L’operazione-evento Arte Povera 2011, che doveva costituire un importante momento di documentazione e storicizzazione di un movimento che giustamente è considerato – con il Futurismo – di fondamentale importanza nell’avventura delle arti visive del secolo passato, rischia di ottenere effetti opposti.
E non solo a causa di due errori (o falsi) storico-critici: l’estensione forzata e forzosa fino ai nostri giorni di un movimento conclusosi all’inizio degli Anni Settanta e la sua limitazione a soli ed esclusivi tredici protagonisti. Errori (o falsi) tanto evidenti da destare stupore – a chi non sia addentro all’odierno sistema dell’arte in Italia – che il fior fiore dei direttori di musei e istituzioni di arte contemporanea coinvolti nell’operazione e il fior fiore dei critici raccolti nell’enorme catalogo che accompagna la mostra non se ne siano minimamente accorti. Ma tant’è.
Se si esaminano le mostre in corso e si leggono i contributi critici del catalogo, appare evidente che vi sia un tentativo diffuso di far passare come elemento fondante, quando non esclusivo, dell’Arte Povera quello dell’uso di materiali poveri (visti e declinati in tutte le loro funzioni poetiche, estetiche, concettuali, oniriche ecc.).

Ora, se è innegabile che l’uso di materiali poveri (considerati soprattutto, molto concretamente, come portatori di una visione poveristica anticonsumistica) fosse una delle caratteristiche di questo movimento, è altrettanto innegabile che accanto a questa ve ne erano altre della stessa importanza e fondanti: la critica al ruolo e alla funzione della figura dell’artista quale “giullare” del sistema dell’arte basato sul mercato e la critica al sistema di produzione e diffusione dell’arte (allora e tuttora) vigente attraverso gallerie e musei, con la conseguente ricerca di nuovi e “altri” circuiti di comunicazione e di nuovi e altri utenti individuati in primo luogo nelle classi e categorie sociali protagoniste del grande cambiamento in atto in quegli anni.
Da quest’insieme di caratteri deriva la forte spinta anti-istituzionale di una forma artistica che non a caso veniva apertamente definita, nel primo e più significativo manifesto, come “arte di guerriglia”. Tutte caratteristiche che, oltre ad essere, come visto, ben presenti nei testi critici, erano soprattutto presenti nelle opere e nell’operare anche dei nostri, o meglio celantiani, “magnifici tredici”.

Il tentativo di mistificare e svuotare l’Arte Povera dei suoi significati primari, riducendola da complessa arte di guerriglia a innocua merce da aste, è pienamente confermato poi nelle scelte espositive con cui, almeno nelle principali mostre di Milano, Bologna e Torino, rispetto a una possibile ipotesi di museizzazione, si è scelto la via della museificazione. Vale a dire, la acritica e meccanica trasposizione in spazi rigidi di opere spesso nate per vivere ed essere fruite fuori da gallerie e musei. Opere spesso nate per essere interattive e coinvolgenti, per essere strumento performativo, per essere toccate, usate, a volte anche distrutte, costrette in rigidi spazi museali dove, per ragioni di principio o di sicurezza, non possono essere pienamente fruite e utilizzate, ma nemmeno toccate, subendo una straniante decontestualizzazione ambientale e storica con un’operazione di re-auratizzazione che contravviene in pieno al loro spirito iniziale.

Certamente il problema della museizzazione, e in generale della esposizione delle opere storiche dell’Arte Povera è complesso e di difficile soluzione. Ma il negarlo, il non prenderlo minimamente in considerazione, il non affrontarlo con corrette scelte filologico-espositive nell’allestimento della maggioranza delle mostre di Arte Povera 2011, il far languire in spazi e situazioni inadatte opere nate per interagire e vivere assieme al fruitore è, a mio avviso, un ulteriore errore imperdonabile che va a completare un’operazione tesa al progressivo svuotamento dell’Arte Povera a favore di una sua re-auratizzazione che risulta funzionale non tanto alla ricerca e alla sistematizzazione storica e critica, quanto a una banale reificazione.
Il re (o il critico o i critici-demiurghi) è nudo. Possibile che nessuno (o solo qualcuno) se ne accorga?
Alberto Esse