Germano Celant. Quegli anni

Gli inizi dell'Arte Povera. Lo shock nella critica dell'epoca. Le gallerie (pochissime) che ospitavano arte di avanguardia. I maestri, le città, i viaggi e gli studi degli artisti. O almeno di quelli che se li potevano permettere.

Com’è iniziata l’avventura dell’Arte Povera?
Ho iniziato a scrivere d’arte nel 1963 a Torino, come redattore della rivista Marcatre, diretta dallo storico dell’arte Eugenio Battisti. Ero segretario di redazione e avevo l’incarico di redigere una rubrica dedicata alle mostre . Per tenermi aggiornato ho iniziato a viaggiare tra Genova, dove abitavo, Milano e Torino. Allora non c’erano autostrade, i viaggi erano molto lunghi. Ero da solo, con una Due Cavalli, e guidavo per ore.

Quali gallerie frequentavi?
A Torino ho iniziato a frequentare gallerie come Il Punto e Galatea, legate a Gian Enzo Sperone. Ho visto i primi dipinti pop di Warhol e Lichtenstein, e proprio in quell’anno visito la mostra di Pistoletto nel 1963 alla Galatea, un posto incredibile con tende di velluto rosso e i suoi Quadri Specchianti. Michelangelo era già conosciuto, io ero interessato agli emergenti. Così, grazie a Gian Enzo ho cominciato a frequentare gli studi di alcuni artisti, come Mario e Marisa Merz, che ho visitato nel 1965, e Giulio Paolini, che avevo conosciuto un anno prima a Genova, come amico di Luciano Pistoi.

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Arte Povera più Azioni Povere 1968 - veduta della mostra presso il Museo MADRE, Napoli 2011 - photo Nicola Baraglia

Frequentavi anche Pistoi?
È stato nella sua galleria torinese, Notizie, che ho visto tra il 1963 e il ‘64 i primi quadri di artisti internazionali come Jackson Pollock e Cy Twombly. Non era una situazione unica, ma un intreccio di persone che frequento settimanalmente a partire dal 1965, come Mario e Marisa Merz, Piero Gilardi e gli altri artisti dell’Arte Povera. Tutti tranne Pistoletto, che ho incontrato di persona solo nel 1966.

Dove vi incontravate?
Ci si vedeva in galleria, che era come il bar. A Torino non c’era Rosati come a Roma, ma ci si incontrava nelle gallerie d’arte. C’era l’idea di stare insieme, nelle gallerie e negli studi.

Com’erano gli studi?
Non tutti li avevano. Alighiero Boetti aveva un appartamento, dove ci vedevamo nel 1966 per interpretare il suo manifesto e ci facevamo delle canne pazzesche. Michelangelo ce l’aveva, Mario e Marisa avevano lo studio che era anche la loro casa, Luciano Fabro lo aveva in corso Garibaldi a Milano, mentre i più giovani come Giovanni Anselmo e Gilberto Zorio non lo possedevano. Ricordo che andai a Garessio, il paese dove viveva Giuseppe Penone, e passammo una giornata insieme, mangiavamo con la madre i prodotti del bosco, funghi e castagne. Giulio Paolini invece lavorava in un appartamento (non ricordo se fosse casa o studio) che integrava nel suo lavoro d’artista, come una sorta di teatro domestico per l’arte.

Arte Povera a Bari Pino Pascali Delfino 1966 Germano Celant. Quegli anni

Arte Povera a Bari: Pino Pascali - Delfino - 1966 - photo Marco Dabbicco

Ricordi com’è nata l’Arte Povera?
Non so con precisione. Sentivo che c’era un clima nuovo, fatto di tanti elementi che si combinavano tra loro. Allora in Italia c’era l’invasione americana: i pop erano arrivati da noi attraverso Gian Enzo Sperone, ma stavano arrivando anche i minimal. Ricordo di aver visto con Alighiero Boetti un’immagine di una catasta di legno di Carl Andre, pubblicata nel 1966 sul primo numero di Artforum arrivato in Italia. Nel 1967 Boetti fa una mostra da Christian Stein, e tra il ‘66 e il ‘67 sentii che stava succedendo qualcosa nell’arte, che non era la pittura pop né il minimal.

