Il curioso caso di Space Metropoliz

Una fabbrica di salumi occupata, ai margini della capitale. Il 30 novembre è terminata la missione del gruppo di lavoro attivo nello squat di via Prenestina 913 a Roma. In attesa dell’incursione di Space Metropoliz all’interno della “Giornata di Disorientamento” al Teatro Valle, Artribune cerca di ripassare i contorni di una vicenda che è un vero laboratorio di arte civica. In un dialogo con la curatrice Silvia Litardi.

Space Metropoliz è un film documentario e un progetto d’arte pubblica ideato da Fabrizio Boni e Giorgio de Finis” (dal sito spacemetropoliz.com).

Non solo, molto di più. Debordando le proprie prospettive e aspettative, il progetto si amplia per contenere le virtù del laboratorio artistico e sociale, per diventare cartina al tornasole dei fenomeni di integrazione e generazione identitaria, spazio d’arte e di partecipazione.
Partiamo da lontano, partiamo pure dalla Luna.
La Luna, nel suo immaginario più romantico e autenticamente infantile, è l’ipotetico fine ultimo della missione di Space Metropoliz. La realtà di via Prenestina 913, di quel Metropoliz su cui si innesta il progetto filmico e artistico, si colloca, per contro, in una dimensione difficile e strettamente contingente. L’ex Fiorucci è dal 27 marzo 2009 oggetto di un’occupazione stabile da parte di circa 200 persone altrimenti senza dimora.

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Space Metropoliz

Gli ideatori soggetto progetto, Boni e de Finis, hanno immaginato di far “evadere” gli occupanti verso una terra promessa e distante dalle brutture di questo mondo. L’operazione ha la fisionomia del racconto di fantasia, di fantascienza, in realtà sa rispondere a esigenze reali, profonde; l’operazione, apparentemente fanciullesca e ingenua, vira, un istante dopo averla meditata, verso il drammatico e il fattuale, dando sostanza a una tragica necessità di fuga, di cambiamento.
Il vero obiettivo dell’operazione germina quindi tra poesia e aporia.
Artisti, operatori sociali, volontari non dispongono certamente degli strumenti perché quel desiderio di cambiamento prenda realmente forma, possono però strutturare lo spazio di un sogno che vive fino a un istante prima dell’immaginaria partenza, si sviluppa ovvero durante il percorso. Nei suoi mesi di attività, Space Metropoliz si muove in due direzioni opposte. Verso l’interno. Gli abitanti della vecchia fabbrica, vero motore del progetto, hanno modo di confrontarsi – per la prima volta spesso, vista la grande partecipazione dei bambini – con le discipline dell’immaginazione, della creatività, trovandosi immersi in un gioco unico e magico. Verso l’esterno. L’asse arte/evento mediatico è ormai una pratica fin troppo consolidata, le attività al Metropoliz danno la possibilità di portare finalmente la questione sociale/abitativa sull’uscio dell’opinione pubblica.
L’obiettivo di Space Metropoliz si concretizza così nella terra di mezzo tra l’impotenza assoluta e il potere effettivo. Tutte queste valutazioni le abbiamo sottoposte a Silvia Litardi.

Credo che l’attualità chiami a una riflessione su cosa produciamo, come facciamo circolare gli esiti di questa produzione e perché”, risponde la curatrice. Il territorio delle arti visive è privilegiato, in quanto teoricamente esente da utilitarismo, ma se trattiamo la circolazione delle opere d’arte quanto qualsiasi merce ne riduciamo lo spettro d’influenza, ne sediamo il potere. Space Metropoliz fa della pratica del dialogo, del dispositivo ludico, della partecipazione la propria spina dorsale puntando i riflettori su un’alternativa in termini di produzione di senso. Distaccandosi dal reportage o dall’inchiesta, ha aperto il ventaglio di sinapsi funzionando da amplificatore, mettendo un microfono davanti al discorso in atto per fornire parole, figure nuove, e sottrarsi giorno dopo giorno, all’informazione in quanto circolazione di una parola d’ordine. L’urgenza è occasione di apprendimento e non è dato rimandare!”.

