La Sardegna e i suoi murales

Mille sono i modi attraverso i quali si può attraversare la Sardegna. Da quelli più banali ma senz’altro splendidi, a base di spiagge e mare, a quelli meno frequentati ma altrettanto affascinanti. Quello che vi proponiamo qui è un itinerario lungo la secolare tradizione del muralismo sardo. Dal 1968 di Pinuccio Sciola fino ai grandi street artist come Blu ed Ericailcane.

Era giugno di tanto tempo fa. La memoria non è più così lucida, i ricordi sono soffusi nelle sensazioni dell’entusiasmo, nello stupore di tanta gente, per i muri bianchi! I volti cotti dal sole incorniciavano sorrisi pieni di amicizia e di spontanea partecipazione. Le mani callose stringevano altre mani. La lunga processione del Corpus Domini si snodava nelle strette strade imbiancate di calce, i mattoni crudi si vestivano a festa con le frasche portate dai giovani e con i primi colori sui muri. Si iniziava inconsapevolmente la nuova storia di San Sperate, una storia scritta con i colori dell’entusiasmo”.
Era il 1968, anno di grande fermento politico-culturale e di rivoluzioni, quando Pinuccio Sciola, in concomitanza con il Corpus Domini e davanti allo stupore dei compaesani, inizia la rivoluzione dei “muri bianchi” coprendo di calce i muri in ladiri (mattoni d’argilla cruda e paglia) di San Sperate e dando il via a uno dei primi esempi d’arte ambientale in Italia.

IL CASO SAN SPERATE

La tradizione del muralismo messicano, la cui paternità è da attribuire a Gerardo Murillo al principio del XX secolo, è stata di fondamentale rilevanza per Sciola, che nel 1973 parte per il Messico dove entra in contatto e collabora con David Alfaro Siqueiros, dando vita a un gemellaggio tra San Sperate e Tepito, quartiere di Città del Messico. I canoni della nuova pittura messicana, che affonda le radici sul concetto d’arte pubblica a carattere collettivo, nonché espressione del sentimento popolare dove libertà, giustizia e ideali rivoluzionari sono le tematiche dominanti, ben si addice all’impegno collettivo di una popolazione che guardava soprattutto al risveglio socio-culturale.
Circondato da artisti operanti in Sardegna quali Angelo Pilloni, Foiso Fois, Liliana Cano, Gaetano Brundu, Primo Pantoli, Giorgio Princivalle, Giovanni Thermes, Diego Asproni e Tonino Casula, Sciola punta alla riscoperta del patrimonio culturale e alla salvaguardia del mondo rurale in antitesi a quello urbano nel tentativo di riaffermare un’identità nazionale. In breve tempo San Sperate diventa un paese-museo unico al mondo, centro di propulsione della cultura che seduce personaggi legati all’ambito artistico-culturale nazionale e internazionale. Arrivano artisti come Elke Reuter, Meiner Jansen e Otto Melcher mentre dal Messico giungono José Zuniga e Conrado Dominguez. Contemporaneamente si formano nuove associazioni, gruppi teatrali e d’azione politica. Da allora l’evoluzione sociale della comunità è documentata attraverso l’arte e la sua funzione pubblica, l’interazione e lo scambio con altre comunità.
Sono 188 le opere murarie che s’incontrano tra le vie del paese. Un enorme patrimonio caratterizzato da una varietà di stili e tematiche firmato da professionisti ma anche da studenti e pittori improvvisati. La straordinaria potenza espressiva dei murales, dai colori saturi e contrastati, racconta il lavoro contadino, le tradizioni popolari, i prodotti della terra, stralci di vita quotidiana e affronta tematiche politico-sociali, le trasformazioni della società, con una diversità stilistica che dal naïf giunge all’iperrealismo passando per le avanguardie storiche tra surrealismo, espressionismo, astrattismo e futurismo. Tra i più significativi, alcuni esempi cubo-futuristi di Sciola che si affiancano ai graffiti picassiani di Antonio Porru e a quelli più brutali del Gruppo artistico di Bologna fino ai più essenziali, fondati sulla linea e giocati su una limitata gamma cromatica, di Erik Chevalier, senza trascurare alcuni dei numerosi trompe-l’œil di vita contadina di Angelo Pilloni.

