Street Art. Tra riqualificazione e vandalismo
Parliamo di street art mettendo sul tavolo una serie di questioni. Vandalismi, censure, stratificazioni, riqualificazione e coscienza civica, beni comuni e valori collettivi. Strade come musei o come campi d’azione illegale, con tanto di codici propri. E il tema della legalità che ritorna: proteggere le città dai vandali significa anche proteggere l’arte urbana? Con un intervento di David ‘Diavù’ Vecchiato.
COMUNITÀ IN DIFESA DEI PROPRI MURI
Mentre qualche irriducibile conservatore continua ad accostare street art, writing e vandalismo sotto i vessilli di “legalità” e “decoro urbano”, altrove si discute ancora di vandali, ma in tutt’altro senso.
La Street Art, ormai linguaggio sdoganato, istituzionalizzato, musealizzato, da soggetto vandalico diventa oggetto di tutela e conservazione: il vandalo, adesso, è chi prende di mira i murales. Chi li devasta per accanimento, sfregio, censura, invidia o rancore, o più semplicemente per l’effetto di un vuoto sociale e culturale che è duro a morire.
A colpire, rispetto all’argomento, è innanzitutto l’indignazione popolare. Se la reazione collettiva è quella di una condanna netta, la prima valutazione da fare è tutta positiva: nella maggior parte dei casi le persone si affezionano alle opere. Le difendono, si arrabbiano quando qualcuno le colpisce, quasi fosse un furto alla comunità, una violazione territoriale. Il muro dipinto diventa, improvvisamente, un capitale condiviso. Un valore comune, prima che un bene. Da invisibile frammento urbano, acquista di colpo lo status di patrimonio sociale, di landmark riconosciuto. Icona che incarna lo spirito del luogo.
Ed è qui che l’arte prova a riqualificare: non tanto in un senso meramente estetico, decorativo, subordinato e funzionale. Non tanto nella moda furba del belletto, laddove lo Stato latita e copre il vuoto con una sfilza di finestre variopinte, di figure accattivanti. Quanto, semmai, in una chiave civica, culturale. È l’idea di poter appartenere a qualcosa – una città, un gruppo, un quartiere – e al contempo di arrivarla a possedere, laddove nemmeno le case, in molte periferie, sono cosa propria. I muri dipinti sì. Quantomeno quelli vissuti, compresi, accompagnati da esperienze vere di dialogo e di intesa: artisti, cittadini, organizzatori, comitati civici, come parte di un processo solo.
DAL CENSORE AL TEPPISTA: STORIE DI MURI NEGATI
Poi certo ci sono i casi di rigetto. Interventi non voluti, disturbanti, non capiti, rifiutati. E le dinamiche che si innescano sono molteplici. Spesso con un medesimo risultato: l’aggressione.
Ci sono gli hater ideologici, quelli che l’arte urbana non la tollerano a priori, perché i palazzi sono belli così: puliti, anonimi, tutti uguali. Tipo certi cittadini insofferenti, innamorati del rigore (o del grigiore), o certe miopi amministrazioni, che – in assenza di filtri e di contatti con l’humus artistico territoriale – ricoprono, dimenticano, imbiancano. A caso.
Ci sono i polemisti dalla stomaco delicato, quelli che – ad esempio – si sono sentiti offesi dai murales di Nemo’S, a Messina: visioni dure, controvrse, che costringono a pensare, oltre ogni piacevole rassicurazione (e meno male). Ci sono i bigotti-censori, che dinanzi a iconografie sacre non ortodosse o a messaggi un filo provocatori sentono l’impulso di punire ed occultare: La Madonna del Mandrillo di Hatoche, ad Avellino, è durata appena 24 ore. Asfaltata, con poche passate di rullo.
E ancora c’è il writer che disprezza la Street Art, vendutasi al “demonio” del mercato, del consenso e della decorazione: è il caso recente di un celebre muro di Alice Pasquini, nel quartiere San Lorenzo, a Roma, sfregiato da un mix di misere tag, goffe cancellature e insulti sessisti. Il vuoto di idee si specchia nell’arrogante prevaricazione. Infine, ci sono i nichilisti e basta. Quelli che strappano, sporcano, marchiano a suon di ingiurie. Senza ragione. Una caterva di episodi. Solo per stare su de casi recentissimi: dai poster del grande Ernest Pignon-Ernest, con la misteriosa Pietà di Pasolini, sfregiati sia a Roma che a Napoli, passando per gli stencil partenopei di Roxy in The Box, nei Quartieri Spagnoli: il suo ritratto di Basquiat è finito a brandelli, nel giro di niente. “Qui, nei luoghi in cui mancano le istituzioni”, ha commentato l’artista, “e in cui la scuola è la strada, io sto seminando icone storiche, arrivate da quella storia che loro, a scuola, non hanno voluto ascoltare. Ecco perché le vanno contro. Certo non li giustifico, ma esistono motivi gravi per tutta questa rabbia”.
STRATIFICAZIONI, VANDALISMI, ETICHE ED ESTETICHE DI STRADA
Lo sfrego ferisce, dunque, ma lo si prova a decodificare. In una partita che – al netto di autorizzazioni e percorsi legali – resta selvatica per sua natura. Con tutta la sua bellezza, con tutta la sua spinta di libertà. E allora fa parte del gioco anche lo sfregio bigotto, quello del teppista, del borghese stizzito o del ragazzino avvelenato. Ci sta, lo si accetta. Ma – diciamolo – non ci dovrebbe stare.
Ché una cosa è la realtà delle stratificazioni, risalendo fino alle origini del writing e dell’hip-hop, un’altra è l’accanimento random. L’etica e l’estetica di strada, negli Anni Settanta-Ottanta, producevano codici, regole, dinamiche nuove, tra l’idea di conflitto e quella di rispetto, mentre la sfida tra crew era un fatto di territorio da mantenere, di linguaggi da affinare, di scritture urbane, di battaglie di stile. Quando in campo c’erano fattori come l’affermazione identitaria e una diversa coesione micro-sociale, in faccia alle nuove solitudini, alle omologazioni, alla ferocia dell’alienazione. Riprendersi la città, facendo del proprio nome un segno creativo diffuso, era un modo per esistere, daccapo. Insieme. E dunque contro. E in quel contesto il tema non era la conservazione, ma l’azione, la presenza, l’evoluzione creativa, la tessitura.
E così pure la Street Art – figlia illegittima di quel movimento, non più cultura, né tribù, né utopia o emergenza generazionale – accetta il destino della consunzione. Con una differenza: in questa ineluttabilità di livelli e sparizioni, l’idea di salvaguardia si è rafforzata, si è radicata. Preservare un lavoro importante, caricatosi di una densità propria, è una cosa sempre più normale. La strada, oggi, è diventata museo.
L’OPINIONE DI DIAVÙ. E LA RIQUALIFICAZIONE COME GESTO CULTURALE
E poi c’è il vandalismo. Quello propriamente detto, su cui transigere resta grave. È grave per la statua equestre dell’Ottocento, come pure per l’opera pubblica contemporanea. A molti, però, l’indignazione per l’atto vandalico su un lavoro di Street Art appare fuori registro. Ovvero: chi sceglie la strada, scegliendo l’underground, prende il pacchetto completo. Senza lamentarsi. Ma fino a che punto è così?
Ne abbiamo discusso con David “Diavù” Vecchiato, fra i veterani della scena romana, fondatore dello street district M.U.R.o, al Quadraro. “Nel migliore dei mondi possibili”, ci dice, “un artista che realizza le sue opere per la collettività, pur facendolo a volte per promozione del proprio lavoro e altre su commissione, verrebbe riconosciuto come un donatore di immaginari da apprezzare, e certo non da vandalizzare. Lo stesso artista dovrebbe essere consapevole che l’immagine che va a realizzare in uno specifico ambiente e in mezzo a una specifica comunità diverrà un simbolo per gli stessi. Ma questo non è il migliore dei mondi possibili. Qui esistono invidie, frustrazioni, malcontenti. E si tocca ormai una rabbia urbana, stimolata tra l’altro dalla guerra fra poveri che ha ben attecchito dalle nostre parti, che spinge a spararsi in faccia senza remore per un parcheggio o un sorpasso… Figuriamoci se si tratta di sfigurare un’immagine appiccicata o dipinta in strada, gesto tra l’altro totalmente privo di conseguenze”.
