Vivian Lamarque, Premio Strega Poesia 2023, ci racconta il suo ultimo libro

In E intanto la vita?, la poetessa intreccia parola e analisi junghiana, trasformando il dolore in consapevolezza e la fragilità in grazia: una fiaba-analisi in versi che indaga il legame profondo tra poesia e cura di sé

La poesia è stata manna scesa dal cielo, quando mi piombò addosso a dieci anni, età del mio massimo disorientamento, la scoperta di essere una bambina adottata. È stata cura anche negli anni successivi, ma in overdose può anche ammalare; avevo cancellato la linea di confine tra realtà e immaginario. A 38 anni, quando il terreno si era fatto troppo minato, ho iniziato l’analisi junghiana con il dottor B.M., che mi ha salvato la vita”: così Vivian Lamarque (Tesero, 1964) – Premio Strega Poesia con L’amore da vecchia, poetessa instancabile e “paziente paziente”, capace di trasformare dolore e fragilità in grazia – racconta la genesi di E intanto la vita?, la sua ultima raccolta edita da Mondadori, articolata in quattro stanze e una camera di inediti. 

Il libro “E intanto la vita?” della poetessa Premio Strega 

Un Rosarium Philosophorum personale, come lo definisce Vittorio Lingiardi nella postafazione, dove psicoanalisi e poesia si fondono in una fiaba-analisi in versi, attraversata dal transfert e dal pensiero junghiano. Nei brevi testi, scanditi da rime leggere e musicali, si riflette il dialogo tra paziente e analista, tra la signora e il signore – lei mutevole, lui molteplice: gentile, intoccabile, d’oro. Con quella “semplicità quasi feroce” di cui parlava Giovanni Raboni, Lamarque affida ai versi il mistero del legame terapeutico, dove si compie la vera alchimia dell’anima. Forte del suo sguardo bambino e anima lieve, si racconta con la grazia discreta della sua scrittura, capace d’ironia anche nel dolore: voce limpida e gentile che, mentre osserva la vita scorrere, continua a trasformarla in poesia.

L’intervista alla poetessa Vivian Lamarque

Si può “addomesticare” il dolore con la poesia?
Non sempre sempre, ma quasi sempre sì. Che fortuna avere questo dono. Un camicino in più. Si diceva una volta che “nascere con la camicia”, clinicamente la camicia era la placenta, portasse fortuna. Per  me che a 4 anni avevo già perso tre genitori, il camicino fu la poesia.

E quando la sofferenza diventa parola poetica, è più guarigione, condivisione o cambiamento?
Ho attraversato ognuno di essi come una tempesta. A volte si riaffacciano ancora, ma con minore forza, come un maltempo che dura poco, come un acquazzone che dopo passa, va.

La sua storia parla di adozione e ricerca di una “madre di pancia”. Scriverne l’ha aiutata a trovare un senso, o delle risposte?
Molto. Senso e risposte. Ho rintracciato tutti quanti, madre, padre, fratelli, sorelle, a questa ricerca ho dedicato metà infanzia (bambina china a leggere lapidi / alla ricerca di radici, di nomi / ma sbagliava città e cimitero / confondeva persecuzione e paese / i suoi avi giacevano dissanguati e quieti / in terra valdese) come dico in Madre d’inverno, nella poesia Errore di persecuzione, e poi via via l’adolescenza e la giovinezza e ancora e ancora.

Come ha trasformato certi momenti in creazione e consapevolezza?
Lo chiedo sempre a chi resiste, mi pare che la risposta stia nel fare, del resto poiesis in greco non significa forse fare?

La poesia e l’analisi junghiana secondo Vivian Lamarque

La mia superficie è felice, ma venga a vedere sotto la vernice” recita un suo verso. La poesia è scudo sufficiente alla sofferenza?
Serve l’analisi. Quelli che cita sono versi tratti da Poesie dando del lei. Il lei è il pronome dell’analisi. Caro Dottore dentro il suo cuore / c’è una barchetta mi porti lontano/  anche solo un’oretta poi ritorniamo. E con l’ironia e l’autoironia. Ma soprattutto in nome della mia bambina. Anche se purtroppo quando come canterellando mi chiedeva “tu esisti? tu esisti?”  non mi rendevo conto che non era un canterellare, non avevo ancora iniziato l’analisi, non vedevo.