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Utilizzando la metafora del viaggio – la guida poetica del progetto è infatti Viaggio nella Luna (1902) di Méliès -, il progetto si inserisce in una prospettiva necessariamente dinamica. Proponendosi come laboratorio, Space Metropoliz ammette di avere molte domande e poche certezze, le risposte si raccolgono durante il viaggio, se è un buon viaggio. L’arte “in”, il sistema dell’arte dentro il sistema del prodotto, collocato metaforicamente nella fortezza delle abitudini e fisicamente dentro le mura della città, sembra aver consolidato una routine tutto sommato placida e rassicurante. Space Metropoliz è fuori; è fuori della metafora e soprattutto distante dalle luci del centro…
Faccio due calcoli: gli abitanti del Metropoliz sono 150/200, gli invitati che hanno proposto e realizzato opere per il Cantiere sono stati più di una cinquantina in 6 mesi, il pubblico afferito incalcolabile, gli studenti di Arte Civica della Facoltà di Architettura – Università Roma Tre circa 30: insomma, hanno transitato e prodotto cultura in un luogo periferico, teoricamente triste e abbandonato, molte più persone che in un meraviglioso e brandizzato Museo del Manierismo Contemporaneo.

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Space Metropoliz nasce da una situazione di evidente disagio e di carenza, o totale assenza, dello Stato. Se l’arte è chiamata a tappare i buchi delle amministrazioni, allora il confine già sfumato tra le categorie si fa ancora più grigio. Dove finisce l’arte e dove inizia la politica, dove il sociale? La risposta a un’arte consolatoria perché priva di contenuti si sostanzia un’altra forma d’arte nuovamente consolatoria perché rivolta a lenire le pene delle periferie? Progetti come questo non rischiano di diventare il riflesso automatico di una società fermamente capitalista e borghese che cerca di mettere a posto la coscienza?
Le favole hanno sempre lenito le pene umane e speriamo che continuino a farlo. Non c’è nessun intento di riscatto, di risoluzione, ma quello di raccontare una realtà specifica in forma corale attraverso una provocazione.
Quello che è consolatorio e “borghese” è credere che il centro rimanga al centro e la periferia in periferia, che la malìa delle note di un violino tzigano lascino sordo anche il più rigido degli intellettuali, è credere che gli artisti siano interessati esclusivamente a vendere le loro opere e a farle circolare nelle migliori gallerie, è credere che c’è un edificio Arte come un edificio Religione con delle mura granitiche, ma basta alzarsi in volo per spostare il punto di vista, e leggere che anche nell’Urbe, emblema della città consolidata, stanno accadendo “esplorazioni a moto contrario, che dai margini vengono al centro”, come scrive poeticamente Lorenzo Pavolini parlando del Valle Occupato.

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Il progetto si insedia in uno spazio preesitente, la somma delle sue identità forma una sua originale identità dalle tinte evidentemente sgraziate delle lamiere arrugginite, dei muri sdrucciolevoli, della polvere e del guano. Un luogo che si stenta a ricordare. Il medium è messaggio. In che modo il messaggio si adegua al suo contenitore nelle scelte di produzione e di curatela; quali vincoli e quali energie offre uno spazio così etnicamente e culturalmente eterogeneo?
Gilles Deleuze, usando un’espressione di Paul Klee, diceva che “il Popolo manca” parlando del cinema politico classico in cui la presenza del popolo è elemento fondamentale mentre per il cinema politico contemporaneo assistiamo all’assenza di un popolo che l’opera contribuisce a inventare, cercando nella frammentazione, nelle bidonville, nei campi. Intorno alla mitologica partenza verso una “Luna promessa” si è coagulato il più eterogeneo dei popoli.

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Come si conclude la vicenda?
Il 30 novembre c’è stata la grande festa di chiusura del cantiere cinematografico con l’inaugurazione del Big Rocket, il grande razzo, realizzato da un ardito gruppo di metropoliziani in collaborazione con il Laboratorio di Arti Civiche della Facoltà di Architettura – Università Roma Tre. Sono state presentate anche le scenografie lunari realizzate dal collettivo Geologika e dal laboratorio di Federico Baciocchi, che saranno utilizzate per girare le ultime due scene del film. Abbiamo avvicinato la Luna grazie al Virtual Telescope Project a cura di Gianluca Masi e Gisella Luccone e ai quadri astrali a cura di Antje Ingeborg Wolf. Si continua a parlare di Space Metropoliz domenica 11 dicembre all’interno della Giornata di Disorientamento al Valle Occupato, dalle 21.30 alle 21.45. Ambasciatori di Space Metropoliz saranno Giorgio De Finis e Fabrizio Boni.

Luca Labanca

spacemetropoliz.com

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Luca Labanca

Luca Labanca

Luca Labanca si muove nel 2006 da Varese a Bologna per iniziare il percorso di studi del DAMS, curriculum Arte. Negli anni di residenza bolognese collabora stabilmente col bimestrale d’arte e cultura ART Journal, contemporaneamente idea e sviluppa progetti ed…

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