Guardare la fotografia per guardare il mondo. Intervista alla fotografa Cristina de Middel
Quai de la Photo, Magnum Photos e attualità: Cristina de Middel ci ha raccontato la fotografia contemporanea a 360° in occasione della sua ultima mostra a Parigi

La Senna color piombo del primo autunno parigino, solitamente docile, si infrange in un impeto di irrequietezza contro le vetrate antistanti l’approdo dei motoscafi quando passa lento un rimorchiatore che sposta le acque. Un’onda fredda di cui nessuno pare accorgersi nella sala sotterranea, quasi subacquea, di Quai de la Photo, il molo dedicato alle esposizioni di fotografia contemporanea nel cuore della capitale francese. Qui, dove l’illuminazione artificiale fa da contraltare alla luce acciaio del sole, è in corso il vernissage di The Fragrance of Trelawny, la nuova mostra di Cristina de Middel (Alicante, 1975), fotografa e artista spagnola che ha fatto del confine tra realtà e finzione la propria lingua madre.
Cristina de Middel: fotografare per interrogare
Nata ad Alicante nel 1975, de Middel ha studiato Belle Arti e Fotogiornalismo prima di lavorare per diversi anni come reporter. È, però, nella fotografia d’autore che ha trovato la propria voce, costruendo un linguaggio in cui l’osservazione documentaria si intreccia al gesto narrativo, restituendo immagini che interrogano più che rispondere. Ad esempio, il suo dirompente lavoro d’esordio, The Afronauts (2012), rileggeva in chiave ironica e poetica la storia del programma spaziale zambiano degli anni Sessanta, trasformando un episodio marginale in un racconto sull’immaginazione come forma di libertà. Nel 2013 è entrata a far parte di Magnum Photos, e tra il 2022 e il 2024 ne ha guidato la presidenza, aprendo l’agenzia a nuovi linguaggi, mercati e interlocutori.
Un incontro tra vista e olfatto: “The Fragrance of Trelawny”
L’abbiamo incontrata a Parigi durante il vernissage del suo ultimo progetto, nato dall’invito di Velier e Hampden Estate, una delle più antiche distillerie giamaicane di rum, che le ha chiesto di interpretare fotograficamente l’identità sensoriale e soprattutto olfattiva del luogo. Si tratta del terzo capitolo della collaborazione tra l’agenzia Magnum e l’azienda caraibica, che ha commissionato ad altrettanti fotografi di realizzare scatti che potessero divenire etichette per una serie limitata di bottiglie magnum (intese come formato 1,5 litri) presentate e messe all’asta in esclusiva durante il Whisky Live di Parigi.
Con un bicchiere di rum tra le mani, ci facciamo raccontare del suo periodo giamaicano da cui nasce una serie di scatti sospesa tra sogno e percezione, in cui l’artista tenta di tradurre in immagine l’esperienza nasale, facendo del visivo un linguaggio capace di evocare ciò che non si può vedere. Ma è anche l’occasione di discutere della sua eredità alla Magnum ora che il suo mandato di presidenza è finito, e del ruolo della fotografia come strumento di comunicazione in un mondo in rapido cambiamento tanto geopolitico quanto percettivo.