Elke Reuter a San Sperate. Photo Sara Ledda

Elke Reuter a San Sperate. Photo Sara Ledda

ORGOSOLO RIVOLUZIONARIA

Se la connotazione del muralismo sansperatino è principalmente orientata al recupero, alla salvaguardia e alla valorizzazione delle tradizioni popolari, non si può affermare la stessa intenzione per Orgosolo, dove il primo murale è stato firmato nel 1969 da Dioniso, collettivo di anarchici nato a Milano nel 1965. Ma è solo a partire dal 1975, ad opera del professore senese trapiantato in Sardegna Francesco del Casino che, affiancato da Diego Asproni, Pasquale Buesca e Vincenzo Floris e coadiuvato da scolaresche e abitanti, produsse in tre anni oltre cento murales. Le tematiche sono legate alla disoccupazione, all’emigrazione, alle rivendicazioni sociali e a figure politiche come Emilio Lussu e Antonio Gramsci e letterarie come Grazia Deledda, con una visione legata al folklore che celebra una sardità basata su sentimenti nostalgici e di isolamento, attraverso un espressionismo talvolta violento, caratterizzato dalla deformazione dei tratti, dalla visionarietà del contesto e dai colori stridenti, con una preponderanza dell’aspetto politico rispetto a quello estetico. Nello specifico, un vero e proprio atto di ribellione nei confronti dello Stato. Pertanto viene adottato l’uso di didascalie accanto alle immagini che acquisiscono la connotazione di manifesto politico.

UN MUSEO DIFFUSO

Le esperienze di San Sperate e Orgosolo serviranno da modello per altri centri urbani come Villamar, dove l’artista cileno Alan Jofrè, scampato alla dittatura di Pinochet insieme ad altri esuli cileni, tra cui Uriel Parvex, nel 1976 dà vita alla Brigata Salvador Allende e, insieme al Gruppo Arte e Ambiente guidato da Antioco Cotza e al Gruppo artistico di Serramanna, divulga l’attività muralista nella Marmilla e nel Medio Campidano. Sono una cinquantina i murales di Villamar, molti dei quali, appunto, d’impronta cilena per quanto concerne le scelte cromatiche – con prevalenza di giallo, blu e magenta – e l’impianto monumentale delle figure marcate da spessi contorni.
È invece di Luigi Pu colui che lottò contro la legge delle chiudende che nel 1820 istituì la proprietà privata nei terreni destinati a pascolo e coltura a uso comunitario, a favore dei ricchi proprietari terrieri. A trenta chilometri da Cagliari si trova Serramanna con i suoi 23 murales – e uno che si distingue in maniera clamorosa, ma che purtroppo si avvia al degrado. Si tratta di Emigrazione è deportazione (1979), opera di grande perizia tecnica e forte impatto visivo di Antonio Ledda, Nello Putzolu, Ico Arba e Samuele Dessì, dove una famiglia incatenata al di là di una barriera di filo spinato allude all’emigrazione come espropriazione della cultura che colpisce non solo il capo famiglia, ma l’intero nucleo.
Tra gli altri importanti centri che meritano attenzione troviamo Tinnura, nell’antica Planargia, con i suoi 35 murales per 270 abitanti, ovvero la più alta concentrazione della Sardegna. Lungo le strade lastricate in trachite rossa, marmo e basalto, dove si lascia essiccare l’asfodelo per la confezione dei cestini e ci si imbatte in numerose fontane e sculture, affiorano momenti di vita rurale e del piccolo borgo, ma anche malesseri e disagi della comunità che portano la firma di Angelo Pilloni, Giambattista Loi, Francesco del Casino, Archimede Scarpa, Pina Monne e Fernando Mussone.
Quest’ultimo presente anche in un altro piccolo centro non lontano da Tinnura, Montresta, con opere di forte impatto emotivo per l’uso dei fondi neri su cui si stagliano scene di vendemmia, mietitura e raccolta delle olive. E ancora Burgos, nella zona del Goceano, dove, tra il ciclo di murales realizzato da Toni Amos e alcuni allievi, si incrocia quello che è uno dei più grandi della Sardegna con un’estensione di trecentoventi metri quadri. Le pareti utilizzate sono quelle dei muri in calcestruzzo, innalzati per arginare la collina dove sorge il Castello Giudicale di Burgos, dove si snodano episodi che narrano le gesta di Gonario di Torres – colui che volle l’edificazione del castello – tra cui battaglie per la sua conquista, il matrimonio di Adelasia di Torres con Enzo, figlio di Federico Barbarossa, e usi e costumi dell’epoca giudicale.
Nella provincia di Nuoro, più precisamente a Irgoli e Oliena, ha operato la pittrice Liliana Cano, che da una parte mette a confronto vecchie e nuove generazioni e dall’altra funzioni religiose, perlopiù processioni e momenti di vita quotidiana, con personaggi in costume sardo.
Per finire non si può ignorare lo splendido murale dell’artista nicaraguense Leonel Cerrato, che a Norbello esegue episodi attinenti alla scoperta dell’America. Da citare anche il primo murale in assoluto realizzato in terra sarda, precisamente a Sinnai, a opera di uno degli artisti più celebri dell’isola, Foiso Fois, che nel 1964 dà vita a La rinascita, riferito al Piano di Rinascita attraverso il programma di industrializzazione dell’isola. Unico nel suo genere perché realizzato in parte a graffito con un’impronta che risente del Realismo Socialista, è stato transennato a causa della struttura pericolante e delle importanti scrostature che il colore sta subendo.

