essere la cifra dominante di fondo. Ma, come direbbe Platone, «gli occhi dello spirito non cominciano ad essere penetranti che quando quelli del corpo cominciano ad affievolirsi». La donna senza sorriso (2008) ci osserva così, silente, mentre una massima evangelico/morale compare alla base del quadro: «nemo servus potest duobus dominis servire». Ma il silenzio è anche rappresentazione, che ci porta sulla soglia delle insondabili regioni del mistero: perché la creatività trova alimento buono nel silenzio delle immagini. Ed è in tale silenzio che la scoperta della dimensione religiosa diventa elemento ispiratore di varie creazioni pittoriche. Le sue suggestioni sacre ricercano l’integrazione della scrittura – come ne Il Sogno (2011) – quasi a voler smorzare ogni contrasto tra la labilità visionaria dell’immagine e la concretezza della comunicazione. Ma la solitudine dei segni e del colore non può che rivelare l’ambiguità e l’inafferrabilità della significazione sparsa nei meandri della pittura.
Alla fine, nell’appassionato circuito che rimanda a un pittore intento a riflettere sulla transitorietà delle illusioni pittoriche e sulla caducità della vita, dalle prime prove giovanili, tutte assicurate ancora al respiro della natura, a questo più recente affioramento di una diversa riflessione istintivo-pulsionale, ciò che emerge è l’autenticità di una vocazione di cui queste poche, scarne e senz'altro insufficienti parole danno modesta testimonianza. È solo la pittura, del resto, che può veramente mostrare i calchi degli stati d’animo dell’artista e aprire, a tutti, i recessi profondi della sua memoria. Finiscono, in effetti, per prevalere, a conclusione di ogni possibile parola, la nostalgia e il pudore, mentre una lunga e complessa storia, tra visibile e invisibile, tra superficie e profondità, si dipana nell’inevitabile sintesi di una antologica: un percorso estetico che riassume le fatiche di una esistenza nella materialità di poco più di sessanta ottimi dipinti.

Note biografiche

Claudio Bassani nasce a Borgoforte il 21 dicembre del 1933. Ben presto seguirà la sua famiglia in Liguria. Così, tra il 1934 e il 1942, trascorre la sua infanzia a Genova, meravigliosa città di mare che ora, negli anni senili, rammenta come una sorta di prigione.
Torna a Mantova dopo la fine delle guerra e va ad abitare in corso Garibaldi, proprio vicino alla casa del pittore Walter Mattioli. La bellezza delle sue opere lo attrae e lo affascina. L’incontro diventa scoperta della pittura e inizio di un dialogo con l'immaginario delle arti figurative. Uno dei primi dipinti che realizza è dedicato a una ragazzina che abita dirimpetto alla sua abitazione. Dopo averlo realizzato gliene fece dono. Quel quadro galeotto è ancora nella sua casa perché quella ragazzina divenne poi sua moglie.
Fu così che la passione giovanile, negli anni appena successivi del dopoguerra (1949-1954), lo condusse a frequentare, con estremo profitto, il Liceo artistico di Verona sotto la guida di docenti capaci e di prestigio. Tra questi Bassani ricorda ancora con affetto il pittore veronese Guido Trentini.
Il Liceo artistico di Verona, attraverso la crescita del gusto estetico, lo portò anche ad approfondire la tematica della progettazione architettonica. Negli anni di studio emergeva, sempre più ragguardevole, una forte autostima e la consapevolezza di quanto di unico e irripetibile dimorava nella sua sensibilità creativa. Un elemento vocazionale energico ed orientante, tra il 1954 e il 1960, lo porta a proseguire il suo iter formativo. Si sposta a Venezia per frequentare il corso di Laurea all’istituto Universitario di Architettura di Venezia (I.U.A.V.). E data proprio al 1954 l’inizio della collaborazione con Adolfo Poltronieri. Insieme preparano tutti e quaranta gli esami universitari e l’esame finale di Laurea. E molti degli esami sostenuti riguardano la storia e i principali monumenti mantovani. Nascono in tale contesto, ad esempio, i rilievi eseguiti nel 1955 sotto la guida di Bruno Zevi.
Ma il corso di architettura a Venezia offriva molto di più: una formazione completa tale da coniugare forma e gusto estetico del prodotto da costruire o dello spazio immaginato a livello di usabilità. Permetteva anche, al di là delle lezioni, di seguire e conoscere le idee di molte altre personalità di spicco: da Ignazio Gardella a Carlo Scarpa, da Giuseppe Samonà a Giovanni Astengo, da Ludovico Barbiano di Belgiojoso a vari altri.