Intervista a Cristina de Middel
“The Fragrance of Trelawny” è nata dal tuo incontro con Hampden Estate. Come sei riuscita a trasformare questo luogo in una narrazione visiva?
Quando un incarico si allinea perfettamente con la propria ricerca personale, diventa un’esperienza unica. In questo caso è accaduto davvero, perché il progetto rispecchiava il mio modo di concepire la fotografia: come un territorio in cui realtà e invenzione si fondono, e in cui è necessario costruire una narrazione per dare senso a ciò che gli occhi incontrano. A Hampden Estate era sorprendentemente facile farlo. Appena varcata la soglia, un lungo viale di palme ti accoglie come un presagio, annunciando che qualcosa di inatteso sta per avvenire.
Come ti sei confrontata con lo spazio?
La sfida affidatami da Velier e Hampden era chiara e affascinante: provare a “dare forma all’aroma”, a rappresentare visivamente il profumo. Un paradosso, certo, ma anche un invito a tradurre l’invisibile. E paradossalmente, si è rivelato naturale. Il luogo era traboccante di stimoli, di dettagli e suggestioni. E la squadra con cui ho lavorato è stata straordinaria, meglio di quanto potessi immaginare. Ogni mattina era come entrare in un laboratorio ludico, dove si decideva insieme quale follia tentare quel giorno, senza obiettivi né limiti. Alcune idee sembravano impossibili, eppure nel provarci trovavamo soluzioni impreviste.
E quindi? Cosa è successo?
Siamo passati dal distendere un tappeto rosso al tramonto al ricoprire di tessuti bagnati di rugiada i prati all’alba. Abbiamo fatto arrivare stoffe da lontano, ci siamo accorti della presenza di decine di pavoni nella proprietà e abbiamo voluto spostarli nella sala di fermentazione — un luogo ostico persino per gli esseri umani, figuriamoci per loro, che sembravano chiedersi dove fosse finito il loro giardino. Tutto è nato da una leggerezza creativa, dalla libertà di provare, dalla fiducia ricevuta. A volte si sbagliava, a volte no. È stata un’esperienza di gioco e consapevolezza insieme. E voglio ringraziare chi mi ha permesso di provarci.








Durante il tuo mandato hai guidato Magnum verso una maggiore apertura a nuovi linguaggi visivi e a nuovi mercati, dal dialogo con i brand e le istituzioni culturali fino ai collezionisti e all’editoria indipendente. Quale consideri essere la tua principale eredità all’interno dell’agenzia, e in quale direzione volevi orientarne l’identità?
Non è semplice rispondere, perché ho lasciato la presidenza solo da pochi mesi e forse i cambiamenti che abbiamo introdotto si manifesteranno col tempo. Spero che l’agenzia abbia saputo adattarsi alle sfide del presente: l’intelligenza artificiale, ad esempio, o la crisi continua che attraversa il mondo dell’immagine. Abbiamo lavorato su una ristrutturazione che permettesse di proteggere l’archivio indipendentemente dal destino commerciale dell’agenzia. Era necessario assicurarsi che la memoria di Magnum fosse preservata anche al di là del mercato. Ma ciò che considero più importante è il clima che si è creato.
Ho sempre cercato di favorire un dialogo interno, di far emergere le differenze come valore. Forse perché mi trovo a metà strada tra due visioni: comprendo e apprezzo tanto la fotografia documentaria quanto quella concettuale. E questa posizione intermedia, capace di empatia verso entrambi i poli, ha forse aiutato a costruire un ponte tra mondi che per molto tempo si erano percepiti distanti. Se qualcosa ho lasciato, spero sia questa idea: che dentro Magnum possano convivere sguardi diversi, e che la complessità sia una forma di forza, non di fragilità.
Nel contesto geopolitico attuale, segnato da conflitti e tensioni, credi che la fotografia debba tornare ad assumersi il compito di raccontare realtà scomode e disturbanti, con un linguaggio che resti artistico, ma al tempo stesso radicato nel realismo?
Non credo che la fotografia in sé abbia una responsabilità assoluta. Nessuno ce l’ha. Non penso che ai fotografi si debba attribuire un dovere morale di testimonianza: è una scelta, non una missione. È un atto volontario, che nasce da convinzioni personali, e che dipende tanto da chi fotografa quanto da chi guarda e da chi diffonde le immagini.
Spiegaci meglio…
Se dovessi parlare di una responsabilità possibile, direi che oggi non riguarda tanto l’essere presenti in un luogo di conflitto o documentare la sofferenza. Certo, dovrebbero esserci più fotografi a Gaza, più reporter indipendenti, più media liberi. Ma la vera sfida è un’altra: sviluppare un pubblico capace di leggere le immagini, di comprenderne la costruzione, di confrontarle e metterle in dubbio. Senza questa alfabetizzazione visiva, lo spettatore diventa vulnerabile, manipolabile, esposto alla propaganda. Ecco, se oggi esiste una missione per la fotografia, credo sia questa: aiutare le persone a decifrare ciò che vedono, a non accettarlo in modo passivo.
Federico Silvio Bellanca
Libri consigliati:
(Grazie all’affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti)
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati