Cosa sta accadendo realmente a Gaza? Intervista al fotogiornalista Fabio Bucciarelli
Bucciarelli arriva a Modena con una mostra e un libro che documentano undici anni di lavoro sul campo, dal 2013 al 2024, tra Gaza, la Cisgiordania e il Libano. Lo presenterà in anteprima italiana al DIG festival a partire dal 24 settembre. L’intervista e le immagini

Cosa significa operare nelle zone di conflitto? Che cosa sta realmente accadendo nella Striscia di Gaza? Quale rapporto intrattiene oggi il giornalismo con la realtà? A queste domande – e a molte altre – cerca di dare risposta il DIG (Festival internazionale di giornalismo investigativo), diretto da Alberto Nerazzini, Valerio Bassan, Davide Fonda, Philip di Salvo e Francesca Coin, che si svolgerà a Modena del 24 al 28 settembre con un programma articolato di ospiti e voci. Tra queste, e in anteprima italiana, sarà presentata la mostra Occupied Territories di Fabio Bucciarelli, fotografo e giornalista italiano di fama internazionale, noto per il suo lavoro nelle zone di conflitto. Lo abbiamo intervistato per raccontare undici anni di lavoro tra Gaza, la Cisgiordania e il Libano, ma anche il suo punto di vista sul giornalismo e la realtà.

Intervista a Fabio Bucciarelli
Il libro e la nuova mostra Occupied Territories nascono da oltre un decennio di lavoro tra Gaza, Cisgiordania e Libano. Cosa raccontano questi scatti?
Occupied Territories narra la condizione quotidiana di chi vive in uno spazio e in un tempo segnati dall’occupazione israeliana, costante e opprimente. I territori occupati non sono semplicemente luoghi sulla mappa come Gaza, il Libano o la Cisgiordania, ma simboli di un’esperienza più profonda, che va oltre la geografia: sono spazi compressi sotto un assedio permanente, dove il tempo è sospeso e le persone non hanno la libertà di muoversi, di vivere davvero libere. È l’interruzione di vite costrette a ridefinirsi continuamente in un contesto di oppressione eterna.
Su che periodo si è concentrato?
Il libro è il risultato di anni di lavoro sul campo, dal 2013 al 2024, tra Gaza, la Cisgiordania e il Libano: un contenitore di memoria e testimonianza, un peso condiviso che non è più solo mio, ma anche di chi sceglie di continuare a guardare e di credere in un giornalismo indipendente e necessario. Attraverso testi e schede storiche, vuole riflettere sulla condizione di oppressione endemica della Palestina e offrire un contesto su come questa abbia avuto origine almeno nel 1948, con la fondazione dello Stato di Israele e il conseguente ampliamento dei confini rispetto a. quanto assegnato dalla risoluzione ONU, senza rispettare la partizione. Il volume intende quindi restituire un quadro storico e informativo, in contrasto con molti revisionismi che trattano la questione israelo-palestinese solo a partire dal 7 ottobre.
Cosa ha osservato in questi anni?
Nel 2013, il primo anno in cui sono stato a Gaza, la Striscia era già una prigione a cielo aperto, come l’ha definita lo storico israeliano Ilan Pappé. L’oppressione e l’isolamento esistevano già allora, lontano dall’interesse mediatico. La vita per i palestinesi era da anni impossibile, con la libertà già soggiogata al volere israeliano. Oggi il re è nudo e il piano di occupazione si sta compiendo attraverso un genocidio programmato, davanti agli occhi del mondo.
Qual è la testimonianza che sente lei oggi di portare da Gaza?
