Bulimia d’informazioni. L’editoriale di Susanna Legrenzi
Qualcuno l’ha già definita infobesity. Altri si concentrano sulle nuove soglie di attenzione. Altri ancora ne fanno una questione di cultura, spingendo su parole chiave come community, partecipazione, co-progettazione, tutti strumenti di un hellzapoppin’ che ci farà sopravvivere alla crisi.
Tra supermusei che si affidano al crowdfunding (naturale evoluzione delle televendite, figlie a loro volta dell’aspirapolvere col nome da gnomo) o al crowdsourcing, e agenzie fotografiche che, in un giovedì qualunque, liberano dai diritti 35 milioni di immagini. Più o meno una goccia d’acqua in un un’onda di Hokusai.
Leggi di questo e altro (scrollando i feed sullo smartphone). Poi stacchi due giorni da un lavoro che ti obbliga a correre in un flusso da corrente australiana. Ed è subito rimpianto. Nostalgia crepuscolare. Dichiarazione di disamore per la cultura ai tempi della Rete, e per tutte quelle perversioni e nevrosi alimentate dall’urgenza dell’istante. Nostalgia per lettere, giornali, cataloghi, flyer, fanzine, buste, cartoline, inviti, persino per i fogli senza spina dorsale dei fax. Nostalgia per il sentimento di attesa. Attesa di passeggiare nel mondo. E poi nostalgia per festival, biennali e mostre annunciate senza epifanie, da visitare senza aver già letto le recensioni, senza il filtro ottundente dei device, senza la cacofonia del web, senza la fotografia-argot che va a segnare il colmo di quell’oceano spettacolare, ma spettacolarmente piatto, dell’enorme cloaca (per dirla con Wim Delvoye) d’immagini che viaggiano tra il web e le nostre sim card. Immagini sulle quali oggi è stato ormai detto e sperimentato (quasi) tutto.
Insomma, roba da vecchie zie analogiche. Oppure pane per un fronte che rivendica un’attitudine: quella di tornare a essere padroni dei sogni. E del tempo. Padroni di una cultura non complice. Padroni di una solitudine silenziosa e un po’ anarchica, liberi di declinare l’invito a condividere grammi di esperienza, recapitati con l’obiettivo di reclutare il mondo intero. Un fronte, insomma, di pigrissimi disertori massmediali che coltivano il rimpianto per un girovagare libero da serp marketer, ads e algoritmi, diavolerie ormai nemmeno più troppo occulte. Sarà la whatsappite (arti superiori formicolanti per via dell’uso prolungato di tablet e smartphone). O forse sarà l’età. Oppure, le tante ricerche fotocopia che ti trovi a sfogliare quando fai le revisioni all’università. Ricerche che affidano ai browser il passo del viandante, privilegiando la cultura del primo risultato alla cultura del dubbio.
Motore di ricerca, immagini. Parola chiave: Damien Hirst. Risultati suggeriti: Damien Hirst Opere, Damien Hirst Teschi, Damien Hirst Shark, Damien Hirst Skull, Damien Hirst Rihanna (sì, è lei, la cover di un GQ Usa del 2013), Damien Hirst Mucca, Damien Hirst Pois. Nulla di grave. Con un po’ di pazienza si arriva anche a Damien Hirst Converse, Damien Hirst Audi 1, Damien Hirst Levis 101, fino a Damien Hirst Crowdfunding (da votare online, ovviamente). E il cerchio si chiude. Forse, alla fine, è una semplice questione di naming. Forse si potrebbe cominciare a eliminare l’attributo “aumentata” dal sostantivo “realtà”, e tutti ci sentiremmo meno gonfi, più leggeri e con una sola domanda in tasca. Arrivati (fin) qui, ora dove stiamo andando?
Susanna Legrenzi
giornalista
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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