Andrea Casciu alla Galleria del Sale di Cagliari. Photo Urban Center

Andrea Casciu alla Galleria del Sale di Cagliari. Photo Urban Center

LA FINE DI UN’EPOCA

Alla fine degli Anni Ottanta il muralismo sardo sembrava avviato sulla via di una pittura fine a se stessa, trasposta sui muri da mani che non perseguivano un fine collettivo. Non erano più i murales a stimolare l’opinione pubblica, ma l’opinione pubblica che gestiva i murales a piacimento. Fine del muralismo sardo”. Se è vero che il murale è un moderno affresco a carattere collettivo prodotto dall’arte di strada, armonicamente inserito nel contesto urbano e paesaggistico, adatto a veicolare messaggi politico-sociali come espressione del sentimento popolare in modo diretto e immediato, non possiamo che essere d’accordo con Giulio Concu, che nella sua pubblicazione sui murales isolani ne descrive l’inevitabile declino.
Esso rimane vivo solo grazie all’apporto di artisti professionisti come Rosanna Rossi, Pinuccio Sciola, Giovanni Farci, Luciano Lixi, Aligi Sassu, Gaetano Brundu, Ermanno Leinardi e Angelo Liberati che, rinnovandone il linguaggio, riescono a mantenere saldo il legame con la realtà locale. Alcuni di questi, coinvolti in un’esperienza a Settimo San Pietro nel 1978, che Salvatore Naitza definisce “la raccolta pubblica più grossa di arte contemporanea alla portata degli occhi di tutti” – di cui purtroppo rimane ben poco –, sono intervenuti di pari passo con l’edificazione dei nuclei abitativi popolari, affiancando e avvalendosi della collaborazione delle maestranze, con l’utilizzo di materiali per l’edilizia a base di cristalli di quarzo.
Mentre tra gli ultimi a lasciare testimonianza è da citare Piercarlo Carella con i suoi mostri della società contemporanea. Questa innovazione non avviene per altri autori, che cercavano di comunicare con scarsa efficacia messaggi ideologici stereotipati, spesso artisticamente kitsch o carenti dal punto di vista artistico. Il muralismo si avviava a uscire da quel carattere collettivo per diventare un fenomeno di autocelebrazione di artisti spesso poco talentuosi. A tutto questo si aggiungano le dispute tra muralisti e amministratori locali, ma soprattutto il vero problema è stato nella mancanza di coerenza estetica e organizzativa. “Questo avrebbe dovuto essere il cuore di una seria discussione, perché – fatte salve quelle rare volte in cui i muralisti tentarono la strada dell’equilibrio, giocando sulla contraddizione ma creando l’armonia tra passato e presente – vi furono troppe opere dipinte frettolosamente e maldestramente, troppi episodi aggressivi e invadenti che crearono disarmonia nel paesaggio urbano”, prosegue Concu. Murales di indubbia scarsità artistica si moltiplicarono a dismisura. Sagre e manifestazioni erano il pretesto per mettere in piedi concorsi per il murale “più bello” senza che questo avesse attinenza col territorio o s’inserisse coerentemente in esso. A dare il colpo finale, l’idea che si dovessero sfruttare come attrazione turistica e per questo restaurati a mo’ di poster, nonostante la loro funzione fosse legata a un preciso momento storico e pertanto destinato a sbiadire.