A Gaza l’accesso è vietato ai giornalisti internazionali dal 7 ottobre 2023, bloccato dall’IDF, l’esercito israeliano. È la prima volta nella storia che il giornalismo indipendente, per due anni consecutivi, non ha avuto accesso a documentare un conflitto. Tutte le fotografie e i video che vediamo dalla Striscia sono opera dei giornalisti palestinesi, i più coraggiosi tra noi, che a rischio quotidiano della propria vita continuano a raccontare l’olocausto palestinese. Ad oggi, più di 250 giornalisti palestinesi sono stati uccisi nella Striscia di Gaza dalle bombe israeliane: il numero più alto mai registrato. Dopo il 2023, l’unico modo per fotografare Gaza è stato dall’alto, a bordo di un C-130 dell’aviazione giordana impegnato nelle operazioni di lancio degli aiuti umanitari. Una pratica folle e pericolosa, ma che per un periodo è stata l’unico mezzo per far arrivare cibo alla popolazione. Insieme a Fabio Tonacci l’abbiamo raccontato per La Repubblica.
Che cosa significa operare in una zona di guerra?
Lavorare in una zona di guerra significa innanzitutto convivere con l’assenza di controllo. Non si tratta solo di un pericolo fisico, ma di uno spazio in cui le certezze vengono meno. La guerra toglie tutto, cercando di spogliare persino dell’identità. Come sempre, è scatenata e portata avanti da interessi economici, di potere e di controllo dei governi. Non esistono guerre giuste né morti accettabili.
Lei ha lavorato anche ne L’Aquila post terremoto. Come cambia il suo modo di operare da un contesto di guerra ad una città terremotata?
Documentare un terremoto come quello de L’Aquila è diverso, sia per il rischio personale sia per la natura della violenza, che in guerra è inflitta dall’uomo per esercitare dominio. Eppure, un filo rosso sottile unisce le due esperienze: la distruzione, la perdita, l’assenza improvvisa di sicurezza. In entrambi i contesti, ciò che emerge sono le vite spezzate, la vulnerabilità dei civili, di chi non ha scelto di esserci e si ritrova a pagare il prezzo più alto. Amplificare loro voce significa riconoscerli come esseri umani la cui sofferenza ci riguarda tutti.
Nel 2016 ha pubblicato un libro molto importante, The Dream, che racconta la condizione del rifugiato. Quale storia è emersa da questo lavoro, che ha risvolti estremamente umani?
Fino ad oggi, tutti i progetti editoriali su cui ho lavorato hanno rimesso il tempo al centro della narrazione, in contrasto con le frenetiche logiche mediatiche. Parlo di anni di lavoro, di andate e ritorni nei luoghi, di storie che continuano a raccontarsi. Ho scelto di dilatare i tempi per affrontare temi trasversali, capaci di andare oltre l’urgenza della copertura giornalistica e aprire spazi di riflessione. Dal lavoro The Dream è emersa la storia universale dell’uomo e della donna che, costretti dalla guerra e dalla violenza, diventano migranti. Non si tratta solo di raccontare la condizione del rifugiato, ma di restituire dignità alle persone incontrate lungo il cammino, mostrando la loro forza e la capacità di continuare a sognare una vita diversa.
Come si svolge il racconto?
Attraverso un approccio che unisce fotogiornalismo e fotografia d’autore, il progetto mette al centro l’umanità, rivelando emozioni, fragilità e speranze. È un racconto empatico che testimonia come, anche nella tragedia, il sogno di libertà, sicurezza e dignità resti il motore che spinge le persone a intraprendere viaggi tanto dolorosi quanto necessari.Per rendere il progetto e le difficoltà del viaggio intrapreso più vicini al lettore, ho pensato a una copertina realizzata con i giubbotti di salvataggio abbandonati dai rifugiati sulle spiagge dell’isola di Lesbo. Ogni ‘giubbotto’ è stato cucito a mano da rifugiati ospitati al Pipka Solidarity Refugee Centre. Per questa produzione mi sono recato personalmente a Lesbo, dove insieme abbiamo realizzato le cover.
