Arte e Arti. Pittura, incisione e fotografia nell’Ottocento

Informazioni Evento

Luogo
PINACOTECA CANTONALE GIOVANNI ZUST
Via Pinacoteca Züst , Rancate, Switzerland
Date
Dal al

28 ottobre 2018 – 17 febbraio 2019
Da martedì a venerdì: 9-12 / 14-18
Sabato, domenica e festivi: 10-12 / 14-18
Chiuso: il lunedì; 24, 25 e 31/12

Vernissage
19/10/2019

su invito

Biglietti

Aperto: 1/11; 8, 26/12; 1, 6/01 intero: CHF/€ 10.- ridotto (pensionati, studenti, gruppi): CHF/€ 8.-

Curatori
Matteo Bianchi
Uffici stampa
STUDIO ESSECI
Generi
arte moderna
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La mostra ripercorre le tappe dell’affermarsi di questa invenzione. Ma anche del suo rapporto con altre forme di “riproduzione”, conosciute da secoli e legate all’incisione.

Comunicato stampa

Il 7 gennaio 1839 all’Accademia delle Scienze di Parigi veniva presentata ufficialmente la scoperta della fotografia, merito di Niépce e Daguerre. Per molti decenni un pregiudizio tuttavia aleggiò nei confronti della nuova tecnica: con l’arte si crea, con la fotografia si riproduce solo meccanicamente.
È nota la frase di Paul Gauguin: “Sono entrate le macchine, l’arte è uscita…Sono lontano dal pensare che la fotografia possa esserci utile”. Essa darà invece origine a un nuovo modo di rapportarsi al reale e molti saranno i pittori che sapranno farne un uso originale.

L’intensa esposizione “Arte e arti. Pittura, grafica e fotografia nell’Ottocento” – proposta dal 20 ottobre 2019 al 2 febbraio 2020 alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, a Rancate nel Cantone Ticino – ripercorre le tappe dell’affermarsi di questa invenzione. Ma anche del suo rapporto con altre forme di “riproduzione”, conosciute da secoli e legate all’incisione.
La mostra propone quindi un confronto serrato e stimolante tra fotografie, dipinti, incisioni, disegni, libri, permettendo di comprendere come quella di metà Ottocento fu una vera e propria rivoluzione nel modo di vedere la realtà e di diffondere conoscenze e informazioni da cui non ci sarebbe stato ritorno.
Quanto può influire un’invenzione tecnica sul modo in cui guardiamo il mondo?
Cosa è accaduto alla pittura e alla scultura quando a metà Ottocento la fotografia arriva a sconvolgere il concetto stesso di arte, come da secoli lo si era pensato? Cosa ne è dell’opera d’arte “nell’epoca della riproducibilità tecnica”, arrivata oggi alle estreme conseguenze, in un mondo in cui siamo sommersi dalle immagini?

L’epicentro dello scontro ideologico, o dell’utile connubio, tra obiettivo e pennello, è collocato in Francia, laddove è nata la fotografia. Erano gli anni dello sviluppo della pittura en plein air che condusse all’Impressionismo. Intorno al 1830 la foresta di Fontainebleau, situata circa a sessanta chilometri a Sud-Est di Parigi, attirava un numero crescente di giovani artisti. In questo luogo a contatto con la natura più rigogliosa, i pittori osservavano le foreste, le paludi, le greggi e gli effetti della luce che filtrava nel sottobosco attraverso le fronde, traendone dipinti di grande suggestione.
L’esposizione entra quindi nel vivo una carrellata di opere di artisti attivi tra Arras e Barbizon: Daubigny, Desavary, Dutilleux e Théodore Rousseau, allargando l’indagine sull’italiano Fontanesi. Una precisa citazione è quindi riservata a Millet, le cui opere venivano diffuse ricorrendo alla tecnica della eliografia. Si situa qui il punto di partenza e il crocevia di contaminazioni tra tecniche diverse, elaborate poi anche da Corot, le cui opere costituiscono uno dei più emozionanti nuclei della mostra. È proprio Corot a essere il protagonista della riscoperta in questa sede dei clichés-verre, con ben dieci pezzi sugli oltre venti presentati. Si tratta di “immagini su vetro”, opere di straordinaria bellezza e poesia, oggi rarissime, realizzate con una tecnica ibrida tra incisione e fotografia.

La mostra approfondisce esempi offerti da noti pittori ticinesi e italiani. Luigi Rossi ai primi del Novecento utilizza, ad esempio, la fotografia quale complemento ideale all’album di schizzi nella costruzione della posa, come avviene nei dipinti Primi raggi e Riposo. Così come Filippo Franzoni fa largo uso della nuova tecnica nella costruzione di autoritratti e paesaggi, Luigi Monteverde inizia addirittura la sua carriera come fotografo. Fra gli artisti italiani saranno proposti lavori di autori che fin dagli anni sessanta dell’Ottocento hanno affrontato il rapporto con il mezzo fotografico. Tra questi Filippo Carcano, il quale a causa delle “inquadrature” moderne delle sue opere venne accusato dalla critica artistica di un uso “improprio” della fotografia; di Domenico Induno che in alcuni lavori fece dialogare direttamente i personaggi delle sue tele con le fotografie; di Federico Faruffini che abbandonò la pittura proprio per aprire uno studio fotografico in via Margutta a Roma; di Achille Tominetti, Uberto dell’Orto, Pellizza da Volpedo e Angelo Morbelli, autori che nella loro produzione hanno utilizzato la fotografia come importante mezzo di indagine sul vero. Significativa anche la presenza di lastre fotografiche originali ed opere di Mosè Bianchi e Pompeo Mariani. Ed infine Francesco Paolo Michetti per il quale questa ha avuto ruoli ben diversi, tra gli anni settanta e i primi ottanta intesa come un sussidio sostitutivo del modello, tra la metà degli anni ottanta e gli anni novanta come strumento conoscitivo di indagine sul vero, per poi diventare, dopo il 1900, espressione autonoma della creatività dell’artista. Da non tralasciare il nucleo di approfondimento che la mostra riserva ai tre artisti della famiglia Vela: ai due scultori – il celebre Vincenzo e suo fratello Lorenzo, specializzato nel raffigurare animali – ma anche a Spartaco, figlio di Vincenzo, interessante pittore.

Un’apposita sezione serve a documentare tecniche e strumenti a supporto della riproduzione delle immagini: macchine fotografiche e lastre d’epoca, stereoscopio, ma anche pietra litografica, tavola silografica, rame.

L’intera mostra si snoda su un binario doppio: una “linea” riservata ai dipinti, una parallela alle fotografie (con importante presenza di originali) che ricostruiscono il processo creativo seguito dagli artisti.
Un tema affascinante, indagato anche attraverso la presenza di numerosi inediti da collezioni private, che questa rassegna ha il merito di far scoprire al grande pubblico.

In catalogo saggi di Matteo Bianchi, curatore della mostra, Elisabetta Chiodini, studiosa dell’Ottocento italiano, e, sul versante francese, di Mélanie Lerat – conservatrice del Musée des Beaux-Arts d’Arras -, di Michel Melot – già conservatore del Cabinet des Estampes della Bibliothèque nationale di Parigi – e di Dominique Horbez, autore del volume D’Arras à Barbizon.