LA RINASCITA CON LA STREET ART

A tirare su le sorti del muralismo, alla fine degli Anni Novanta, nonostante il loro operato non si discosti iconograficamente dal folclore isolano e si allontani dai clamori ideologici, Pina Monne, Toni Amos, Luigi Pu e Fernando Mussone, mentre si dovrà aspettare fino agli Anni Zero per vedere diffondersi il fenomeno della Street Art.
Il muralismo è solo un pretesto per far incontrare la gente”. È ancora l’illuminato Pinuccio Sciola a capire l’importanza della Street Art e a voler mettere le basi per il superamento dell’accezione negativa nei confronti dei writer promuovendo il progetto Il Fiume dei Writers (2008). Workshop che ha consentito la riqualificazione dell’alveo di un canale in disuso (Rio Flumineddu) e il consolidamento del legame tra la comunità della zona e quella di San Sperate attraverso una riflessione sul muralismo da parte di trentasei giovani artisti guidati dallo stesso Sciola. Il risultato è stato quello di una creatura fantastica, ibrido antropomorfo dai lunghi tentacoli che unisce le due sponde per un totale di settanta metri.
Qualche anno dopo, precisamente nel 2011, l’amministrazione comunale sassarese finanzia alcuni progetti di riqualificazione urbana delle zone periferiche della città, in particolare dei quartieri di Latte Dolce e Carbonazzi, tra cui Street Art 2011 e 2012, progetti ideati dal collettivo Alim(e)ntazione che hanno coinvolto Blu e Ericailcane, autori di una feroce denuncia nei confronti delle ancora numerose servitù militari in Sardegna, ovvero due grandi mani che versano scorie tossiche, incarnate da missili e carri armati, in un articolato alambicco, oltre a agli interventi più astratti di Moneyless e Tellas. Mentre nel centro storico, in una delle facciate dell’Hotel Turritana da tempo in disuso, è ancora Ericailcane che dedica alla Festa dei Candelieri una grande tartaruga che porta sul carapace dieci candele accese.
A San Gavino Monreale il primo murale nasce, invece, da un episodio drammatico. Nel 2013 in conseguenza alla morte prematura di Simone Farci detto Skizzo, la comunità organizza una festa il cui ricavato sarà stanziato per la realizzazione di un murale da parte del compaesano Giorgio Casu. Da qui una lunga serie di interventi a opera di artisti locali come Crisa, Andrea Casciu, La Fille Bertha, Skan, ma anche Ericailcane, il messicano Spaik e la colombiana Bastardilla. Il paese si trasforma e si libera dal grigiore nel giro qualche anno. Compaiono, tra gli altri, personaggi come Don Chisciotte, Eleonora d’Arborea, David Bowie, Gigi Riva e Antonio Gramsci.