Gesto privo di conseguenze, per l’appunto. Perché i temi restano due, sempre intrecciati: quello dell’educazione, laddove prima che (far finta di) riqualificare brutti quartieri si dovrebbero riqualificare le culture e gli immaginari; e quello della legalità: periferie lasciate sole, centri storici allo sbando, misure insufficienti contro le microcriminalità, là dove tutto può accadere in assenza di controlli, attenzione, rigore. Perché l’immensa fatica che occorre affrontare, fra le scuole, i comitati civici, le associazioni e gli stessi cantieri d’arte urbana, non può prescindere dalle buone pratiche d’amministrazione. Siamo di fronte a un gigantesco vulnus nel cuore di innumerevoli metropoli, sfilacciate tra chilometri di hinterland: assenza di istruzione, protezione, educazione e servizi significa persistenza di vuoti esistenziali e di rancore sociale. Un’idea di Stato che manca, per un Paese diviso, irrisolto, non avvezzo a prendersi cura di sé. Il vandalismo è figlio di tutto questo. Ed il lavoro da fare è immenso ed è politico, nel senso più alto della parola.
MURI DA DIFENDERE, STORIE DA RACCONTARE
“Sono stato minacciato di morte, sia per strada che sul web”, continua Diavù, “e questo solo perché dipingo in strada, ma non posso certo rovinarmi più di tanto l’umore per questo. Figuriamoci se posso farlo perché sfregiano o ricoprono un mio murale! Oh no, sarei un infelice cronico. So bene che ciò che accade in strada è l’espressione più diretta di una società: se dipingessi con la pretesa che nessuno rovini la mia opera sarei un ingenuo. Ciò non toglie che sono contento quando vedo i cittadini difendere le mie opere o le opere di altri artisti, perché li vedo consapevoli del fatto che sono loro i veri proprietari e ‘tutori’. E quando il budget me lo permette lavoro con delle restauratrici che proteggono i miei lavori con resine antigraffiti. Alla faccia dei vandali”.
Vernici antigraffiti, per proteggere un “graffito”. Un cortocircuito che racconta tutto il pathos e i conflitti di un trapasso generazionale. I linguaggi della creatività urbana cambiano, come le logiche della strada, le relazioni fra il sistema e l’underground, gli sguardi dei passanti e le strategie delle amministrazioni, le retoriche diffuse e le speculazioni. E cambiano gli artisti. A cui questa storia della riqualificazione spesso calza stretta, non volendosi sentire “strumento” facile per obiettivi di competenza altrui. E che pure, nei casi migliori, stanno riqualificando eccome. Sul piano della sensibilità, della coscienza, della partecipazione, della democrazia come conquista quotidiana.
Le immagini tornano a parlare al popolo, come un tempo accadeva nelle chiese, ma al di fuori di qualunque gerarchia; e come a lungo è accaduto solo tra pubblicità e televisione. Nuove narrazioni si dispiegano, nei labirinti di metropoli consegnate al fallimento e nelle pieghe di quartieri che cercano una dimensione autonoma, familiare. Con la Street Art – quella consapevole, talentuosa, quella che intravede ancora un’etica – a inventare un’altra forma di comunicazione orizzontale, porgendo ai cittadini messaggi, racconti, possibili metafore del cambiamento. Lungo una selva di muri e ancora muri: membrane sensibili su cui incidere storie e con cui proteggere l’anima fragile delle città. Muri a loro volta da difendere, quando – per atti di violenza varia – li si prova a zittire, a banalizzare, a ferire o mortificare. Che siano i vandali o le autorità.
Helga Marsala
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