Carlo Bassani e Adolfo Poltronieri si entusiasmavano, in particolare, per il genio di Frank Lloyd Wright e per la sua idea di architettura organica che oltrepassava la mera ricerca estetica o il semplice senso superficiale del costruire, perché in una società organica era necessario essere liberi da ogni imposizione esterna contrastante con l’idea di natura e con l’etica dell’umanesimo. Erano comunque attenti, i due, anche alla lezione del maestro dell'architettura razionalista LeCorbusier o a quanto realizzavano Ludwig Mies van der Rohe e Alvar Aalto. L’iniziale sodalizio con Poltronieri si chiuse nel 1962 dopo la presentazione di una tesi di laurea riguardante la progettazione di un complesso scolastico. Relatore era l’architetto Ludovico Barbiano di Belgiojoso. Lo attendeva ora il servizio militare prima presso la Scuola Allievi Ufficiali di complemento di Fanteria di Ascoli Piceno e poi sotto il Centro addestramento e sperimentazione artiglieria contraerei di Sabaudia. Il resto del servizio militare Bassani lo completerà a Mantova, come ufficiale sottotenente.
E proprio a Mantova, dopo l’esame di abilitazione alla professione, inizia il suo percorso professionale d’architetto in società con i colleghi Adolfo Poltronieri, Alfonso Galdi e Francesco Caprini. A questo gruppo si aggrega anche l’architetto Enzo Mastruzzi venendosi a costituire il gruppo «1+4». L’attività del gruppo si modifica già alla fine del 1963 quando muore prematuramente proprio l’architetto Enzo Mastruzzi.
Ma l’attività prosegue: nasce lo «studio architetti Bassani, Caprini, Galdi, Poltronieri».
La crisi edilizia che tocca gli anni tra il 1965 e il 1968, costringe tre degli architetti (Bassani, Galdi, Poltronieri ) a dedicarsi all’insegnamento nelle locali scuole medie. Nel corso del 1968 riprende a tempo pieno l’attività professionale.
Nel 1972 si stacca dal gruppo l’architetto Caprini mentre le varie committenze fervono, favorite anche dalla scarsa concorrenza di un periodo in cui il numero di laureati in architettura era tanto esiguo che a Mantova non si toccava nemmeno il numero minimo prescritto per la formazione di un ordine professionale territoriale.
Bassani, Galdi e Poltronieri, nel frattempo, lavorano per il restauro di Palazzo Te, delle Pescherie di Giulio Romano e del palazzo della Masseria. Elaborano studi e proposte di interventi su San Sebastiano e sulla così detta Casa di Sparafucile. I tre architetti redigono piani particolareggiati del quartiere dell’ex Ghetto e di San Leonardo. In provincia lavorano alle porte e alla cinta muraria di Sabbioneta. Si occupano di vari edifici monumentali pubblici. Danno una decorosa sistemazione alla torre gonzaghesca di Medole. Intervengono per restaurare il palazzo municipale di Monzambano. Si occupano anche di alcuni interventi stralcio nel Palazzo Ducale di Revere. Redigono i piani Urbanistici di diversi comuni mantovani.
Intanto, nel 1981, nasce a Mantova l’Ordine professionale degli Architetti. Claudio Bassani entra a farne parte e viene immediatamente nominato nella commissione per la vidimazione delle parcelle, commissione di cui tuttora fa parte.
Tra il 1982 e il 1987 è nominato come consulente della Commissione edilizia del Comune di Mantova.
Tra il 1987 e il 1995 diventa il coordinatore della commissione parcelle in seno all’Ordine professionale. Partecipa anche alla redazione delle Norme interpretative delle tariffe Professionali (NITP) adottate, nel 1989, dall’Ordine e valide per la stesura delle parcelle.
Nel 1993 si conclude la collaborazione con Galdi e Poltronieri. Apre così un proprio studio professionale e prosegue l’attività, in autonomia, per oltre un decennio, fino al 2004.
Nel 2014 ottiene il «timbro d’oro» per i cinquant’anni d’iscrizione all’albo degli architetti.
E intanto l’attività pittorica, mai abbandonata, prosegue con una ritrovata felicità lungo i sentieri di un immaginario sempre in grado, nel corso della stagioni della sua vita, di restituire concreto appagamento interiore, lo stesso appagamento che stavolta sarà garantito al pubblico che si avvicinerà alle opere di questa antologica.