Andreco alla Galleria del Sale di Cagliari. Photo Urban Center

Andreco alla Galleria del Sale di Cagliari. Photo Urban Center

COSA SUCCEDE A CAGLIARI

Un anno dopo, a Cagliari, dall’incontro tra l’associazione Urban Center e quindici giovani artisti, perlopiù locali, nasce la Galleria del Sale. Un progetto di riqualificazione urbana attraverso un’operazione di Street Art che identifica la zona in cui si articola il percorso a cielo aperto, concepito nel contesto della pista ciclabile che congiunge il porticciolo di Su Siccu al Parco di Molentargius. Una vera e propria galleria d’arte, armonicamente inserita in un panorama di confine della città che è diventata oramai parte integrante del panorama urbano. Tellas, Crisa, La Fille Bertha, Skan, Enea, Neeva, Ufoe, Conan, Daniele Gregorini e Manuinvisible sono alcuni degli artisti coinvolti nella prima fase del progetto, seguiti da Andreco, Zed1, Bastardilla, Kiki Skipi e Veronica Paretta per riflettere sul rapporto tra uomo e natura in rapporto alla tecnologia, all’influenza dei media e al contesto urbano, con un occhio di riguardo alla tutela del paesaggio in relazione ai fenomeni di trasformazione urbana e abbandono. E lo fanno con maestria e diversi approcci estetici, tra realismo stilizzato, neopop, decorazione seriale ai limiti dell’astrazione, surrealismo e pattern. Ed ecco i personaggi senza volto di Kiki Skipi, l’universo dei barbuti di Andrea Casciu, gli affastellamenti di segni e simboli di Crisa, le donnine dalle labbra cuoriformi in versione bucolica di La Fille Bertha e il brulicare di linee che s’intersecano implodono ed esplodono di Veronica Paretta, ultima a intervenire alla Galleria del Sale. Gli stessi artisti, più molti altri anonimi, compaiono senza soluzione di continuità nelle pareti della lunga via San Saturnino, nel centro storico cagliaritano.
Sono tanti i murales realizzati a Cagliari negli Anni Ottanta e andati distrutti. Soprattutto uno che ha coinvolto l’opinione pubblica destando non poche polemiche: il murale di Pinuccio Sciola realizzato in Piazza Repubblica nel 1985. Tre blocchi monolitici sovrapposti in un equilibrio precario a formare un menhir, cancellato nel 2013 a insaputa dell’artista durante la ristrutturazione della palazzina che lo ospitava.
Per finire questa lunga carrellata degli episodi più rappresentativi del muralismo sardo, merita una citazione anche l’opera di Tellas a Sant’Avendrace, realizzata in occasione di Cagliari Capitale Italiana della Cultura, un grande paesaggio marino stilizzato, giocato sulle tonalità del blu, che dialoga con lo stagno di Santa Gilla.
In definitiva l’antichissima Sardegna, oltre all’immenso patrimonio archeologico, fatto di nuraghi, domus de janas, pozzi sacri, tombe di giganti, menhir e quant’altro, spesso poco conosciuto anche dagli stessi sardi, possiede qualcosa come quasi 2mila murales (sono 1.854 quelli schedati, ma il censimento non è ancora terminato). Sarà pur banale ribadire che la Sardegna non è solo spiagge paradisiache e mare incontaminato, ma questa è la realtà.

Roberta Vanali

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45

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Roberta Vanali

Roberta Vanali

Roberta Vanali è critica e curatrice d’arte contemporanea. Ha studiato Lettere Moderne con indirizzo Artistico all’Università di Cagliari. Per undici anni è stata Redattrice Capo per la rivista Exibart e dalla sua fondazione collabora con Artribune, per la quale cura…

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