La partigiana Joyce Lussu nel 1988 ha dichiarato: “Che cosa ci porterà il 2000? Forse riusciremo a disinnescare tutte le bombe, e a liberarci da tutte le bibbie al lume del buon senso; forse potremo bere l’acqua dei fiumi; e ogni Eva addenterà allegramente, insieme al suo Adamo, succose mele senza additivi chimici né cesio 136 o plutonio 239, senza pericolo di essere cacciati dal paradiso”. Cosa ci hanno portato invece gli anni 2000?
Gli anni 2000 non ci hanno portato il disinnesco delle bombe, ma nuove guerre, e persino un nuovo genocidio finalizzato a cancellare l’identità palestinese. E tutto avviene sotto i nostri occhi. Invece di abbattere muri, ne abbiamo eretti di nuovi, trasformando i confini in luoghi di esclusione e di morte. Abbiamo prodotto più armi, più disuguaglianze, più paura. Eppure, in mezzo a questa tragedia, mi sembra di intravedere una luce: stiamo aprendo gli occhi davanti a un sistema imperialista e neoliberale fondato sul profitto. Solo grazie al potere della collettività potremo cambiare rotta, nella speranza di costruire insieme un futuro più umano.












In questi mesi, oltre al conflitto, si sta scatenando la battaglia delle immagini, tra notizie e fake news (si veda ad esempio il recente dibattito sulla foto postata da Cecilia Sala). Come si fa a raccontare la realtà? Come si può realmente fare la differenza nel maelstrom di scatti, video, testimonianze che arrivano da ogni dove?
C’è molto rumore in giro. Un rumore di fondo sempre più assordante fatto di propaganda, notizie false, menzogne costruite per resettare le coscienze. È in questo caos che il tempo diventa la nostra risorsa più preziosa: non va sprecato in polemiche sterili, ma investito per informarsi, leggere, studiare, fotografare. Oggi più che mai il ruolo dei giornalisti — non dei divulgatori digitali — che raccontano la realtà dal terreno è vitale. Senza di loro, senza i coraggiosi giornalisti palestinesi che documentano Gaza, non sapremmo nulla di ciò che accade. Per questo, nella Factory a Torino stiamo costruendo uno spazio di formazione e memoria: una serie di masterclass con reporter e professionisti che operano direttamente sul campo, insieme a premi Pulitzer e grandi ONG. Perché il giornalismo non solo sopravviva, ma continui a essere una bussola nel mondo in cui viviamo.
I media e gli artisti secondo lei stanno facendo abbastanza per raccontare il conflitto?
Assolutamente no. Aggiungerei che non solo non stanno facendo abbastanza, ma molti media occidentali, americani ed europei, stanno di fatto facendo propaganda sionista, raccontando solo una parte della realtà o addirittura menzogne per orientare l’opinione pubblica. Pensano di poter convincere le masse in questa operazione di soggiogamento culturale, senza rendersi conto che così facendo stanno soltanto accelerando la propria scomparsa.
Questo ha portato a una rottura definitiva — già in atto da anni — del rapporto di fiducia tra il pubblico e i media. Può sembrare un grave danno per l’informazione e per la democrazia, ma ha anche un altro risvolto: le persone, oggi più che mai, vogliono essere informate e non trascinate nella propaganda. Per questo cercano direttamente l’informazione indipendente da chi il giornalismo lo pratica davvero, tagliando gli intermediari scomodi come i giornali e i social media, che hanno trasformato la notizia in semplice divulgazione, nel migliore dei casi.
Cosa fare dunque?
La risposta, quindi, sta nella collettività: unire le forze per portare un cambiamento necessario, non solo nella politica ma anche nell’informazione stessa. Lo stiamo già vedendo sotto i nostri occhi: la Flotilla, i sollevamenti civili, gli scioperi e il boicottaggio ne sono esempi concreti. È però un processo che richiede tempo, perché chi gode di privilegi difficilmente rinuncerà spontaneamente ad essi per sentirsi uguale agli altri.
Santa Nastro
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