Brendan Fowler / Paolo Gonzato

Informazioni Evento

Luogo
A PALAZZO GALLERY
Piazza Tebaldo Brusato 35, Brescia, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al
Vernissage
28/09/2012

ore 18

Artisti
Brendan Fowler, Paolo Gonzato
Generi
arte contemporanea, doppia personale

La prima mostra personale di Brendan Fowler in Italia, Walls at A Palazzo e una project room di Paolo Gonzato intitolata L’Isola delle Rose.

Comunicato stampa

Brendan Fowler
Walls at A Palazzo Gallery

Luglio 2012

James Rains: Questo testo è una versione ridotta di una conversazione sulle tue performance. Sebbene spesso parli delle tue opere oggettuali – che sono centrali nella mostra allestita negli spazi di A Palazzo a Brescia – descrivendole come “performative”, vorresti spiegare in che modo funzionano i tuoi muri?

Brendan Fowler: I muri sono emersi dai crash piece, di cui diremo più tardi. Il pubblico mi ha spesso chiesto come venissero fatti; ho quindi voluto mostrare una parte del processo senza rivelarne la sua interezza; e così ho realizzato il primo muro, Fall 2009 Wall (Flowers in Terry/Cindy’s Garden 1 and 2, Fall 2008 West Coast Tour Poster - D L, L, E, D, 3 Screen Flower Print, 2 Screen Flower Print, ANPQ 25 Copy Blocks), per una mostra da Rental nel 2009.
L’opera era stata progettata per esporre il processo creativo delle mie cornici e in che modo si assembla il retro così da creare un’innata armatura per altri pezzi. Il muro è stato assemblato semplicemente avvitando una cornice all’altra e configurandole faccia a faccia, ed è stato poi montato su una colonna della galleria. La sua funzione era quella di uno spazio espositivo pubblico ma anche di una barriera, di un muro vero e proprio. In quel periodo avevo già creato diversi muri di compensato rinforzato per casa mia e per altri studi, il che mi ha fatto incuriosire e pensare a come integrare questi metodi di costruzione con la parete espositiva.

Partendo da questo tipo di muro hai poi adattato una cornice strutturale esterna fatta di assi di legno 70 x150 cm circa, che hai presentato come spazio “incorniciante” con la stessa funzione delle più tradizionali cornici per immagini, le quali erano disposte su questo muro, incorniciando a loro volta una serie di altre cornici all’interno di un porzione di muro di dimensioni maggiori. Come sei arrivato a quest’aggiunta del muro a secco?

L’opera in sé era simile, formalmente e strutturalmente, perciò a un certo punto ne ho fatti alcuni con il compensato e il muro a secco attaccati su un lato. Mi è parso un oggetto buffo, un ibrido, una specie di “muro normale” costruito intorno a uno dei miei muri foto-scultorei. Il fatto che fosse rinforzato con del compensato lo ha immediatamente legato al contesto istituzionale della galleria e del museo, poiché questo è il modo in cui un muro si presenta se serve infine per appendervi opere d’arte. Al momento era in parte spazio espositivo, in parte oggetto minimale, con un muro incontaminato di 3 x1,5 m in attesa.

Hai capito subito di cosa fosse in attesa?

Be’ la cosa più ovvia sarebbe stata probabilmente quella di appenderci uno dei miei lavori, ma ho pensato che potesse confonderne la leggibilità e far pensare che fosse un unico grande pezzo. A quel punto la chiara dimostrazione, anzi, la sua finalità, l’intento di questo lavoro, era diventata l’idea di appendere l’opera di qualcun altro, che ha poi generato lo scambio – con cui mi sto tuttora dibattendo –, e cioè il modo in cui recuperare un lavoro di un altro artista da inserire all’interno tanto da dimostrare questa situazione.

A che punto sono i vari tentativi?

Be’ la prima volta che li ho mostrati è stato l’anno scorso ad Untitled. Era la mia personale, quindi la sezione del muro pensata per contenere il lavoro di qualcun altro è rimasta vuota, cosa che è sembrato un gesto legato al minimalismo. Poi, a dicembre dell’anno scorso, Untitled ha chiesto a me e Matt Chambers di realizzare una doppia personale per lo stand di Art | Basel | Miami, e così abbiamo creato una specie di labirinto con tre entrate separate dove i miei muri di 3 x 1,5 m sorreggevano i suoi quadri di 3 x 1,5 m. Penso abbia funzionato formalmente, sebbene i lavori scomparissero uno nell’altro. Nessuna di queste mostre era comprensibile nel modo in cui avrei voluto.

Perché non hai appeso lavori più ovvi sui muri?