L’analisi junghiana l’ha aiutata a “salvarsi la vita”?
Jung mi ha fatto scoprire l’Ombra. Però ero così lontana dal riconoscerla in me che ogni tanto gli chiedevo: “Scusi Dottore, è sicuro che tutti l’abbiano? Secondo me non tutti, per esempio io non l’ho”. Infine (… “quanto ha dovuto lavorare il mio Dottore”) ce l’ho fatta, l’ho avvistata. E allora improvvisamente ho capito un aggettivo che avevo usato un decennio prima: appunto l’aggettivo “feroci” che avevo anteposto a “bambini cucchiaini”. Quando l’avevo scritto mi aveva molto stupita, strano che non lo avessi cancellato.

Giovanni Raboni parlava della sua “semplicità quasi feroce”. Si riconosce in questa definizione? Come riesce a conciliare la forma “leggera” con la profondità dei temi che affronta?
Nel guardare il mondo tanto, tantissimo. Per quanto riguarda la scrittura non saprei precisare, ma lo sguardo di Vivian è anche la mano di Vivian che scrive.

Ha detto di sentirsi affascinata dalla parola “mitezza”.
Oh sì, sempre di più mentre attorno trionfa tutto il contrario, prepotenza e sopraffazione. Incrocio almeno un volto mite alla settimana, specie sulla circonvallazione 90, evitata dai milanesi perché sempre affollata di ultimi del mondo. Tra i molti visi cupi, feriti, abbruttiti, risplende sempre qualche viso semplice, inerme, innocente, candido.

“L’amore da vecchi” di Vivian Lamarque

“L’amore da vecchi” trova spazio in varie forme: quello per gli animali, per la natura, per la famiglia. E anche per il cinematografo e le sue sale scomparse, per i treni e per il tempo. Cosa dovremmo fare attenzione a non perdere in questa corsa dei giorni?
Le rispondo in versi. “Metterli in banca metterli in banca i giorni risparmiarlo / il Tempo. Si alzava presto ma alzarsi ancora prima / di un mattino farne due quasi dueinvece che dalle 8 alle 13, dalle 7 alle 13, o dalle 6 alle 13,30” sono versi dalla mia poesia Baobab. E in Carta da ricalco, appoggiata ai vetri della finestra, “di ricalcare lei tenta/ della vita ogni singolo giorno / non manchi un’alba all’appello / né un mezzogiorno”.

“I poeti dicono molte e belle cose, ma senza rendersene conto” scriveva Socrate. Lei ne è consapevole?
Qualche volta mi capita di pensare “oh che bello questo verso che ho scritto!”, ma subito dopo me ne dimentico, ricado in una insicurezza senza scampo, tutto il mondo mi fa soggezione. Non ho fondamenta, ho sabbie mobili sotto, l’analisi ha fatto miracoli, ma la sabbia resta.

Di Firenze, dove ha presentato il suo ultimo libro con Pierpaolo Orlando e la sottoscritta, cosa ricorda?
Sono nata in Trentino (ramo paterno), ho vissuto dai nove mesi in poi sempre a Milano, con la mamma adottiva, ma è a Firenze che tutto successe. Da Firenze erano partite le lettere che poi trovai da bambina, che mi svelarono la mia adozione; a Firenze, in Via XX Settembre sul Mugnone, era la casa della famiglia d’origine, dove conobbi mio fratello Fabrizio; in Borgo Pinti la casa dove conobbi mio fratello Marzio; in Via Jahier la casa che si incendiò e che lo condusse alla morte; al Cimitero degli Allori riposa il nonno moderatore e teologo Valdese cui spettò la decisione di darmi in adozione. Eccetera eccetera.

Tornarci è ferita?
Il momento più difficile è l’arrivo alla stazione, a S. Maria Novella. Non vedo più spuntare là in fondo, all’inizio del binario, la testa di Marzio (era molto alto) che conobbi l’anno dell’alluvione “con la riga dell’acqua sulle case”. E fuori dalla stazione, a destra, c’è ancora il negozietto delle piantine che compravo per mio fratello Fabrizio, ma non c’è più lui, in Via XX Settembre dove lo conobbi, che non eravamo più dei bambini, eravamo dei grandi.

Ginevra Barbetti

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Ginevra Barbetti

Ginevra Barbetti

Nata a Firenze, si occupa di giornalismo e comunicazione, materie che insegna all’università. Collabora con diverse testate in ambito arte, design e cinema, per le quali realizza soprattutto interviste. Che “senza scrittura non sarebbe vita” lo ripete spesso, così come…

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