Recentemente s’è detto che Alighiero Boetti è il più grande artista italiano vivente. Che ne pensa?
Alighiero finalmente inizia a essere riconosciuto a livello internazionale, per il ruolo che ha come anticipatore di una visione globale. Le sua Mappe, e il suo lavoro in Afghanistan, preannunciano le attuali aperture ai Paesi emergenti, fino agli anni ’70 o anche ’80 assenti dal panorama. Un grande anticipatore, non solo a livello di produzione linguistica, ma anche di attitudine a creare.
La storia del nostro Paese è cambiata, e non di poco, da quegli ultimi battiti degli anni ‘60… Quale apporto può dare l’Arte Povera alla società contemporanea?
Il punto su cui riflettere è la persistenza. È chiaro che l’Arte Povera oggi può essere considerata come un vecchio partigiano che continua a combattere. Ma è anche vero che si dimostra un modo di pensare interessante e attuale non solo per l’Italia, ma proprio per i Paesi emergenti. In India, in Cina, in Brasile, ci sono oggi emergenze culturali legate alle favelas, a realtà sociali “povere”. Oggi, insomma, l’attualità dell’Arte Povera sta anche nei suoi riscontri a livello globale. Un conto è il mercato, che è quello dei quadri e delle sculture da mettersi in casa; un conto è la creatività anche effimera: potrei citare l’afroamericano David Hammons, che negli anni ’80 vendeva palle di neve per la strada, come gesto creativo. Dico questo per dire che in tutto il mondo un approccio simile, il poter creare con niente, sia replicabile anche senza grandi mezzi, quindi senza il pensiero fisso al mercato.
E sulla scena italiana? Parliamo anche del mosaico di mostre che hanno presentato l’Arte Povera…
Evidentemente il progetto va visto in chiave di storicizzazione, poiché tante sono le differenze di clima culturale, politico, emotivo. Ma con molte chiavi: da una parte il riconoscimento di un movimento che ormai è riconosciuto a livello globale come il Futurismo; poi c’è il segnale forte di avere otto sedi, e non un’unica sede che risulterebbe diminutiva; legato a questo, c’è l’affermazione che in Italia esiste un sistema museale. Qui sono coinvolti i più importanti musei italiani, che hanno preso coscienza del fatto che il mettersi in sistema aumenta le potenzialità comunicative e propositive; si era tentato anche con il centenario del Futurismo, ma poi non ha funzionato, e ognuno si è fatto la sua piccola mostra.
Le strutture museali come hanno risposto? È stato complicato gestire tanti contributi diversi?
La gestione l’abbiamo fatta io e il mio team, poi con i direttori dei singoli musei valgono i rapporti di stima e amicizia, e il rispetto per la ricerca. Poi c’è un coordinamento diplomatico-politico di Electa, che curando il catalogo diventa un elemento uniformante. Di fondo, però, c’è un fatto: un’organizzazione fatta da individui, senza nessun contributo dal sistema istituzionale/ministeriale.
Le condizioni socio-economiche sono molto cambiate, anche da quando è partito il concept di questo progetto. Vi hanno in qualche modo toccato i tagli alla cultura?
Problemi enormi, anche se, essendo fuori dalla struttura istituzionale, siamo stati più agili. Ognuno si è trovato le energie interne, i suoi sponsor, contribuendo a comporre questa sorta di mosaico, e comprendendo – cosa affatto nuova, ripeto – che far team è importante. Con la nuova generazione di direttori di musei è cambiato anche questo tipo di approccio.
Quando lei ha inventato l’Arte Povera era giovanissimo. Oggi sono pochi i giovani che emergono. Sono cambiati i tempi o è un problema di carisma individuale?
Beh, allora si era in un deserto totale, c’erano solo poche gallerie private, e due o tre istituzioni, la Galleria Nazionale di Roma, la Civica di Torino e una galleria a Milano, legate ancora alla storia, non facevano Fontana… Quindi il nostro modo di operare è sempre stato quello di urlare, per farci sentire, come ci insegnavano le avanguardie. Negli anni ‘80 entra in scena il mercato e il riconoscimento dei valori economici, e poi le istituzioni iniziano a crescere, e il fatto di urlare non è più necessario. Se un giovane fa l’artista, ed è abbastanza bravo, c’è la concorrenza di 15 musei e gallerie che gli chiedono di fare mostre. Quindi l’aggressività – o disperazione, che poi erano legate! – all’epoca avevano un senso, oggi non più; il pensiero creativo e critico è diventato una professione, non un modo di essere. Rimasi scioccato quando negli anni ‘80 un giovane artista mi disse: io non riesco a fare il mio lavoro. Io gli chiesi: perché? Perché ho bisogno di 250 milioni. Noi vivevamo con 10 lire. Un cambiamento storico.
Insomma, allora c’era un deserto strutturale. Oggi è un deserto ideale?
Oggi c’è una situazione di palude, di sabbie mobili. Gli artisti vogliono il riconoscimento senza dover lavorare, fondamentalmente. Non comprendono che oggi è vitale muoversi, entrare nel mondo, confrontarsi col mondo. Gli artisti sono risucchiati da un meccanismo che da loro sopravvivenza, ma non li stimola a uscire fuori. Noi viaggiavamo, io andavo in America con 50 dollari e dormivo per terra. Cattelan ce la fa, perché vive le regole globali. Il problema è il rischio: rischiare con gli occhi al mondo, non solo rispetto a una piccola cerchia…
Massimo Mattioli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #3
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