Ah già, non ho menzionato la cosa più importante di questi pezzi: non ho potere decisionale su cosa verrà appeso. Li progetto, li costruisco, mi assicuro della loro stabilità e del peso che possono sopportare, successivamente vengono consegnati a un altro corpo decisionale: chiunque li riceva o stia curando il contesto nel quale sono inseriti, sia esso curatore, artista-curatore, collezionista-curatore o collezionista.
Questo è il punto dei lavori, diciamo che non è il punto in tutto e per tutto, ma lo è in gran parte. Principalmente sono fatti per creare maggiore spazio espositivo, nel senso più fisico del termine, da usare secondo il volere di chi lo possiede. Allo stesso tempo può anche determinare una presenza minore di spazi aperti o in un certo senso lasciare più libertà per immaginare quello che si vorrebbe che fosse.

Dal tuo punto di vista hai mai avuto un riscontro positivo riguardo al modo in cui interagivano?

Be’ il fatto è che il mio punto di vista non è importante. Il punto è realizzarli e poi darli a qualcun altro. Infatti mi piace vederli attivati e basta. Ho molto apprezzato l’installazione che ho fatto con Matt Chambers ad Art | Basel | Miami, sebbene, come ho detto, non penso fosse così chiara. Da allora la famiglia Hort ha appeso un Mike Kelley su uno dei muri per l’apertura al pubblico della loro collezione, con mio sommo onore e sorpresa. È avvenuto subito dopo la sua morte e non sono mai riuscito a incontrarlo. È sempre stato un mio mito.
In una recente collettiva da Shane Campbell a Chicago su una delle mie configurazioni murarie indipendenti Paul Cowan ha installato uno dei suoi wall painting profumati, un verde pallido profumato al vetiver su cui è stata mostrata la metà di un dittico con macchia di Rorschach di Dan Rees. Sull’altro lato c’era un palo di Chadwick Rantanen.
Non ho deciso la presenza di nessuna di queste opere ed è stato molto esaltante vederne il risultato, specialmente il Rees sul Cowan sul Fowler, considerando che sono entrambi progetti che hanno a che fare con variabili legate all’installazione; sono interventi, ma anche adattamenti non collaborativi, sono design espositivi legati alla curatela e collaborazioni non collaborative. Al di là di questi parametri mi è semplicemente piaciuto il supporto, sul supporto, sul supporto.

Quindi da questa conversazione ricaveremo un testo per la rivista ANNUAL, ma anche il comunicato stampa della mostra ad A Palazzo, il quale, come hai accennato, apparirà in alcuni dei lavori, giusto?

Sì esatto, sto ancora cercando di immaginarmelo. La mostra ad A Palazzo è in gran parte costruita intorno a questi muri. Ho seguito la loro richiesta; tuttavia, visto che si tratta di una mostra personale, diventerà principalmente una dimostrazione di come questi muri possano funzionare senza il lavoro di altri. Questo testo apparirà in mostra probabilmente stampato su alcune fotografie che appenderò ai muri vicino a delle tele bianche, che sono segnaposti di cui non sono autore. Li mostrerò quasi come se fossero annunci pubblicitari dal titolo La tua arte qua. Dopo un intero anno di studio visit durante il quale ho spesso dovuto far immaginare quadri – per esempio di Amy Sillman – a chi s’interrogava sullo spazio lasciato vuoto nell’opera, ho poi cominciato ad appendere tele bianche e chiedere d’immaginare qualsiasi dipinto uno avesse in mente. In questo caso c’è un’idea legata alla leggibilità e a che prezzo essa possa avvenire. Ho voluto che le persone capissero questo concetto, sia che stiano guardando l’opera dal vivo, o la sua immagine oppure la stiano guardando su Internet.

È una posizione cinica?

No, non penso sia cinica, per niente, penso sia funzionale. La mostra è costruita sull’idea di spazio.

Riguarda Internet?

No, ha a che vedere con l’atto di guardare, con il navigare ed esperire lo spazio ma anche con i benefici pratici del guardare, uno dei quali è Internet che offre molte potenzialità permettendo alla gente di visitare la mostra, sebbene tramite immagini. E inoltre riguarda anche cosa succede dopo la mostra, cosa accade a questi muri e a questi oggetti. Dimostra l’inizio di una possibilità, di un potenziale per giustapposizioni non collaborative, la richiesta, per davvero, di collaborazioni non collaborative.
Questa mostra sarà qui per questi mesi ed è quasi certo che questi lavori permetteranno allo spazio di trascorrere molto più tempo in altri spazi, in altre istituzioni, case, in altre gallerie e in altri magazzini, probabilmente. Tutte le opere sono state create in occasione di questa mostra per A Palazzo, sebbene trascorreranno molto più tempo altrove, oppure verranno distrutte da qualche parte, cosa altrettanto possibile.