Di cosa parlavi con gli artisti?
Nessuno usava la parola ‘arte’. Si lavorava. Eravamo figli di operai e impiegati, e non borghesi ricchi che potevano permettersi di avere l’hobby dell’arte. Volevamo esprimerci perché venivamo da una cultura dura, cattiva, un po’ come gli inglesi arrabbiati di oggi.

Come hai scelto i tuoi compagni di strada?
Abitavo a Genova, dove erano arrivati artisti come Renato Mambor e Paolo Icaro, che erano scappati da Roma perché non avevano spazio. Pascali ci passava ogni tanto: una volta, durante un viaggio in macchina, era passato da Genova e mi aveva lasciato le sue bombe a mano come gesto artistico. Poi a Genova aveva aperto la Bertesca, una galleria aperta all’arte di avanguardia, dove ho fatto le prime mostre di Arte Povera.

Arte Povera + Azioni Povere Amalfi 1968 6 Germano Celant. Quegli anni

Arte Povera + Azioni Povere - Amalfi, 1968

Insomma, era una dimensione aperta?
Una realtà fluida, in divenire, che cambiava costantemente, da una mostra all’altra. Agli Arsenali di Amalfi nel 1968 (qui si tenne Arte Povera+Azioni Povere, forse la vera mostra fondativa del movimento, NdR) c’erano gli artisti invitati e gli “aggregati”, come Paolo Icaro, Gino Marotta e Daniel Buren, che facevano delle azioni personali, spontanee, per partecipare e sostenere la situazione.

Quali furono le reazioni della critica ufficiale a questo modo di concepire le mostre?
Si scatenò subito la reazione negativa della critica romana, con il veto di Argan e Calvesi agli artisti di partecipare ad Amalfi. A questo punto capii che ce l’avevo fatta, avevo creato una corrente scomoda.

Una bella soddisfazione, immagino…
Certo! Così decisi di scavalcare l’Italia, dove mi avevano messo troppi ostacoli, e di puntare sull’asse Amsterdam-Londra, per poi arrivare a New York.

Chi sono stati i tuoi maestri?
Una figura fondamentale è stato lo storico dell’arte Eugenio Battisti, che è stato dimenticato dal mondo accademico italiano, ma aveva capito l’importanza di avere uno sguardo internazionale. Ricordo che andavamo insieme a New York sugli aerei dell’Iceland Air, i più economici in assoluto. Combattevamo la stessa battaglia, lui sull’antico e io sul contemporaneo.

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Arte povera 1968 - veduta della mostra presso il MAMbo, Bologna 2011

Com’è nato il termine ‘Arte Povera’?
Dalle circostanze. Avevo appena scritto un testo nel catalogo della mostra Lo Spazio dell’Immagine a Foligno nel 1967, e quindi sapevo di dovermi confrontare con il problema del rapporto tra l’opera e lo spazio. Vedevo che gli artisti utilizzavano materiali come il carbone, giornali o fascine di legno, e quindi mi venne in mente la parola ‘povera’. Il riferimento al teatro povero di Grotowsky è arrivato più tardi, allora non lo conoscevo perché c’erano poche informazioni su quello che accadeva fuori dall’Italia.

Come mai avevi pensato a un gruppo?
Allora era necessario. Fino agli anni ‘80 in questo Paese non c’erano strutture pubbliche museali per il contemporaneo, per farsi notare bisognava urlare. L’urlo è il manifesto. Quando poi arrivano le strutture, non c’è più bisogno di urlare, e quindi i manifesti scompaiono.

Qual è stata la funzione dell’arte per te?
Mi ha salvato la vita.

Ludovico Pratesi

triennale.org/artepovera

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #3

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Ludovico Pratesi

Ludovico Pratesi

Curatore e critico d'arte. Dal 2001 al 2017 è stato Direttore artistico del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro Direttore della Fondazione Guastalla per l'arte contemporanea. Direttore artistico dell’associazione Giovani Collezionisti. Professore di Didattica dell’arte all’Università IULM di Milano Direttore…

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