Perché questo testo negli oggetti? È il motivo per cui letteralmente esiste il comunicato stampa.

Lo è, ma è anche il motivo per cui il lavoro esiste. Ci sono ovviamente una varietà di punti d’accesso a questo testo. Lo si può leggere in qualsiasi contesto. Può essere un e-mail della galleria con il comunicato stampa, oppure un sito, il sito di A Palazzo, oppure un altro sito d’arte che pubblica comunicati stampa. Può essere uno dei lavori in galleria oppure quel pezzo in un’altra galleria, oppure ancora in un altro edificio, a casa di qualcuno, può essere nel nostro articolo per ANNUAL o in un’altra rivista, se il pezzo viene riprodotto da qualche altra parte.

E quindi che funzione ci si aspetta dai crash piece?

Be’, nascono dall’idea di uno scatto che cattura una collisione, come quando i musicisti stanno improvvisando, suonano in libertà per poi arrivare alla stessa nota, e boom! È quel momento fermato nel tempo. Nel corso degli anni ne ho fatti molti perché sono tuttora curioso del formato che sto ancora cercando di capire. Sono arrivato a comprendere che sono una specie di “buffetto”; a volte penso siano come se Conan [il barbaro] fosse ambientato in una galleria anni Novanta. Non sono sicuro come i crash piece possano esistere nel mondo insieme ad altre opere d’arte. Dal vivo la dimensione è abbastanza strana, sembrano fissi ma al tempo stesso esili. Sono ovviamente molto “falsi” come qualcosa che è presente senza accadere. Penso siano simili ai fiori.

Hai parlato spesso dei fiori come simbolo della mancanza di contenuto; tale mancanza è presente anche in questi pezzi?

Li vedo come complicazioni di contenuto. Il contenuto è presente e i titoli portano sempre più informazioni, più contesto, sebbene a volte sia respinto dallo stato formale.

Il contesto è reinterpretato; in alcuni dei lavori la foto di uno specchio che riflette il colore nero ha la funzione di specchio fine a se stesso. Una fotografia di assi di legno porta il tuo occhio a vedere la finitura di una luce al neon in un' altra, anche se devi guardare attentamente per discernere dove una cosa comincia e l’altro finisce.

Sì, anche se il secondo esempio che hai citato è il principio base del collage. Il primo esempio – ri-intendere lo specchio – è un’idea a cui tengo molto; è qualcosa su cui sto cercando di lavorare intenzionalmente. La mia intenzione è di arrivare al punto, dimostrare le possibilità dei materiali, come se mettessi un’immagine scura, una superficie scura, dietro un foglio di plexiglass molto riflettente, cercando di creare letteralmente uno specchio. Questo non è un problema, è uno strumento re-inteso da altri strumenti. Ci sono anche delle chiavi, le chiavi del mio studio che è il luogo di produzione. Esse appaiono in questo nuovo lavoro in un modo da precludere e negare altre immagini, coprendo e ostruendo l’immagine sottostante. Le chiavi diventano lucchetti.

Un momento fa hai detto che i crash piece sono “falsi”, come mai?

Sono quel che sono. Sebbene sembri che siano arrivati tramite una via, sono invece giunti attraverso un’altra. Implicano questo incidente quale punto d’origine e cioè lo “scontro” (=crash) a cui ci riferiamo, sebbene non vi sia stato nessuno scontro. Piuttosto c’è stato un processo lungo e impegnativo nello studio, tramite il quale sono stati concepiti come processo con cui sono stati costruiti. Ad ogni modo non voglio dire che il mio progetto non sia sincero, ma sto pensando a questi lavori come a un continuum di inter-sincerità. Penso esistano tra i poli di “sincerità” e “non sincerità”. Le immagini sono molto reali, documentazioni letterali. Sicuramente nell’atto di fare un’immagine vi è implicato un processo di profonda meditazione, ma non sono foto precostruite, al di là degli specchi, che penso vengano letti comunque come foto di studio, quasi come grafici. Le immagini sono pensate per essere il più coerente possibile nei confronti di questa idea problematica inerente a un documento di vita reale; allo stesso tempo il loro adattarsi alle sculture è reale nel senso che sono realmente presenti sul muro.

Era questo il motivo iniziale per cui li hai realizzati?

No non lo era. Posso dire che sono state altre le preoccupazioni a portare questo lavoro a un inizio. Ma la mia curiosità rispetto all’idea di inter-sincerità è cresciuta e poiché sono diventato consapevole della mia naturale inclinazione verso di essa sto cercando di capirla.